La violazione del dovere di fedeltà ai fini dell'addebito della separazione

Scritto da: Francesco Guido - Pubblicato su IUSTLAB




Pubblicazione legale:

Il secondo comma dell'art. 143 c.c. elenca, tra gli altri doveri coniugali, anche quello di fedeltà, in linea generale da intendersi come la reciproca astensione dei coniugi da relazioni sentimentali con altre persone.

Parte della dottrina (Buonadonna, De Filippis, Iosca, Merola, Lupo in "La responsabilità nell'addebito della separzione") ha rilevato come il fondamento di siffatto dovere sia finalizzato ad ottenere due effetti:

a) tutelare il valore dell'unità familiare, inteso come comunione materiale tra i coniugi improntata all'esclusività del vincolo;

b) garantire il "clima di fiducia" tra i coniugi, indispensabile per il buon funzionamento del matrimonio, avuto anche riguardo della necessità che non sorgano incertezze in ordine alla filiazione.

Tuttavia tale concezione, ancorché fondata probabilmente sul "comune sentire" della maggior parte dei non addetti ai lavori, è, a parere dello scrivente, eccessivamente ancorata a ricostruzioni oramai superate e, come tali, da considerare inadeguate a descrivere in modo esaustivo l'odierno quadro sociale ed il connesso mutamento dei costumi.

D'altronde il diritto, soprattutto in materia di famiglia, non può che rimodulare costantemente i propri fondamenti, adeguandosi alle evoluzioni sociali ed alle rinnovate esigenze di concepire la famiglia alla luce di nuovi valori e secondo prospettive, talvolta, persino antitetiche rispetto al passato.

Sempre in tema definitorio della nozione di "fedeltà" - tralasciando le oscillazioni della giurisprudenza che, nelle prime sentenze successive alla riforma del diritto di famiglia del 1975 conferiva al dovere in argomento un contenuto di carattere essenzialmente sessuale, di modo che la violazione dovesse restrittivamente individuarsi nell'adulterio, mentre, in tempi più recenti ne ha esteso il concetto riconducendolo anche al "tradimento" meramente affettivo - è da considerare che molti autori hanno, a modesto parere dello scrivente, errato nell'attribuire alla "fedeltà" un contenuto eccessivamente condizionato da fattori etici, se non quando religiosi.

Appaiono, così, del tutto fuorvianti le affermazioni secondo cui l'obbligo di fedeltà è l'impegno del coniuge a non tradire la fiducia che l'altro ha riposto in lui nello sceglierlo come "unico compagno della sua vita".

Altri ha osservato che il dovere di fedeltà va concepito in relazione diretta con il fine di realizzare e consolidare l'unione tra i coniugi.

Non è poi mancato un filone di pensiero che ha ricondotto il dovere di fedeltà alla nozione di "lealtà" nel senso dell'estensione dei contenuti della stessa oltre la mera fedeltà sessuale e fino alla c.d. "fedeltà affettiva".

Un'isolata teoria è persino giunta a sostenere che la fedeltà va intesa in senso "elevato" e consiste nel riservare al coniuge il posto più importante nella propria vita.

Com'è evidente si tratta di mere asserzioni di principio, anzi di valore, che poggiano esclusivamente su presupposti di carattere ideologico che restano, ai giorni nostri, completamente avulsi dal tessuto sociale e dalle concrete modalità di estrinsecazione della vita familiare ed, ancor prima, coniugale.

Alla luce di quanto precede, appare, pertanto, più confacente all'odierna realtà giuridico-sociale ritenere che il contenuto della fedeltà, anche ai fini dell'addebitabilità della separazione personale tra i coniugi, debba essere individuato nella volontà (o meno) dei contraenti il matrimonio di proseguire nell'unione coniugale che ben può sussistere anche in caso di palese inosservanza dell'esclusività sessuale.

In altri termini il problema che l'interprete odierno dovrebbe porsi è il seguente: se sia o meno sufficiente, ai fini della declaratoria di addebito della separazione, invocare l'episodica quanto eventuale occorrenza di una relazione extraconiugale da parte dell'altro coniuge.

A siffatta ricostruzione si potrebbe agevolmente obiettare che l'aspetto sessuale resta, per lo meno nella communis opinio, il simbolo insostituibile di lealtà e fiducia nel rapporto coniugale.

Tuttavia tale prevedibile obiezione non terrebbe in considerazione alcuna due peculiari vicende che si ritengono, invece, meritevoli di tutela:

a) il non infrequente fenomeno del tacito o espresso consenso del coniuge alla possibilità che l'altro possa intrattenere relazioni di carattere sessuale con altri soggetti, di modo che, ciascuno dei coniugi goda della medesima "libertà";

b) la possibilità che, nonostante l'intrattenimento di relazioni con soggetti estranei al matrimonio da parte di uno o di entrambi i coniugi, si mantenga l'unione familiare, a maggior ragione in presenza di figli minori e, comunque, di condizioni di serenità tali da garantire la pacifica convivenza di tutti i conviventi.

Riconducendo, pertanto, l'analisi ad un criterio di tipo meramente giuridico e possibilmente impermeabile a qualsiasi pulsione di carattere confessionale, non è dato comprendere in virtù di quale logica si dovrebbe interpretare il senso estensivo il secondo comma dell'art. 143 c.c. nella parte in cui prescrive il dovere di fedeltà. 

In altri termini il legislatore ha introdotto nell'ordinamento il generale dovere di fedeltà senza, tuttavia, che sia dato reperire alcuna nozione normativamente disciplinata e, come tale, specifica del termine "fedeltà".

Tanto anche se la giurisprudenza, persino in tempi recenti, ha mostrato un'incomprensibile tendenza ad interpretare in maniera via via sempre più estensiva il concetto di "fedeltà", finendo per ricomprendervi qualsiasi forma di "attenzione" affettiva a soggetti estranei al matrimonio che possa, anche in via teorica, minare il rapporto di fiducia tra i coniugi.

Pare allo scrivente che siffatta concezione finisca, irragionevolmente, per sovrapporre ed anzi far coincidere il concetto di "fedeltà" con quello di "fiducia", addirittura ampliandone la portata sino a conseguenze estreme e, comunque, anacronistiche rispetto all'odierno dispiegarsi delle relazioni private e sociali.

D'altronde la norma in esame non fa alcun riferimento a condotte di tipo sessuale, né si riferisce all'adulterio, ma menziona esclusivamente la "fedeltà", peraltro, in passato sanzionata anche sotto il profilo penale dall'ormai abrogato art. 559 c.p.

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte pare di poter concludere de plano che il dovere di fedeltà debba, primariamente, essere inteso quale fedeltà rispetto ai restanti doveri di coabitazione, di assistenza morale e materiale all'altro coniuge, nonché di collaborazione e, solo in via residuale, quale stensione dall'intrattenere relazioni sessuali o anche spirituali con altri soggetti.

In ultimo è il caso di rilevare che, ai fini dell'addebito nella separazione, la violazione del dovere di fedeltà non è, di per sé, sufficiente a determinarne la declaratoria, in quanto è necessario dimostrare che essa sia stata causa della fine dell'unione tra i coniugi.

Tale onere probatorio spetta, ovviamente, a chi richiede l'attribuzione dell'addebito all'altro coniuge, dovendo dimostrare la sussistenza del nesso eziologico tra l'infedeltà e la rottura dell'unione coniugale.

In altri termini è necessario che, sia per i tempi, sia per i modi, sussista un rapporto di causalità diretto fra la violazione e la decisione di separarsi.

Tanto con l'essenziale notazione che la verifica in ordine all'esistenza del nesso eziologico deve essere condotta non solo in riferimento alla violazione del dovere di fedeltà, bensì con riguardo a tutte le violazioni dei coniugali.

Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha consolidato un indirizzo interpretativo in base al quale in caso di mancato raggiungimento della prova che la violazione dei doveri matrimoniali sia stata la causa del fallimento coniugale, la separazione deve essere pronunciata senza addebito.


    

   




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Avvocato Francesco Guido a Cosenza
Francesco Guido

Avv. penalista e civilista esperto in diritto di famiglia, assicurazioni, successioni