Materie prime: aumento dei prezzi e ripercussioni sui contratti

Scritto da: Erica Antognazza - Pubblicato su IUSTLAB




Pubblicazione legale:

L’accelerazione dell’economia, spinta dalla ripresa post pandemia, sta mettendo a dura prova le catene globali del valore ed il commercio internazionale. Ed invero, dall’inizio dell’anno il sistema economico mondiale sta soffrendo l’aumento dei prezzi di alcune materie prime importanti, forse date per scontate ai più. I prezzi, ad esempio, di legname, acciaio, alluminio, rame e grano sono schizzati repentinamente verso l’alto. E non solo. Le riaperture hanno generato, altresì, un’enorme difficoltà nell’approvvigionamento di tutte queste materie prime, dando origine, dunque, a problematiche di vario genere. Questo trend, a livello mondiale, sta causando gravi problemi alle aziende, rallentando di fatto la ripresa in un momento cruciale. Di conseguenza, il fenomeno sopra descritto si ripercuote negativamente anche nell’ambito delle relazioni intrecciate tra imprese, società, enti pubblici e privati ed anche tra persone fisiche. E sempre in questo quadro, ad assumere un ruolo centrale è il contratto, ovvero quello strumento con cui i diversi soggetti, che operano nel tessuto sociale, definiscono l’assetto dei loro interessi di ordine patrimoniale, producendo determinati effetti giuridici.

Nell’ambito dei rapporti contrattuali, lo shock economico da pandemia mette sul tavolo due problematiche interconnesse tra loro: quella della gestione delle sopravvenute perturbative dell’equilibrio originario delle prestazioni contrattuali e quella dei correlati rimedi di natura legale e convenzionale. Le problematiche attengono alla fase esecutiva di tutti i contratti sinallagmatici che, in quanto tali, ottemperano ad una funzione di scambio nel cui quadro una prestazione è in funzione dell’altra ed il vizio o difetto che colpisce la prima incide sulla seconda.

Il legame tra le due prestazioni è essenziale perché qualora una delle prestazioni venga a mancare, l’altra diviene sproporzionata, vanificando il senso dell’operazione programmata.

Nel cercare di affrontare  le ripercussioni della pandemia sull’universo delle imprese, il Governo italiano ha utilizzato, in diverse occasioni, lo strumento del decreto legge al fine di delineare un insieme di norme a stampo emergenziale e transitorie, volte a concedere un po’ di ossigeno per quei soggetti colpiti dalla pandemia, andando così a fermare il tempo dei rapporti negoziali.

In ogni caso, si precisa che il legislatore non ha introdotto nuovi rimedi per far fronte alle tensioni prodotte dal lockdown e dal fattore scatenante delle materie prime sull’esecuzione dei rapporti contrattuali, sebbene le autorità giudiziarie, alle prese con i diversi casi concreti sollevati, abbiano cercato di fornire un’interpretazione innovativa degli strumenti disciplinati dal codice civile in tema di contratti.

Concentrando l’attenzione sulle conseguenze che l’aumento dei prezzi e la difficoltà di approvvigionamento delle materie prime possono creare nell’ambito dei contratti a esecuzione continuata o periodica, di fondamentale importanza risulta il rimedio dell’eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c., in base al quale il contratto è suscettibile di essere risolto nell’ipotesi in cui la prestazione, per il verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili, è diventata per una delle parti eccessivamente onerosa, avuto riguardo al rapporto di scambio al tempo delle originarie pattuizioni intercorse.

È pacifico che le straordinarie misure di contenimento adottate dal Governo e che l’esorbitante aumento dei prezzi delle materie prime abbiano sbilanciato in via definitiva l’economia del negozio, vuoi impegnando ultra vires una parte dell’esecuzione delle prestazioni che la gravano, vuoi impedendole di trarre dal rapporto le utilità in considerazione delle quali il contrato è stato concluso.

In base all’articolo 1467 c.c. dunque, la parte la cui prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa può invocare la risoluzione del contratto. L’eccessiva onerosità però deve essere intesa come sproporzione ingiustificata tra i valori delle prestazioni, nel senso che l’una non trovi più sufficiente remunerazione in quella corrispettiva. La causa dell’eccessiva onerosità, inoltre, deve rivestire il carattere della generalità: non è sufficiente una mera difficoltà rivelatasi esclusivamente nella sfera del singolo, occorrendo una situazione tale da modificare il valore di mercato della prestazione. Ed in questo senso, viene ricompresa l’attuale ipotesi in esame di aumento spropositato dei prezzi e la difficoltà di procacciamento delle materie prime.

 In diversi settori (dall’energia alla sanità, dai trasporti al turismo, dagli alimentari al terziario), pare evidente che dall’emergenza sanitaria, economica e sociale accesa su scala mondiale stiano scaturendo delle conseguenze che finiscono per riportare tratti di straordinarietà, imprevedibilità e inevitabilità tanto marcati ed eloquenti da legittimare la parte pregiudicata ad agire in giudizio per la risoluzione del contratto divenuto squilibrato.

Ma la parte pregiudicata non dispone solamente dello strumento della risoluzione del contratto per ovviare al problema. E al contempo, la risoluzione del contratto ex art. 1467 c.c. non può intendersi come rimedio completamente risolutivo, perché ciò comporta lo scioglimento del vincolo contrattuale. L’utilizzo di tale strumento, sebbene possa essere utile in determinate circostanze, finisce per pregiudicare le relazioni che sono alla base del tessuto socio-economico.

Ed invero, il rimedio alternativo consiste nella definizione di un accordo con la controparte, attraverso la rinegoziazione dei contenuti contrattuali, evitando, quindi, che il rapporto venga meno. Si pensi, ad esempio, all’esorbitante aumento di una risorsa prima – come il legno – che costituisce il mezzo con cui l’appaltatore può realizzare il servizio, oggetto di un contratto d’appalto. L’appaltatore, ovvero la parte tenuta alla prestazione divenuta eccessivamente onerosa, può chiedere all’altra la modifica del valore della prestazione e, quindi, la diminuzione del prezzo che era stato originariamente stabilito. In questo modo il rapporto contrattuale, seppur modificato, continua a permanere.

Così come le autorità giudiziarie hanno puntualizzato in diverse occasioni, nel contesto dei contratti commerciali, che sono fondamentali  per le attività economiche, l’obiettivo principale del soggetto sfavorito non dovrebbe prevedere lo smantellamento del rapporto, bensì la sua messa in sicurezza, attraverso il riequilibrio delle prestazioni contrattuali.

Si auspica, dunque, l’adozione di una nuova visione di tipo conservativo, volta alla rinegoziazione degli aspetti patrimoniali finalizzati alla realizzazione dell’accordo in gioco. L’emergenza non si dovrebbe, a mio modo di vedere, tamponare attraverso la demolizione del contratto, perché comporterebbe degli effetti controproducenti tali da amplificare questo trend che sta mettendo a dura prova il mercato globale.



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Erica Antognazza

Avvocato civilista e matrimonialista




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