Pubblicazione legale:
Nel
quotidiano svolgimento dell’attività professionale forense mi sono, non di
rado, imbattuto nella controversa tematica del “diritto di cittadinanza” nel nostro ordinamento dell’istituto del trust interno, la cui validità è stata
fonte di acceso dibattito in dottrina e di pronunce giurisprudenziali
contrapposte.
Prima di
entrare nel merito dell’oggetto del presente articolo è però d’uopo non dare
per scontata la nozione di “trust” e svolgere
quindi, per brevi cenni, alcune considerazioni generali in merito all’istituto.
Il riferimento
normativo nazionale è la Legge n. 364
del 1989 che introduce il “trust” nell’ordinamento italiano,
recependolo dal diritto comunitario che all’art. 2 della Convenzione dell’Aja
viene testualmente riferito ai: “rapporti giuridici istituiti da
una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei
beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un
beneficiario o per un fine determinato”.
Tanto con notazione che i beni destinati al trust restano scissi dai
beni di proprietà del trustee che non può, quindi farli propri, né confonderli
con il patrimonio personale.
Il trustee, in altri termini, è il formale intestatario dei beni ma non anche
il proprietario.
Ciò non di meno egli ha il potere di amministrarli, gestirli e disporne,
sempre in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme
civilistiche imposte al trustee dall’ordinamento, con l’obbligo di rendere
conto del proprio operato, posto che è responsabile (anche penalmente) delle
sorti del compendio dei beni facenti parte del trust.
Nello svolgimento della riflessione in
esame è, a mio avviso, imprescindibile fare menzione della nota sentenza della Cassazione Penale n. 50672/2014 che, in
tema di trust, trustee ed appropriazione indebita, non ha posto in dubbio la
validità del trust interno ed anzi ha gettato le basi per una definizione più
precisa dell’istituto.
A tal fine rileva la S.C. che: “devono
assumere rilevanza preminente, nell’interpretazione del negozio sia il vincolo
di destinazione che grava sui beni (che, determinandone la funzione
economico-sociale, ne impedisce la commistione con il patrimonio del trustee )
sia l’esistenza di beneficiari del
negozio fiduciario, a favore dei quali deve indirizzarsi tutta l’attività di
gestione dei beni e rapporti conferiti nel trust, dovendosi attribuire
all’intestazione formale del diritto di proprietà al trustee la valenza di una
proprietà temporale, sostanziata dal possesso del bene, sicuramente diversa da
quella delineata nell’art. 832 cod. civ. e svincolata dal potere di disporre
dei beni in misura piena ed esclusiva”.
Al di là delle considerazioni che precedono, improntate alla definizione
generale dell’istituto del trust, lo specifico oggetto della nostra analisi è
la verifica in ordine alla possibile validità o meno della speciale figura del trust interno (o c.d. domestico) nel
nostro ordinamento.
Per trust interno s’intende quel rapporto giuridico costituito da
cittadini residenti in Italia con beni situati nel territorio nazionale, a
favore di beneficiari italiani, disciplinato da una legge straniera.
In altri termini è definito interno
il trust che non presenta elementi di contatto con ordinamenti giuridici
stranieri, eccezion fatta per la legge regolatrice che rappresenta l’unico
elemento “esterno” rispetto all’ordinamento italiano.
I problemi interpretativi intorno all’ammissibilità di un siffatto
istituto “ibrido” – con elementi oggettivi e soggettivi italiani e legge
regolatrice internazionale - nascono dal conflitto esistente fra la
concezione anglosassone di trust e ed i principi dell’ordinamento italiano in
tema di rapporti di proprietà, tutela dei terzi e successioni.
Prescindendo però da questa sede i pur necessari approfondimenti
dottrinari in tema di trust e del rapporto con l’art. 2740 c.c., conviene, adesso, incentrare l’attenzione su
un’altra interessante pronuncia della giurisprudenza di merito che va ben oltre
la mera definizione del trust data dalla cennata sentenza della Cassazione
Penale, proclamandone, addirittura, in modo espresso la validità.
Si fa riferimento al decreto del Tribunale di Milano, 23
febbraio 2005 che, in tema di omologazione degli accordi di separazione
personale tra coniugi, aventi ad oggetto il trasferimento di beni immobili,
sancisce quanto segue: “può essere omologato un accordo di
separazione consensuale prevedente l’istituzione, da parte di uno tra i
coniugi, di un trust interno autodichiarato nel quale il disponente,
allo scopo di soddisfare le esigenze abitative della figlia minorenne,
conferisce un bene immobile di sua proprietà”.
La pronuncia è parsa, fra altre,
quella che più nettamente sancisce il diritto di cittadinanza del trust interno
nel nostro ordinamento.
Se infatti si considera la
tradizionale “prudenza” del
giudicante italiano in tema di clausole relative agli accordi di separazione
consensuale, appare particolarmente “forte”
il richiamo all’ammissibilità del trust
interno come strumento di regolazione di quei peculiari rapporti.
Il varrebbe a dire che se ammettessimo
il trust interno nella delicata materia dell’omologazione delle clausole di
separazione, a maggior ragione non vi è ambito del diritto che ne possa
escludere l’utilizzo.
Al
di là dello specifico, quanto peculiare, caso che precede, sembra opportuno,
pertanto, concludere per l’ammissibilità del trust interno nell’ordinamento
italiano, non solo e non tanto in virtù dell’ormai costante indirizzo
giurisprudenziale, ma, soprattutto in merito al sempre crescente numero di
autori che ritengono ammissibile e – quindi – valido l’istituto in quanto
l’elemento necessario di estraneità (al fine di considerarlo esterno, alias non
domestico) sia costituito dalla scelta
della legge straniera quale regolatrice dei rapporti.
Bibliografia:
P.
Perlingieri, V. Rizzo, Negozio fiduciario
e Trust in P. Perlingieri, Manuale di diritto Civile, Napoli 2005
M.
F. Giorgianni, N. Fibbi, Quid Iuris? in
Diritto Notarile, Collana diretta da L. Genghini, ottobre 2016