Pubblicazione legale:
REVOCA DELLA DETENZIONE DOMICILIARE
COME SI DETERMINA LA PENA ESPIATA
Differenze con l'affidamento in prova
Le misure alternative alla detenzione rivestono nel nostro ordinamento penitenziario un'importanza determinante, sia per assicurare l'osservanza del precetto costituzionale della funzione rieducativa della pena, sia per motivi di “politica” della gestione dell'universo carcerario.
Il sistema, per quanto abbastanza coerente, si presta, però, a delle discrasie che possono causare del contenzioso inutile.
Il caso è abbastanza semplice.
L'assistito, giovane tossicodipendente, viene messo a scontare un modesto residuo di pena in regime di detenzione domiciliare ed ha la facoltà di recarsi al SERT territorialmente competente per ricevere il trattamento metadonico.
Nel corso di una di queste uscite autorizzate il giovane pensa bene di commettere un furto che si trasforma in una rapina impropria con arresto in flagranza.
Il Magistrato di Sorveglianza, dapprima, sospende la misura della detenzione domiciliare e il Tribunale di Sorveglianza provvede alla revoca.
Fin qui nulla di strano, sarebbe stato, invero, che non fosse andata così.
Il problema nasce con l'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza che, oltre a revocare la misura della detenzione domiciliare dichiara che considerava correttamente espiata la pena non fino al giorno dell'arresto, ma solo per un periodo antecedente, così di fatto protraendo la durata della pena di circa sei mesi.
In effetti, nel caso dell'affidamento in prova, qualora venga revocata quella misura alternativa, il Tribunale di Sorveglianza deve valutare fino a quando si possa ritenere correttamente espiata la pena.
La ragione di ciò deve ricercarsi nel fatto che l'affidamento viene concesso sulla scorta di un programma, sia esso terapeutico o lavorativo, poco importa, atto a favorire il reinserimento sociale.
Per tale ragione, se vengono violate le prescrizioni si dovrà valutare da parte dell'Autorità Giudiziaria fino a quando il programma sia stato svolto correttamente e, conseguentemente, si potrà solo fino a quella data ritenere espiata la pena in regime di affidamento in prova.
Ritenendo l'ordinanza abnorme, si ricorreva in Cassazione portando a sostegno dell'impugnazione le seguenti considerazioni.
In primo luogo, si eccepiva la mancata o manifesta illogicità della motivazione con manifesto travisamento dei fatti.
Infatti, la ricorsa ordinanza affermava che si dovesse far luogo a rideterminazione della pena in quanto, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 343 del 15.10.1987, il Tribunale, nel procedere alla revoca dell'affidamento in prova, deve determinare la durata della pena da scontare, tenendo conto sia del periodo di prova trascorso dal condannato nell'osservanza delle prescrizioni imposte e del concreto carico di queste, sia della gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha dato luogo alla revoca.
Ma, nella fattispecie, il ricorrente non era in regime di affidamento in prova, ma, di detenzione domiciliare, cioè misura del tutto diversa rispetto a quella dell'affidamento.
Da tale travisamento dei fatti, non può che discendere, come chiarito in ricorso, altro che l'inosservanza od erronea applicazione della legge penale.
Tale vizio appare di ogni evidenza ove si consideri la differenza tra gli istituti della detenzione domiciliare e dell'affidamento in prova.
Notoriamente, la detenzione domiciliare è misura alternativa alla detenzione alla quale possono essere ammessi i condannati con una pena (o un residuo di pena) inferiore ai due anni e, in caso di particolari necessità famigliari, di lavoro, etc., i condannati con pena inferiore ai quattro anni.
Altrettanto noto è che l'affidamento in prova è, invece, misura alternativa alla detenzione alla quale possono essere ammessi i condannati con una pena (o un residuo di pena) inferiore ai tre anni (inferiore ai quattro anni quando si tratta di persone tossicodipendenti o alcooldipendenti).
L'inserimento nella normativa penitenziaria della previsione dell'art. 47 ter costituisce senza dubbio uno degli apporti più rilevanti della legge 10 ottobre 1986, n. 663, la quale viene a porre la detenzione domiciliare come forma di esecuzione, per una determinata categoria di soggetti, della pena detentiva a regime attenuato svolta in un luogo diverso dal carcere, sia esso rappresentato dalla propria abitazione, da altro luogo di privata dimora o da luogo pubblico di cura od assistenza.
Attraverso la detenzione domiciliare si è data attuazione ai precetti costituzionali sanciti all'art. 27, comma 3, Cost. in base al quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e all'art. 32 Cost. che tutela la salute come diritto fondamentale dell'individuo e l'interesse della collettività a rendere meno afflittiva l'espiazione della pena per quei soggetti destinatari che si trovano in particolari condizioni, tenendo conto delle condizioni specifiche in cui devono trovarsi i soggetti a cui è applicata, questa misura risulta anche caratterizzata, in particolare, da una finalità umanitaria ed assistenziale, essendo diretta a salvaguardare determinate situazioni particolari ritenute meritevoli di tutela, sostituendo la detenzione in carcere con altra meno afflittiva.
La detenzione domiciliare si pone come sviluppo logico, in sede di esecuzione della sentenza di condanna a pena detentiva, dell'analogo istituto processuale degli arresti domiciliari come misura alternativa o sostitutiva della custodia cautelare in carcere.
Così come gli arresti domiciliari infatti costituiscono una forma di detenzione preventiva a regime attenuato svolta in luogo diverso dagli istituti di custodia cautelare, la detenzione domiciliare rappresenta una forma di esecuzione della pena detentiva a regime attenuato svolta in luogo diverso dal carcere.
Ciò che non appare sufficientemente definito è invece il contenuto intrinseco della misura della detenzione domiciliare sul piano rieducativo.
Ciò a nostro avviso costituisce la più rilevante difformità tra l'affidamento in prova e la detenzione domiciliare, stante la funzione espressamente finalizzata alla risocializzazione, propria dell'affidamento, e quella, meramente contenitiva, sia pur in forma più blanda e, senz'altro, meno afflittiva della detenzione domiciliare.
La mancanza, infatti, nelle previsioni normative di cui si discute di un richiamo esplicito alle finalità della misura, a presupposti come quelli indicati per l'affidamento in prova nel secondo comma dell'art. 47 o.p., o per la semilibertà dal quarto comma dell'art. 50 o.p., nonché a qualsiasi nozione contenutisticamente significativa circa il trattamento da svolgere nel corso della misura, costituisce indubbiamente un fatto di rilievo.
La detenzione domiciliare, quindi, costituisce una mera modalità di esecuzione della pena riservata a ben individuate categorie di soggetti e non persegue nessuna funzione risocializzatrice.
Infatti le prescrizioni che possono essere adottate nei confronti del soggetto ammesso alla detenzione domiciliare attengono alle modalità di fruizione della misura e non alla sua crescita morale in vista di un'effettiva rieducazione.
Stante l'espressa assimilazione legislativa della detenzione domiciliare alla misura cautelare degli arresti domiciliari, la detenzione domiciliare risulta assai riduttiva, se non quasi completamente privativa della libertà del soggetto tanto che parte della dottrina l'ha configurata come caso limite tra la condizione carceraria e la misura alternativa, portando a conferma di questa interpretazione il carattere di extrema ratio dell'istituto, nell'ambito delle possibilità di scelta offerte dall'attuale panorama delle misure alternative.
Da tali considerazioni, quindi, deriva che il periodo trascorso anteriormente alla revoca in stato di detenzione domiciliare, sia che questa sia dovuta al venir meno delle condizioni soggettive previste per la sua concessione, sia che derivi dal comportamento del condannato, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate ed incompatibile con la prosecuzione della misura, debba essere considerato come pena espiata e detraibile perciò nel computo della pena residua da scontare.
Tale modo di vedere appare sorretto da varie pronunce giurisprudenziali e, in particolare, Cassazione penale, sez. I, sentenza 13/07/2006 n° 27853 con la quale si afferma che “è apparso, quindi, evidente che la detenzione domiciliare, sia per il carattere di indubbia invasiva coercizione della libertà personale, [attesi i caratteri di consimilarità rispetto alla correlativa misura cautelare dell'arresto domiciliare], sia per il profilo di specificità dei casi nei quali essa poteva essere applicata, è risultata, talora, una soluzione optativa di minor pregio giuridico rispetto a quegli istituti di diritto penitenziario richiamati per antonomasia.”, così parificando, anche alla luce della già richiamata assenza (o forte limitazione) di finalità risocializzatrice, la detenzione domiciliare a quella in istituto carcerario.
Particolare interesse, poi, riveste, ai nostri fini, la sentenza Cass. Sezione I Penale, 19-26 febbraio 2014, n.9314 in quanto, infatti, preliminarmente, rileva come con la pronuncia n. 343 del 1987 la Corte Costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 47, comma 10 nella parte in cui, in caso di revoca del provvedimento di ammissione all’affidamento in prova per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova, non stabilisce gli effetti conseguenti, ha affermato che il Tribunale di sorveglianza, una volta disposta la revoca della misura alternativa, debba procedere a determinare la residua pena detentiva ancora da espiare sulla scorta di una valutazione discrezionale, da condurre in considerazione della durata delle limitazioni patite dal condannato e del comportamento tenuto durante l’intero corso dell’esperimento.
A tal proposito, si rileva come la Consulta, effettuata la ricognizione dei contrapposti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali sulle conseguenze della revoca della misura, ha rilevato, con la sentenza in parola, l’incongruenza delle posizioni sino ad allora affermatesi e, in particolare, ha espresso dissenso per la tesi maggioritaria che, assegnando all’affidamento in prova una funzione essenzialmente rieducativa, riteneva che la revoca per il fallimento dell’esperimento avesse effetto retroattivo e determinasse il ripristino dell’originario rapporto punitivo, in quanto non teneva conto del contenuto sanzionatorio delle prescrizioni inerenti la misura, limitative della libertà personali e quindi necessariamente oggetto di valutazione in sede di revoca per stabilire quanto debba ancora essere espiato, per cui il non tenerne conto si poneva in contrasto col disposto dell’art. 13 Cost..
Si deve rilevare, però, che nella propria disamina, con la sentenza citata si veniva a criticare, anche, l'impostazione minoritaria, basata sulla equiparazione dell’affidamento in prova all’espiazione della pena quale sua modalità esecutiva, nel ritenere che il periodo scontato dovesse in ogni caso essere scomputato per intero dalla pena residua, avrebbe finito per introdurre ingiustificate parificazioni di trattamento tra la diversa situazione di coloro che avessero violato le leggi o le regole imposte sin dall’inizio e quanti vi fossero incorsi nel periodo conclusivo dell’esperimento.
Tal modo di vedere era sorretto dalla considerazione che, in tal modo si sarebbe eliminata la natura sanzionatoria e l’efficacia preventiva della revoca, con la conseguente disincentivazione a mantenere una condotta regolare in contrasto con la funzione rieducativa della misura.
Si rileva, per quel che riguarda l'odierna questione, che la pronuncia della Corte Costituzionale poneva fine, con una lettura costituzionalmente orientata, ad una diatriba dottrinale e giurisprudenziale in riferimento, ben si badi, solo ed esclusivamente alla misura dell'affidamento in prova, lasciando del tutto estranea ala decisione la questione della revoca della detenzione domiciliare che, per molti versi, altro non può che ritenersi del tutto analoga al trattamento intramurario, anche alla luce delle ben maggiori restrizioni imposte e così come si è in altra parte analizzato.
A tal proposito, si rileva come l’efficacia della revoca della detenzione domiciliare è stata oggetto di diverse pronunce giurisprudenziali volte a colmare il vuoto legislativo presente nella legge 26 luglio 1975 n. 354.
Infatti, la Corte costituzionale era intervenuta nella sola ed esclusiva materia dell'affidamento in prova dichiarando con le sentenze n. 312 del 1985 e n. 343 del 1987, l'illegittimità costituzionale dell'art. 47 della legge 26 luglio 1975 n. 354, nella parte in cui non prevedeva nel computo della pena da espiare il periodo patito a titolo di affidamento in prova al servizio sociale antecedente alla revoca del provvedimento.
Inoltre la stessa Corte Costituzionale con sentenza 327 del 1989 ha definito la detenzione domiciliare una modalità di esecuzione della pena, caratterizzata dalla soggezione a prescrizioni limitative della libertà, dalla vigilanza del magistrato di sorveglianza, dall'intervento del servizio sociale, ma di contenuto "meno favorevole al condannato" rispetto all'affidamento in prova al servizio sociale.
Tale indirizzo è stato fatto proprio dalla sentenza la Corte di Cassazione con la sentenza I Sez. 15.10.2009 n.° 41348 che, peraltro, conferma l’orientamento già espresso dalla decisione della stessa Suprema Corte, Sez. Feriale n. 29821 del 27 luglio 2005, con la quale si statuiva che la detenzione domiciliare "costituisce un modo di espiazione della pena che può essere revocata qualora vengano meno i presupposti che ne hanno legittimato l'adozione; in tal caso la revoca ha efficacia ex nunc e non ex tunc in quanto, avuto riguardo alla natura dell'istituto in questione, il periodo trascorso in detenzione domiciliare deve essere computato come pena espiata".
La Prima Sezione della Corte di Cassazione, con la citata sentenza 15.10.2009 n.° 41348, ha infatti affermato come nel caso di revoca del regime alternativo della detenzione domiciliare, il periodo trascorso in detenzione costituisca una particolare forma di "espiazione" della pena della reclusione o dell'arresto nell’abitazione del soggetto o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza.
Esso rappresenta un "modo" di esecuzione della pena adottato nei confronti di particolari categorie di condannati per i quali l’ordinaria detenzione potrebbe risultare dannosa sotto il profilo fisico e psicologico e perciò priva di una concreta funzione rieducativa e, anzi, a nostro avviso, contraria, oltre che alla norma costituzionale, anche a quella internazionale, così come si evince dalla lettura dell'art. 3 CEDU, norma sovranazionale, recepita dall'ordinamento interno.
Pertanto, in ragione delle caratteristiche proprie dell'istituto della detenzione domiciliare come descritte dalla giurisprudenza menzionata, come si legge nella parte motiva della citata sentenza “...la revoca della detenzione ha un’efficacia ex nunc sicchè il periodo trascorso in detenzione domiciliare non potrà non essere computato nel calcolo della pena espiata.”.
Alla luce delle considerazioni svolte, la Suprema Corte di Cassazione accoglieva il ricorso avverso l'ordinanza e ne disponeva l'annullamento senza rinvio, così permettendo che l'intero periodo di detenzione domiciliare fosse computato ai fini della determinazione del fine pena.