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Giandomenico De'Francesco

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IL REATO DI IMMIGRAZIONE CLANDESTINA NELL'ORDINAMENTO ITALIANO

Scritto da: Giandomenico De'Francesco - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

Il reato di immigrazione clandestina nell'ordinamento italiano

 

Il fenomeno dell'immigrazione[1], in cui si è di fronte non a migrazioni ma davanti a migrazioni di popoli, che hanno invaso in maniera presentita, quasi del tutto inaspettata e massiccia, il territorio italiano, è un fenomeno inatteso che ha cagionato situazioni emergenziali e, ancora oggi, non si è usciti dalla legislazione dell'emergenza dello straniero. 

 

Lo straniero viene visto come legislazione di emergenza e legislazioni, presumibilmente, non perfette. È ovvio anche la virulenza con cui ondate di persone, le quali si sono riversate sulle coste italiane, hanno creato problemi di sicurezza interna. Tengo a precisare che la stragrande maggioranza dei reati commessi dagli immigrati, per quanto a volte ripugnanti nei reati contro la persona, sono una parte infinitesimale dei reati che commettono gli italiani. 

 

Gran parte dei reati sono commessi da immigrati e immigrati clandestini e pare molto arduo che il reato sia cagionato da immigrati che sono in regola con il nostro ordinamento. Circa il 98% dei reati è commesso, appunto, da immigrati non regolari, soprattutto da immigrati giovani, dettata a volte dal disadattamento, dall'incapacità di integrarsi nell'ambiente che li circonda. 

 

I reati più gravi - come quelli della mafia, della camorra e via dicendo - sono di esclusiva competenza dei cittadini italiani e negli stessi gli immigrati, quando ci sono, rivestono ruoli marginali, cioè a dire che nessuno ha mai constatato uno straniero a capo di un'organizzazione malavitosa. L'unico, effettivamente, fenomeno criminale associativo, in cui gli immigrati privilegiano, è quello dello sfruttamento della prostituzione, per la ragione che non interessa i nostri fenomeni mafiosi, i quali sono impegnati su tutt'altri settori ben più lucrosi. 

 

È chiaro che anche la microcriminalità degli immigrati esige una risposta per il fatto che, di sovente, il cittadino italiano si sente più irritato dalla presenza di questa microcriminalità, mentre la grande, quella mafiosa, di solito passa inosservata per sua stessa indole e per sua stessa natura. 

 

A partire dalla legge n.40 del 6 marzo 1998 - denominata legge Turco-Napolitano che si propone di regolare organicamente l'intera materia dell'immigrazione dall'estero - e, successivamente, con la legge n.189 del 20 luglio 2002 - denominata legge Bossi-Fini che prevede l'espulsione, emessa in via amministrativa dal Prefetto della Provincia, dove viene rintracciato lo straniero clandestino, sia immediatamente eseguita con l'accompagnamento alla frontiera da parte della forza pubblica -, la legislazione, nei confronti dell'immigrato, ha subito sempre una maggiore pressione in senso repressivo. 

 

Con la legge n.40/1998 (legge Turco-Napolitano) si puniva essenzialmente il traffico di immigrati, la tratta delle persone. Vennero modificati anche gli articoli 600, 601 e 602 del codice penale proprio per venire incontro al tragico fenomeno dello sfruttamento delle giovani donne avviate alla prostituzione e introdotte clandestinamente nello Stato italiano. Con la precedente legge n.39 del 28 febbraio 1990, denominata legge Martelli, con lo scopo di regolare organicamente l'immigrazione, ridefinire lo status di rifugiato, introdurre la programmazione dei flussi dall'estero, precisare le modalità di ingresso e respingimento alla frontiera e il soggiorno in Italia, si era cercato di dare una risposta al problema del diritto d'asilo, garantito dalla costituzione della Repubblica italiana e da tutta una serie di trattati internazionali, problema che sino ad oggi non è stato risolto del tutto, più per motivi procedurali delle lungaggini che per altre ragioni. 

 

L'evoluzione normativa in tema di immigrazione clandestina ha subito un primo giro di vite con la legge n.189 del 20 luglio 2002 (legge Bossi-Fini), in cui, e forse per una sorta di nemesi storica, anche questa legge è stata voluta in maniera forte da persone che appartengono alla stessa ideologia. L'impianto della legge non era superficiale, anzi era meritevole per la ragione che questa legge del 2002 prevedeva che il cittadino straniero potesse entrare nel territorio italiano, che tuttora lo prevede, con il mero contratto di lavoro. Si puntava, in sostanza, a garantire la circostanza che il cittadino straniero, il quale doveva fare ingresso nello Stato italiano, entrasse già con un contratto di lavoro e questo gli impediva, ovviamente, di delinquere, per il fatto che se l'immigrante entra in uno Paese, in cui già deve lavorare onestamente, viene sottratto ad eventuali usi o reclutamenti da parte della criminalità. Era previsto, in aggiunta, che doveva essere in possesso di un'abitazione, era previsto lo sponsor cioè a dire il soggetto che doveva prestare la garanzia all'immigrato. 

 

Questa idea, pur tuttavia, in sé benefica, è stata stravolta da una circostanza che, in seguito, si è rivelata a quella che oggi ha costretto il legislatore alla nuova legge - c.d."Pacchetto Sicurezza", n.94 del 15 luglio 2009 - vale a dire la durata del contratto di lavoro, anello perverso della catena. Cosa è accaduto? Avveniva che queste persone entravano come regolari, lavoravano, di seguito, perdevano il lavoro, andavano via o dovevano lasciare il territorio italiano; al contrario, questi individui vivevano o di espedienti o lavoravano a nero. 

 

L'articolo 10-bis disciplina il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato. Tale reato si configura come una contravvenzione che sanziona con l'ammenda da 5mila a 10mila € lo straniero che faccia ingresso o si trattenga nel territorio dello Stato [2]

 

L'ingresso nel territorio italiano è consentito ai cittadini dei Paesi non appartenenti all'UE solamente nel caso in cui siano in possesso di taluni requisiti come: 

 

- passaporto valido ed un visto di ingresso non significa aver diritto all'ingresso. L'ingresso dello straniero e soggetto a 3 condizioni quali: il possesso di idonea documentazione atta a confermare il fine e le condizioni del soggiorno; la disponibilità dei mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno medesimo; il fatto che l'ingresso sia avvenuto mercé uno dei valichi di frontiera. 

 

Visto di ingresso. Su tale ultima tipologia di atto è compito del Ministero degli esteri il definire le diverse specifiche dei vari visti di ingresso e disciplinare le modalità della concessione. Non possono ottenere il rilascio del visto gli stranieri che sono considerati una minaccia per l'ordine pubblico da parte dell'Italia o di uno dei Paesi dell'area Schengen. Non possono altresì fare ingresso nel nostro territorio gli stranieri espulsi, quelli da espellere, quelli segnalati ai fini della non ammissione per gravi motivi di ordine pubblico, di sicurezza nazionale e di tutela delle relazioni internazionali; quelli condannati per reati legati all'immigrazione clandestina e per altri gravi reati. Circa l'immigrazione per ragioni di lavoro, l'ingresso degli stranieri è limitato e determinato secondo quote annuali, pertanto, le autorità diplomatiche rilasciano i visti di ingresso entro tali quote e secondo le modalità definite dal testo unico che prevede anche la possibilità di rilasciare visti per soggiorni di breve durata validi per non più di 90 giorni. 

 

In base all'ordinamento vigente, i documenti che legittimano la permanenza dello straniero nel territorio italiano sono: il permesso di soggiorno rilasciato per un periodo variabile a seconda dei motivi del soggiorno e la carta di soggiorno a tempo indeterminato, il cui rilascio è previsto per gli stranieri stabilizzati. 

 

Una volta fatto ingresso nel territorio nazionale, ogni straniero deve fare richiesta del permesso di soggiorno al questore della provincia in cui si trova, entro 8 giorni viene rilasciata. 

 

Nella precedente legislatura, con la legge 28 maggio 2007 n.68, è stata approvata una disciplina legislativa, che non è parte integrante del T.U. sull'immigrazione, relativa ai soggiorni di breve durata, in cui è sancito che per fare ingresso in Italia per un soggiorno che non sia superiore ai 3 mesi e sia volto solamente per motivi di visita, affari, turismo o studio, non necessita del permesso di soggiorno. Inoltre, essa determina che per i soggiorni brevi lo spatium temporis per cui è consentita la permanenza nel nostro territorio sia quello presente nel visto di ingresso. In sostituzione della richiesta di permesso di soggiorno, la legge n. 68/2007 evidenzia, per gli stranieri non dell'UE, una mera dichiarazione di presenza sul lembo territoriale italiano in cui debba esserci la sottoscrizione autografa del richiedente, quale titolo alla permanenza nel nostro Paese per un periodo di tempo ridotto. Per questa dichiarazione sono previste due modalità diverse, a seconda del caso che l'ingresso sia avvenuto da una frontiera esterna all'area dell'accordo di Schengen [3] ovvero dai Paesi dell'aera Schengen: nel primo caso la dichiarazione dovrà essere resa all'autorità di frontiera, nel secondo la dichiarazione dovrà essere presentata entro 8 giorni al questore della provincia in cui lo straniero si trova. 

 

Ai fini dell'esecuzione dell'espulsione dello straniero denunciato per il reato di cui stiamo trattando, non è richiesto il rilascio del nulla-osta da parte dell'autorità giudiziaria competente all'accertamento dello stesso reato; nulla-osta che deve, di solito, essere richiesto dal questore nel momento in cui lo straniero viene sotto-posto a procedimento penale e non si trovi in stato di custodia cautelare [4]

 

Il questore comunica all'autorità giudiziaria, competente all'accertamento del reato, l'avvenuta esecuzione dell'espulsione o, meglio, del respingimento con accompagnamento alla frontiera [5]. Il questore dispone il respingimento con accompagnamento alla frontiera sia per gli stranieri che siano entrati nel territorio dello Stato, sottraendosi ai controlli di frontiera e siano stati fermati all'ingresso o subito dopo, sia nell'ipotesi in cui gli stessi siano stati momentaneamente ammessi nel territorio per necessità di pubblico soccorso e debbano essere allontanati in seguito. 

 

Se, tuttavia, lo straniero dovesse fare nuovamente ingresso illegalmente nel territorio dello Stato [6], verrà attuata l'azione penale per il medesimo fatto e nei riguardi della stessa persona, pur in presenza di una sentenza di non luogo a procedere. È previsto, in aggiunta, che allo straniero espulso venga inibito di rientrare nel nostro territorio per un periodo di 10 anni se non sia in possesso di una speciale autorizzazione del Ministro dell'Interno. È sancito anche che nel decreto di espulsione possa essere previsto un termine breve, che non sia inferiore a 5 anni. 

 

Quando viene presentata una domanda di protezione internazionale, il procedimento subirà un arresto [7]. Se, al contrario, nel corso del processo il giudice dovesse acquisire la comunicazione del riconoscimento della protezione internazionale o, meglio, del rilascio del permesso di soggiorno stabilite dal T.U. sull'immigrazione, dovrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere [8]. Il testo che stiamo trattando, inoltre, estendendo al caso in cui il giudice pronunci sentenza di condanna per il reato di ingresso e di soggiorno illegale nel lembo territoriale italiano [9], novella la facoltà di sostituire la pena con la misura dell'espulsione per un periodo non inferiore a 5 anni. Egli potrà avvalersi di tale facoltà quando riterrà di dovere irrogare una pena detentiva contenuta entro una soglia di due anni senza che ricorrano né le condizioni per ordinare la sospensione condizionale della pena[10], né le cause ostative [11]. 

 

Sotto il profilo processuale, premesso che si tratta con tutta evidenza di un reato perseguibile d'ufficio, la novella prevede uno specifico processo dedicato; la competenza è attribuita al Giudice di Pace ed esclusivamente per l'ipotesi di cui all'art. 10 bis. 

 

E' palese, infatti, che tutta la disciplina prevista dal T.U. è orientata a realizzare l'allontanamento dello straniero irregolare dal territorio nazionale; la condanna alla pena pecuniaria di cui al nuovo art. 10 bis non è quindi l'obiettivo principale dell'ordinamento. 

 

Inoltre è probabile che l'accertamento della violazione della nuova norma possa avvenire in occasione di altre fattispecie di reato, più gravi, più complesse, che comportino anche provvedimenti di limitazione della libertà personale e di competenza del Tribunale.


Avv. Giandomenico De'Francesco - Avvocato, esperto in materia del lavoro, tributaria, societaria

Sono Giandomenico de'Francesco avvocato iscritto presso il Foro di Roma, socio e titolare dello studio de'FRANCESCO & PARTNERS nonchè socio ed amministratore della società GERCAP CONSULTING Srls. Sono iscritto nelle liste per patrocinare dinanzi le Magistrature Superiori e sono esperto in materia del lavoro (anche penale del lavoro), tributaria e societaria ma lo studio è composto di esperti anche in materia penale e commerciale. Lo studio e la società che rappresento, nonchè io personalmente, sono un punto di riferimento per le imprese che operano nei paesi ex CIS in particolar modo in Bielorussia ed in Russia.




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Referenze

Pubblicazione legale

IL COMODATO D'IMMOBILE, "Oneroso o Modale"

Pubblicato su IUSTLAB

Il comodato in generale; Il comodato “oneroso” o “modale” Il comodato in generale Il contratto di comodato è regolato dall'art. 1803 c.c.. Tale disposizione, al I comma, prescrive che il comodato è il contratto col quale una parte consegna all'altra un bene mobile o immobile, affinchè se ne serva per un tempo o un uso determinato, con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. Il II comma del medesimo articolo specifica che il comodato è un negozio essenzialmente gratuito .Il comodato si perfeziona con la consegna della cosa ed ha carattere obbligatorio , nel senso che il comodatario acquista solo ed esclusivamente un diritto personale all'uso del bene pattuito, in quanto non vi è mai il trasferimento della proprietà del bene concesso in uso. Poi, il comodato è caratterizzato dalla unilateralità , ovvero dal fatto per cui detto negozio sia connotato in genere dalla sussistenza di una obbligazione solo a carico del comodatario, il quale è tenuto a restituire il bene che ha in godimento. Infine, la fattispecie in esame non necessita di forma scritta nemmeno quando riguardi beni immobili. Infine, il comodato può essere fattispecie a tempo determinato, nel senso che le parti prevedono la durata. Se no, tale rapporto, che si dice precario, viene meno quando uno dei contraenti prende l'iniziativa di interrompere il rapporto con un atto unilaterale. Il comodato “oneroso” o “modale” Il comodato è un negozio, come dice il II comma dell'art. 1803 c.c. gratuito. Generalmente si ritiene che il negozio suddetto trovi la sua causa nel rapporto di cortesia e fiducia esistente tra le parti o nella volontà a sopperire ad un’esigenza altrui. Come detto, uno degli elementi essenziali del comodato ex art 1803 II comma, sembrerebbe essere la gratuità . Infatti la previsione di un corrispettivo sarebbe incompatibile con lo schema tipico del comodato, che, come ho detto, si basa sulla fiducia, sulla cortesia o su una esigenza temporanea del comodatario. Tuttavia, la natura e la causa del negozio de quo non vengono meno nel caso in cui i contraenti si accordino per imporre un onere a carico del comodatario stesso . Infatti, il carattere essenzialmente gratuito del comodato non viene meno per l'apposizione a carico del comodatario di un modus, di un onere, purchè esso non sia di consistenza tale da snaturare il rapporto contrattuale (Ex Multis: Cass. Civ. Sent. n. 485 del 2003). In altre parole, è necessario che tale modus non si ponga come corrispettivo del godimento della cosa ed assuma così la natura di una controprestazione. Inoltre, l'elemento della gratuità o della onerosità del contratto in esame deve valutarsi avuto riguardo alla causa del contratto stesso, intesa come funzione economico-sociale che il medesimo è destinato obbiettivamente ad adempiere. Caso pratico: locazione o comodato? Nella realtà quotidiana a volte capita che il titolare di un appartamento lo ceda in uso temporaneo ad un altra persona, senza stipulare per iscritto alcun contratto, senza registrazione, senza predeterminare la durata di tale godimento ma con la previsione di una somma che l'altro deve corrispondere mensilmente al titolare stesso dell'immobile. Ora, proprio alla luce della diffusione di tale “pratica”, è necessario valutare se detta fattispecie sia giuridicamente ascrivibile o al contratto di comodato ex art. 1803 c.c. o alla locazione ex art. 1571 c.c.. L'elemento che contraddistingue tale figure, per certi versi assai simili e per altri assai differenti, al di là del nomen juris utilizzato dai contraenti per qualificare detto negozio, è la previsione, a carico di chi ha il godimento materiale dell'immobile, del pagamento di una somma a titolo di CORRISPETTIVO . Infatti, proprio con particolare riferimento alla cessione del godimento di un immobile ad uso abitativo, la Suprema Corte ha stabilito che la configurabilità di un rapporto di comodato non è esclusa della circostanza che il cessionario sia tenuto al versamento di una somma periodica a titolo di rimborso spese, ove detto contributo si mantenga nei limiti del modus, il quale è compatibile col carattere di essenziale gratuità del comodato medesimo, e non integra una controprestazione a vantaggio del concedete (Cass. Civ. Sent. n. 4976 del 1997; Cass. Civ. Sent. n. 3021 del 2001; Cass. Civ. Sent. n. 2091 del 1985). Alla luce del suddetto consolidato orientamento giurisprudenziale, la fattispecie concreta sopra descritta sarà ascrivibile alla locazione, quando la somma richiesta a colui che ha il godimento del bene integri una vero e proprio corrispettivo, cioè la controprestazione verso, per l'appunto, il godimento altrui del bene considerato, come per esempio, un cano di locazione vero e proprio. In caso contrario, nell'eventualità per cui la somma richiesta per il godimento del bene sia di lievissima entità, simbolica, fuori dal mercato, e quindi non integri una vera e propria controprestazione o un corrispettivo, la fattispecie concreta sarà qualificabile come comodato modale. Quindi, riconducendoci al nostro esempio di comodato d'immobile, il “canone” avrà un importo molto basso, quasi simbolico, fuori dal mercato locatizio. Mancato rilascio del bene immobile concesso in comodato: che fare? Allora, in tale ipotesi è necessario distinguere il caso in cui sia previsto il termine per il rilascio o meno (in questo caso il comodato si dice precario ). Nel primo, nulla questio , nel senso che sarà sufficiente attendere il decorso di tale termine, magari (è sempre meglio) inviando a tempo debito una raccomandata A.R. con cui si intima il rilascio. In tale eventualità, nel caso in cui il comodatario non voglia rilasciare l'immobile, il proprietario può agire con normale citazione o ricorso ex art. 447bis cpc (in teoria questo seconda ipotesi avrebbe dovuto essere più breve come tempi di giustizia, ma in pratica le azioni si equivalgono) Nel secondo caso, invece, la questione è più delicata, perchè il potere di cessare tale rapporto di comodato è riconosciuto all'iniziativa delle parti, le quali, quando lo vorranno e rispettando i normali tempi di disdetta, potranno fare venire meno il rapporto. Infatti, sempre in tale ipotesi, se il comodatario non restituirà l'immobile, il rapporto si trasforma da comodato in occupazione senza titolo. Sul punto la Cassazione è chiarissima, in quanto in un ormai consolidato orientamento afferma che la figura del "precario" ovvero del "comodato precario" (art. 1810 c.c.) si caratterizza per la previsione che la scadenza della validità del vincolo dipende potestativamente dalla volontà del comodante, il quale può farla maturare "ad nutum" mediante richiesta di restituzione del bene. Tale richiesta determina l'immediata cessazione del diritto del comodatario alla disponibilità e al godimento della cosa, con la conseguenza che una volta sciolto per iniziativa unilaterale del comodante il vincolo contrattuale, il comodatario che rifiuti la restituzione della cosa, viene ad assumere la posizione di detentore "sine titulo" e quindi abusivo del bene altrui , salvo che dimostri di poterne disporne in base ad altro rapporto diverso dal precario (Cass civ. 6987/00) Il proprietario, ancora, può ottenere il rilascio agendo con normale citazione o ricorso ex art. 447bis cpc. Tuttavia, sopratutto in tale ipotesi, un orientamento di merito, peraltro minoritario, ritiene esperibile la liberazione dell'immobile tramite il provvedimento d'urgenza ex art. 700 cpc (Trib. Ivrea, 12/08/2004; Pret. Sorrento 25/07/1981 ecc...) Infine, in entrambi i casi il proprietario-comodante può ottenere oltre al risarcimento danni per il mancato rilascio “tempestivo”, anche il risarcimento danni per lite temeraria ex art 96 cpc. Infatti, il Tribunale di Brescia con Sent. 1010/06 ha riconosciuto come fondata e deve essere accolta la domanda di risarcimento danni ex art. 96 cpc. nei confronti del possessore senza titolo che rifiuti di restituire l'immobile al suo legittimo proprietario solamente perche' questi, pur avendo ottenuto la risoluzione del contratto in forza del quale il possessore aveva ottenuto la disponibilita' dell'immobile, non ha ancora un titolo per ottenere la consegna del bene .

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