Il reato di diffamazione è disciplinato
dall’articolo 595 del codice penale, in forza del quale "è punito chiunque,
comunicando con più persone, offende la reputazione di uno o più soggetti non
presenti".
Oggetto
di tutela del delitto di diffamazione è la reputazione, ossia, per la definisce la dottrina prevalente, l'opinione e valutazione dei
consociati rispetto alla personalità morale e sociale di un individuo, in
contrapposizione all’onore in senso soggettivo.
Ogni persona ha diritto ad un "onore minimo", indipendentemente dalla categoria sociale di appartenenza, dal rango del suo lavoro. Quindi, anche le persone prive di particolari meriti o funzioni possono essere
soggetti passivi del delitto di diffamazione.
La reputazione è l'opinione o stima di cui l’individuo gode in seno alla collettività in cui vive per carattere, ingegno, abilità professionale, qualità fisiche o altri attributi personali (Cass. Pen. 05.12.1955, Calacoci; conformi: Cass. Pen. 12.10.2000, Maniracci; Cass. Pen. 28.02.1995, Lambertini Padovani; Cass. Pen. 12.11.1962, Della Torre).
Per l’identificazione dei
comportamenti offensivi occorre avere riguardo solo ai parametri oggettivi (Tribunale Milano13.06.1956, Teodorani; Cass. Pen. 28.02.1995, Lambertini Padovani; C. Appello Firenze 27.06.1957, Fiordelli.
L’offesa alla reputazione viene cagionata dall'attribuire fatti contrari sia all’ordinamento giuridico sia
al costume, o alla consuetudine sociale (Cass. Pen. 12.10.2000, Maniracci).
Anche le persone giuridiche possono essere soggetto passivo del
delitto di diffamazione e, pertanto, sono titolari del diritto di querela.
Viene al contempo affermata la legittimazione ad agire per diffamazione anche dei singoli componenti degli enti collettivi, allorché le offese si riverberino direttamente su di essi offendendo la loro personale dignità (Cass. Pen. 24.01.1992, Bozzoli; Cass. Pen. 24.11.1987, Scalfari; Cass. Pen. 11.03.1980, Novi).
Cioè, quando
un’offesa è indirizzata ad una persona fisica, ma riguarda le funzioni da
questa svolte all’interno di un ente collettivo, può sussistere una concorrente
aggressione dell’onore sociale dell’ente (Cass. Pen. 26.10.2001, Scalfari;
30.01.1998, Sandri).
Secondo la giurisprudenza, sul
punto concorde con la dottrina, la diffamazione può sussistere solo nei
confronti di un soggetto determinato, o che può essere individuato in maniera
inequivocabile (Cass. Pen. 18.01.1993, Pendinelli; Cass. Pen. 07.06.1989,
Panci).
Il primo requisito della fattispecie in questione si
ravvisa nell’assenza del soggetto passivo al momento della perpetrazione
dell’azione criminosa. Ciò si deduce dall’inciso “fuori dei casi indicati nell’articolo precedente” con cui si apre
il sopra indicato articolo.; L'assenza comporta l’impossibilità che la
persona offesa percepisca direttamente l’addebito diffamatorio e possa,
conseguentemente, difendersi o ritorcere l’offesa.
L'altro requisito consiste nella comunicazione con più persone. E' necessario che
l’agente renda partecipi dell’addebito diffamatorio almeno due persone, le
quali siano state in grado di percepire l’offesa e di comprenderne il
significato.
Il terzo requisito dell’elemento
materiale della diffamazione consiste nell’offesa alla reputazione di una
persona. l'offesa va intesa quale aggressione, come mero pericolo, come
probabilità o possibilità che l’uso di parole o atti destinati a ledere l’onore
provochi una effettiva lesione.
E' logico considerare che nell'ipotesi di diffamazione commessa con il mezzo
televisivo, nella condotta del soggetto attivo potranno essere ravvisabili i tre
requisiti appena descritti.
nel contesto radiotelevisivo, tuttavia, va rappresentato dal diritto
di cronaca, quale causa di giustificazione della diffamazione a mezzo stampa,
che si potrebbe tentare di far valere a
proprio vantaggio nel corso del processo.
Il diritto di cronaca, invero, che
ai sensi dell’articolo 51 c.p. è causa di giustificazione della diffamazione a
mezzo stampa, trova per unanime dottrina il suo fondamento nell’articolo 21
della Costituzione, il quale riconosce e garantisce il diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo
di diffusione.
La libertà di manifestazione del
pensiero non è tuttavia
assoluta ed incondizionata, ma deve ritenersi limitata dall’esistenza di beni
od interessi diversi che siano del pari garantiti o protetti dalla
Costituzione.
La Suprema Corte ha affermato che la libera manifestazione del pensiero non può mai sacrificare l’altrui diritto alla salvaguardia dell’onore, del decoro, della reputazione, del prestigio, beni, questi ultimi, tutelati come inviolabili da altre norme costituzionali (Cass. Pen. 16.02.1988, Artusi; Cass. Pen. 08.03.1974, Carnuccio; 28.11.1972, Martino).
L’esercizio
del diritto di cronaca è lecito in queste ipotesi:
a)
L’interesse che i fatti narrati rivestono per
l’opinione pubblica secondo il principio della pertinenza;
b) La Correttezza dell’esposizione di tali fatti in modo
che siano evitate gratuite aggressioni all’altrui reputazione, secondo il
principio della continenza;
c)
La corrispondenza tra i fatti accaduti e i fatti
narrati secondo il principio della verità.
(Cass. Pen. 16.12.2004, S.; Cass.
Pen. 19.11.2001, Rodriguez; Cass. Pen. 26.05.2000, Graldi; Cass. Pen.
05.04.2000, Panigutti).
La verità della notizia costituisce
il limite logico del diritto di cronaca, ed essa viene considerata
come condizione necessaria per la corretta formazione dell’opinione pubblica,
e, quindi, per il soddisfacimento di quelle esigenze che giustificano la
prevalenza del diritto di cronaca rispetto agli interessi di volta in volta
contrapposti.
Il cronista deve quindi riferire fatti oggettivamente veri “ponendo ogni più oculata diligenza ed accortezza nella scelta delle fonti informative; esplicando ogni più attento vaglio in ordine all’attendibilità di quelle che, di volta in volta, vengono sottomesse alla sua attenzione; operando ogni più penetrante esame e controllo sulle notizie che, dalle stesse, vengano propalate”.
In linea generale, quindi, il giornalista è tenuto a verificare l’attendibilità della fonte e ad effettuare un accertamento sui fatti oggetto della notizia; in presenza di documenti ufficiali di una pubblica amministrazione o dell’autorità giudiziaria della cui veridicità non può dubitarsi, l’attendibilità della fonte sussiste ed è sufficiente a scriminare il giornalista (Cass. Civ., sez. III, 4 febbraio 2005, n. 2271).
Negli altri casi, il giornalista è
tenuto, invece, ad una particolare diligenza e ad esaminare, controllare e
verificare il contenuto del suo articolo o servizio, al fine di vincere ogni
ragionevole dubbio; in questo modo può non incorrere nella condanna per
diffamazione a mezzo stampa, anche se poi i fatti non si rivelino veri (Cass.
Pen., sez. V, 11 marzo 2005, n. 15643).
Inoltre, la giurisprudenza
consolidata ha stabilito che il requisito della verità non è rispettato qualora
la ricostruzione degli avvenimenti avvenga in moda da travisare la consecuzione
degli stessi, omettendo il riferimento a fatti rilevanti e, per contro, propone
taluni in una luce artificiosamente emblematica, al di là della loro obiettiva
rilevanza (Cass. Pen. 15.03.2002, Di Giovacchino; Cass. Civ. , sez. III, 04 luglio 2006, n. 15270; Cass. Pen., sez. V, 14 febbraio
2005, n. 12859).
L’obbligo di rispettare la verità
sostanziale dei fatti viene posto anche dall’art. 21 L. 03.02.1963, n. 69, che
contiene le regole di deontologia professionale del giornalista; l’art. 2 – che
viene richiamato dalla giurisprudenza della Suprema Corte quale norma che deve
orientare la condotta del giornalista nell’esercizio del diritto di cronaca
(Cass. S.U. 30.06.1984, Ansaloni) – afferma il diritto insopprimibile del
giornalista alla libertà di informazione e di critica, limitato dall’osservanza
delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui, ed impone i
doveri di rispetto della verità sostanziale dei fatti, di lealtà e buona fede,
di rettifica delle notizie inesatte e di riparazione degli errori, il tutto nel
rispetto del segreto professionale, dello spirito di colleganza e del dovere di
promozione della fiducia tra la stampa e i lettori.
La seconda condizione che legittima
il diritto di cronaca è l’interesse pubblico della notizia, inteso come
interesse della comunità a conoscere i fatti oggetto della pubblicazione, come
esigenza che la notizia possegga una valenza ed una dimensione di interesse
generale.
L’interesse pubblico sussiste
allorquando si tratti di avvenimenti interessanti la vita collettiva e le
persone che ne sono protagoniste, la conoscenza dei quali è essenziale alla
formazione e all’orientamento della pubblica opinione, in modo che ognuno possa
fare le proprie scelte nel campo
religioso, politico, della scienza e della cultura (Cass. Pen., sez. V, 09
ottobre 2007, n. 42067; Cass. Pen. 23.04.1986, Emiliani; 03.05.1985, Ruschini);
l’utilità sociale dell’informazione è inseparabilmente legata alla verità
dell’informazione medesima, poiché la propalazione di notizie non rispondenti
al vero è non solo inutile, ma anche controindicata al formarsi di una retta
opinione nel pubblico (Cass. Pen. 10.02.1989. Mulser; Cass. Pen. 08.10.1970,
Rodari).
L'attitudine della notizia a
soddisfare una oggettiva esigenza di informazione pubblica non può essere
confusa, comunque, con il mero interesse che il pubblico, per pura curiosità
“voyeristica”, può avere alla conoscenza di particolari attinenti alla sfera
della vita privata di un determinato soggetto, specie quando questo non sia
persona investita di cariche pubbliche o comunque dotata di rilievo pubblico
(Cass. Pen., sez. V, 04 ottobre 2007, n. 46295).
Terza condizione che legittima
l’esercizio del diritto di cronaca è la correttezza del linguaggio usato, la
c.d. continenza, che riguarda i canoni di correttezza formale nell’esposizione
delle notizie (Cass. Civ., sez. III, 13 febbraio 2002, n. 2066).
La Cassazione ha affermato, inoltre, che risponde del delitto di diffamazione il soggetto delegato al controllo di una trasmissione televisiva che non impedisca che frasi oltraggiose alla dignità morale di un soggetto siano pronunciate dagli ospiti della sua trasmissione.
Sono Agostino Cucuzza. L'attività forense mi ha spinto ad essere un avvocato difensore, tutelando i miei assistiti dento e fuori le aule dei tribunali. Il mio ambito di attività è il diritto penale. Presto assistenza e consulenza legale difendendo i diritti delle persone indagate o imputate in procedimenti penali o delle persone offese dal reato. Nelle procedure cautelari incidentali presto assistenza in caso di sottoposizione a misure ablative personali o reali. Organizzazione e cura del rapporto fiduciario con l’assistito costituiscono i punti fondamentali per un'assistenza legale chiara ed esaustiva. Opero in tutta Italia.
Ho patrocinato, anche grazie alle frequenti collaborazioni professionali, a processi penali di primaria importanza e di rilevanza nazionale (relativi ai reati di associazione mafiosa – omicidio - traffico di sostanze stupefacenti maturando un’ampia esperienza nel campo del diritto penale e del diritto processuale penale. Ho approfondito i temi relativi ai reati contro la persona, violenza domestica, reati contro il patrimonio, stalking, reati contro la P.A., costituzione di parte civile, reati ambientali, reati informatici, misure interdittive, misure cautelari personali e reali. Offro consulenza legale e assistenza agli Enti.
In tale delicato settore della violenza (domestica e familiare), mi sono occupato, in particolare, di casi relativi ai reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare e di maltrattamenti contro familiari e conviventi.
Ho curato casi riguardanti la fattispecie di reato di atti persecutori, cd. “stalking”, disciplinato dall’art. 612 bis del codice penale. Tali casi riguardavano sia soggetti "vittime" di stalking e sia soggetti accusati di essere gli autori delle condotte vessatorie.
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