Giovanni Merli

Avvocato penalista in firenze




Informazioni generali

Sono Giovanni Merli, esperto in diritto penale sia ordinario (reati comuni), sia in riferimento al diritto penale d’impresa (con particolare riguardo alla difesa in caso di infortuni sul lavoro), sia come difensore dell'imputato, sia del danneggiato (parte civile). Stabilisco a livello personale un rapporto franco e diretto con i clienti per la migliore gestione del caso. Mi occupo volentieri di diritto di famiglia, trattandosi di materia che spesso correlata alle vicende penali e di risarcimento del danno da reato. Opero in tutta Italia.

Esperienza


Diritto di famiglia

Ho seguito moltissime separazioni e divorzi, derivanti da procedimenti penali per violenza, maltrattamenti in famiglia, violazione agli obblighi familiari, dapprima curando la fase penalistica con la costituzione di parte civile, poi quella civilistica per giungere alla cessazione del rapporto. Il notevole numero di procedimenti curati mi consente di ritenermi esperto nella materia.


Sicurezza ed infortuni sul lavoro

In materia di infortuni sul lavoro ho difeso numerosi imprenditori, accusati di lesioni colpose con buoni risultati. L'interesse sviluppato per la materia mi ha portato ad approfondirne lo studio con ricerche di giurisprudenza e la redazione di alcuni articoli, così da poter offrire oltre che la sola pratica esperienza, anche una solida preparazione scientifica indispensabile in una materia alquanto complessa. Va da sè che ho assitito, anche, numerosi lavoratori quali danneggiati degli infortuni sul lavoro.


Stalking e molestie

Ho potuto difendere in numerosi procedimenti, sia curando la difesa dell'imputato che gli interessi delle vittime, impegnandomi ad individuare la sussistenza, o meno, degli elementi del reato di stalking anche attraverso un'analisi accurata del profilo vittimologico e la ricostruzione probatoria anche di episodi apparentemente di scarso rilievo.


Altre categorie:

Reati contro il patrimonio, Sostanze stupefacenti, Diritto penitenziario, Incidenti stradali, Omicidio, Gratuito patrocinio, Cassazione, Domiciliazioni, Risarcimento danni.


Referenze

Pubblicazione legale

DIVIETO DI APPLICAZIONE DELLA DETENZIONE DOMICILIARE PER IL CORONAVIRUS (art. 123 D.L. 18/2020) IN RELAZIONE ALLA CONDIZIONE OSTATIVA DELL'ART. 58 QUATER ORDINAMENTO PENITENZIARIO Un contrasto tra diritto alla salute e esigenze di repressione

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DIVIETO DI APPLICAZIONE DELLA DETENZIONE DOMICILIARE PER IL CORONAVIRUS (art. 123 D.L. 18/2020) IN RELAZIONE ALLA CONDIZIONE OSTATIVA DELL'ART. 58 QUATER ORDINAMENTO PENITENZIARIO Un contrasto tra diritto alla salute e esigenze di repressione Nella presente situazione epidemica, non può sottacersi il dato oggettivo di casi di contagio di diversi detenuti renda indispensabile garantire ai detenuti e agli operatori all’interno dei carceri la tutela del diritto, costituzionalmente garantito alla salute, ex art. 32 Cost.. Nel D.L. 18/2020, all'art. 123, vengono introdotte una serie di deroghe, temporalmente limitate tra il 17 marzo 2020 e il 30 giugno 2020, alla disciplina della detenzione domiciliare dettata dalla Legge n. 199/2010 e successive modifiche (da ultimo il D.L. 23 dicembre 2013 n. 146). L'art. 123 stabilisce che si possa ricorrere alla detenzione domiciliare se la pena da espiare non non sia superiore a 18 mesi, anche se residuo di maggior pena. Con l’art. 123 D.L. 18/2020, viene eliminata la necessità da parte del Magistrato di Sorveglianza di accertare la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga, ovvero in ordine a specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere altri delitti, sostituendo tale requisito con l’applicazione del braccialetto elettronico per coloro che hanno un residuo pena da 7 mesi a 18. Si ritiene, quindi, che dovrebbe essere lasciata alla valutazione personalizzata del Magistrato di sorveglianza a seconda della personalità del singolo detenuto, la sola applicabilità di strumenti elettronici di controllo. La ratio della norma è evidentemente quella di introdurre una misura eccezionale, in una situazione eccezionale, per ridurre la possibilità di contagio con procedimento semplificato, introducendo il diritto di essere trasferiti in detenzione domiciliare con il braccialetto elettronico per i detenuti con meno di diciotto mesi da scontare, salvo determinate esclusioni. I motivi ostativi alla concessione di quanto previsto dall'art. 123 D.L. 18/2020 sembrano strettamente connesse con la tipologia dei reati e/o la personalità soggettiva del detenuto. La norma, nel suo contenuto letterale, esclude dall'applicazione del beneficio – come, parimenti, avveniva per la L. 199/2010 - una serie di delitti di particolare allarme sociale previsti dall’art. 4-bis O.P. , i delinquenti abituali, professionali o per tendenza, i detenuti in regime di regime di sorveglianza particolare in carcere, ai sensi dell’art. 14-bis O.P., e – in conformità alla specialità della situazione e alla ratio ultima della norma come sopra evidenziata - i detenuti che siano privi di domicilio effettivo ed idoneo, anche in relazione alla tutela delle persone offese dal reato. Si rileva, dunque, nella specie, che nulla dice la norma riguardo all'applicabilità del divieto di cui all'art. 58 quater O.P.. Tale norma, secondo un'opinione, potrebbe essere invocata per denegare il beneficio della detenzione domiciliare in quanto l'art. 123 richiama alla L. 199/2010 che, in effetti, poneva l'art. 58 quater O.P. come condizione ostativa all'applicazione delle disposizioni della L. 199. Già per tale motivo, secondo il noto brocardo ubi lex voluit, dixit, ubi noluit tacuit , appare illegittimo il rigetto della richieste, almeno unicamente, motivato dalla condizione ostativa dell'art. 58 quater O.P.. Preliminarmente, infatti, occorre rilevare come la ratio delle norme – art. 123 D.L. 18/2020 e L. 199/2010 – sia del tutto diversa e non assimilabile. Basta, infatti, considerare che la norma in questione – l'art. 123 – è una disposizione emessa per far fronte ad una situazione di assoluta emergenza sanitaria, volta alla tutela del bene primario della salute ( ben si badi non solo dei detenuti, ma anche degli operatori penitenziari e dei loro familiari), in una condizione di oggettiva ed indiscutibile contingenza. Per tale motivo, le eccezioni alla generalizzata applicazione dell'art. 123 D.L. 18/2020, sono volte a contemperare interessi e diritti di rango costituzionale, quali la sicurezza pubblica (non a caso si fa riferimento ai condannati per delitti di particolare allarme sociale, ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, a quelli in regime di regime di sorveglianza particolare in carcere) e la tutela delle vittime (con la previsione del reato di maltrattamenti in famiglia e di stalking tra quelli ostativi), oltre che alle situazioni “di fatto” (più numerose di quanto si possa credere) dei detenuti privi di un adeguato domicilio. Nulla dice la norma circa l'art. 58 quater O.P., cui taluni si richiamano solo in forza del rimando, generico, alla L. 199/2010. Orbene, se la tutela di vittime e sicurezza pubblica è motivo costituzionalmente apprezzabile per il diniego della detenzione domiciliare, l'automatica applicazione ai fini ostativi dell'art. 58 quater, appare essere confliggente con il diritto, parimenti di rilevanza costituzionale, alla salute. Infatti, il divieto di ottenere misure alternative alla detenzione per un triennio dalla revoca di precedente misura alternativa alla detenzione, prevista dall'art. 58 quater, non è, ipso facto, né indice di una maggiore pericolosità sociale, né di una più marcata propensione a delinquere, visto che, molte volte, la revoca avviene per motivi del tutto estranei alla devianza sociale. L’art. 123 c. 2 D.L. 18/2020 sembra rimettere al Magistrato di sorveglianza la valutazione relativa all’adozione della misura, qualora ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura. Si tratta di disposizione estremamente generica che pone invero un ampio potere discrezionale alla magistratura di sorveglianza, in specie considerando che si decide quindi con ordinanza adottata in camera di consiglio, senza la presenza delle parti. Il richiamo alla legge 199/2010 che, come si è visto, potrebbe far ritenere applicabile anche a questa nuova misura il divieto di cui all’art. 58- quater O.P., ma tale opinione appare essere ultronea, stante il principio, ormai stabilito dal costante insegnamento sia della Consulta che della Cassazione, secondo cui, in materia di benefici penitenziari è un criterio “ costituzionalmente vincolante ” quello che esclude “ rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata caso per caso ” (Corte Cost., sentenza n. 436/1999). Non a caso, infatti, la Consulta ha, più volte, ribadito che l’esclusione di criteri individualizzanti comporta che “ l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo ” (Corte Cost., sent. n. 257/2006) e ciò determina un giudizio del dettato normativo “ sicuramente in contrasto con i principi di proporzionalità ed individualizzazione della pena ” (Corte Cost., sent. n. 255/2006), con la conseguenza che, nel diritto penitenziario, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, è vietato ogni automatismo valutativo in malam partem , dovendosi, invece, procedere alla verifica in concreto della sussistenza dei presupposti che legittimano l’adozione dei vari istituti previsti (M.d.S. Milano del 9.11.2011). Tale modo di vedere – sia pur in ordine alla preclusione dei benefici penitenziari a chi si sia reso responsabile del delitto di evasione – appare sorretto dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale, assumendosi, infatti, la necessità di una lettura della norma costituzionalmente orientata, che non permette l'automatica preclusione, senza limiti di tempo, per effetto della condanna stessa, dovendo il giudice procedere a un esame approfondito della personalità del condannato e della sua effettiva e perdurante pericolosità sociale (Cass. Pen. Sez. 1 n.26298 del 07/03/2019; Cass. Pen. Sez. 1, n. 1116 del 22/09/2016, dep. 2017, Russo; Cass. Pen. Sez. 1, n. 29 del 19/11/2014). Infatti, già in tema di applicazione della L. 199/2010, vi sono state decisioni della magistratura di sorveglianza abbiano evidenziato che “ pur essendo possibile una interpretazione rigorosamente letterale della disposizione impugnata, che imporrebbe di ritenere tout court precluso, all’interessato che abbia subito la revoca di precedente beneficio penitenziario (nella specie, esecuzione domiciliare), l’accesso alle misure alternative dell’affidamento in prova al servizio sociale e della detenzione domiciliare; pare doveroso adottare, invece, una sua lettura costituzionalmente orientata, basata sul principio della funzione rieducativa della pena, sancito dall’art. 27, terzo comma, Cost., e validata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha escluso la cittadinanza, nel nostro ordinamento penitenziario, della prevalenza assoluta delle esigenze di prevenzione sociale su quelle di recupero dei condannati ” (cfr. Tribunale Sorv. Torino 20.02.2014; in senso conforme si veda anche Tribunale Sorv. Bologna, ord. 22.03.2011). Tale opinione appare sorretta, anche, dalla Corte di Cassazione secondo cui “ In questa cornice di principi generali, recepiti in due recenti decisioni delle Sezioni Unite (Sez. Un. 28 marzo 2006, ric. Alloussi; Sez. Un. 30 maggio 2006, ric. Aloi), il Collegio ritiene che l’ammissione ad una misura alternativa alla detenzione in carcere (nel caso di specie, la detenzione domiciliare) di un soggetto nei cui confronti sia intervenuta affermazione di penale responsabilità per il delitto di evasione non possa essere automaticamente preclusa dalla intervenuta condanna per il reato previsto dall’art. 385 c.p. a prescindere da qualsiasi valutazione in ordine all’avvenuta realizzazione di tutte le condizioni per usufruire del beneficio richiesto. Piuttosto, una lettura costituzionalmente orientata della norma impone al giudice, in presenza di una condanna per questo titolo di reato, un’analisi particolarmente approfondita sulla personalità del condannato, sulla sua effettiva, perdurante pericolosità sociale alla luce delle condotte rilevanti ai sensi dell’art. 385 c.p., oggetto di accertamento definitivo, sui progressi trattamentali compiuti e il grado di rieducazione compiuto prima dell’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005 ”. Nella specie, quindi, stante la diffusione del contagio da COVID 19 e lo stato di detenzione, appare evidente che non siano applicabili automatismi nella preclusione all’accesso della misura della detenzione domiciliare in quanto in contrasto netto con la tutela di un diritto costituzionalmente protetto, quello alla salute, ex art. 32 Cost., salvo quelli espressamente, letteralmente e chiaramente indicati dal legislatore nel testo dell'art. 123. Tale aspetto, che potrebbe, astrattamente, integrare ipotesi di illegittimità costituzionale, può essere, nell'urgenza della situazione epidemica, ovviato con una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 123 D.L. 18/2020, attraverso una, sia pur sommaria, valutazione nel merito della condotta tenuta dal soggetto, per la verifica dell'opportunità di concedere la detenzione domiciliare, anche ai sensi di quanto sancito dalle sentenze della Consulta (sentenze n.255/2006-149/2018) ed in ossequio, sia alle finalità previste dall’art. 27, sia a quelle, in questa fase storica, forse anche più pregnanti, di tutela della salute ex art. 32 Cost., non potendosi tacere che anche ai soggetti in detenzione non può essere conculcato il diritto alla salute.

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REVOCA DELLA DETENZIONE DOMICILIARE COME SI DETERMINA LA PENA ESPIATA Differenze con l'affidamento in prova

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REVOCA DELLA DETENZIONE DOMICILIARE COME SI DETERMINA LA PENA ESPIATA Differenze con l'affidamento in prova Le misure alternative alla detenzione rivestono nel nostro ordinamento penitenziario un'importanza determinante, sia per assicurare l'osservanza del precetto costituzionale della funzione rieducativa della pena, sia per motivi di “politica” della gestione dell'universo carcerario. Il sistema, per quanto abbastanza coerente, si presta, però, a delle discrasie che possono causare del contenzioso inutile. Il caso è abbastanza semplice. L'assistito, giovane tossicodipendente, viene messo a scontare un modesto residuo di pena in regime di detenzione domiciliare ed ha la facoltà di recarsi al SERT territorialmente competente per ricevere il trattamento metadonico. Nel corso di una di queste uscite autorizzate il giovane pensa bene di commettere un furto che si trasforma in una rapina impropria con arresto in flagranza. Il Magistrato di Sorveglianza, dapprima, sospende la misura della detenzione domiciliare e il Tribunale di Sorveglianza provvede alla revoca. Fin qui nulla di strano, sarebbe stato, invero, che non fosse andata così. Il problema nasce con l'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza che, oltre a revocare la misura della detenzione domiciliare dichiara che considerava correttamente espiata la pena non fino al giorno dell'arresto, ma solo per un periodo antecedente, così di fatto protraendo la durata della pena di circa sei mesi. In effetti, nel caso dell'affidamento in prova, qualora venga revocata quella misura alternativa, il Tribunale di Sorveglianza deve valutare fino a quando si possa ritenere correttamente espiata la pena. La ragione di ciò deve ricercarsi nel fatto che l'affidamento viene concesso sulla scorta di un programma, sia esso terapeutico o lavorativo, poco importa, atto a favorire il reinserimento sociale. Per tale ragione, se vengono violate le prescrizioni si dovrà valutare da parte dell'Autorità Giudiziaria fino a quando il programma sia stato svolto correttamente e, conseguentemente, si potrà solo fino a quella data ritenere espiata la pena in regime di affidamento in prova. Ritenendo l'ordinanza abnorme, si ricorreva in Cassazione portando a sostegno dell'impugnazione le seguenti considerazioni. In primo luogo, si eccepiva la mancata o manifesta illogicità della motivazione con manifesto travisamento dei fatti. Infatti, la ricorsa ordinanza affermava che si dovesse far luogo a rideterminazione della pena in quanto, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 343 del 15.10.1987, il Tribunale, nel procedere alla revoca dell'affidamento in prova, deve determinare la durata della pena da scontare, tenendo conto sia del periodo di prova trascorso dal condannato nell'osservanza delle prescrizioni imposte e del concreto carico di queste, sia della gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha dato luogo alla revoca. Ma, nella fattispecie, il ricorrente non era in regime di affidamento in prova, ma, di detenzione domiciliare, cioè misura del tutto diversa rispetto a quella dell'affidamento. Da tale travisamento dei fatti, non può che discendere, come chiarito in ricorso, altro che l'i nosservanza od erronea applicazione della legge penale. Tale vizio appare di ogni evidenza ove si consideri la differenza tra gli istituti della detenzione domiciliare e dell'affidamento in prova. Notoriamente, la detenzione domiciliare è misura alternativa alla detenzione alla quale possono essere ammessi i condannati con una pena (o un residuo di pena) inferiore ai due anni e, in caso di particolari necessità famigliari, di lavoro, etc., i condannati con pena inferiore ai quattro anni. Altrettanto noto è che l'affidamento in prova è, invece, misura alternativa alla detenzione alla quale possono essere ammessi i condannati con una pena (o un residuo di pena) inferiore ai tre anni (inferiore ai quattro anni quando si tratta di persone tossicodipendenti o alcooldipendenti). L'inserimento nella normativa penitenziaria della previsione dell'art. 47 ter costituisce senza dubbio uno degli apporti più rilevanti della legge 10 ottobre 1986, n. 663, la quale viene a porre la detenzione domiciliare come forma di esecuzione, per una determinata categoria di soggetti, della pena detentiva a regime attenuato svolta in un luogo diverso dal carcere, sia esso rappresentato dalla propria abitazione, da altro luogo di privata dimora o da luogo pubblico di cura od assistenza. Attraverso la detenzione domiciliare si è data attuazione ai precetti costituzionali sanciti all'art. 27, comma 3, Cost. in base al quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e all'art. 32 Cost. che tutela la salute come diritto fondamentale dell'individuo e l'interesse della collettività a rendere meno afflittiva l'espiazione della pena per quei soggetti destinatari che si trovano in particolari condizioni, tenendo conto delle condizioni specifiche in cui devono trovarsi i soggetti a cui è applicata, questa misura risulta anche caratterizzata, in particolare, da una finalità umanitaria ed assistenziale, essendo diretta a salvaguardare determinate situazioni particolari ritenute meritevoli di tutela, sostituendo la detenzione in carcere con altra meno afflittiva. La detenzione domiciliare si pone come sviluppo logico, in sede di esecuzione della sentenza di condanna a pena detentiva, dell'analogo istituto processuale degli arresti domiciliari come misura alternativa o sostitutiva della custodia cautelare in carcere. Così come gli arresti domiciliari infatti costituiscono una forma di detenzione preventiva a regime attenuato svolta in luogo diverso dagli istituti di custodia cautelare, la detenzione domiciliare rappresenta una forma di esecuzione della pena detentiva a regime attenuato svolta in luogo diverso dal carcere. Ciò che non appare sufficientemente definito è invece il contenuto intrinseco della misura della detenzione domiciliare sul piano rieducativo. Ciò a nostro avviso costituisce la più rilevante difformità tra l'affidamento in prova e la detenzione domiciliare, stante la funzione espressamente finalizzata alla risocializzazione, propria dell'affidamento, e quella, meramente contenitiva, sia pur in forma più blanda e, senz'altro, meno afflittiva della detenzione domiciliare. La mancanza, infatti, nelle previsioni normative di cui si discute di un richiamo esplicito alle finalità della misura, a presupposti come quelli indicati per l'affidamento in prova nel secondo comma dell'art. 47 o.p., o per la semilibertà dal quarto comma dell'art. 50 o.p., nonché a qualsiasi nozione contenutisticamente significativa circa il trattamento da svolgere nel corso della misura, costituisce indubbiamente un fatto di rilievo. La detenzione domiciliare, quindi, costituisce una mera modalità di esecuzione della pena riservata a ben individuate categorie di soggetti e non persegue nessuna funzione risocializzatrice. Infatti le prescrizioni che possono essere adottate nei confronti del soggetto ammesso alla detenzione domiciliare attengono alle modalità di fruizione della misura e non alla sua crescita morale in vista di un'effettiva rieducazione. Stante l'espressa assimilazione legislativa della detenzione domiciliare alla misura cautelare degli arresti domiciliari, la detenzione domiciliare risulta assai riduttiva, se non quasi completamente privativa della libertà del soggetto tanto che parte della dottrina l'ha configurata come caso limite tra la condizione carceraria e la misura alternativa, portando a conferma di questa interpretazione il carattere di extrema ratio dell'istituto, nell'ambito delle possibilità di scelta offerte dall'attuale panorama delle misure alternative. Da tali considerazioni, quindi, deriva che il periodo trascorso anteriormente alla revoca in stato di detenzione domiciliare, sia che questa sia dovuta al venir meno delle condizioni soggettive previste per la sua concessione, sia che derivi dal comportamento del condannato, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate ed incompatibile con la prosecuzione della misura, debba essere considerato come pena espiata e detraibile perciò nel computo della pena residua da scontare. Tale modo di vedere appare sorretto da varie pronunce giurisprudenziali e, in particolare, Cassazione penale, sez. I, sentenza 13/07/2006 n° 27853 con la quale si afferma che “ è apparso, quindi, evidente che la detenzione domiciliare, sia per il carattere di indubbia invasiva coercizione della libertà personale, [attesi i caratteri di consimilarità rispetto alla correlativa misura cautelare dell'arresto domiciliare], sia per il profilo di specificità dei casi nei quali essa poteva essere applicata, è risultata, talora, una soluzione optativa di minor pregio giuridico rispetto a quegli istituti di diritto penitenziario richiamati per antonomasia .”, così parificando, anche alla luce della già richiamata assenza (o forte limitazione) di finalità risocializzatrice, la detenzione domiciliare a quella in istituto carcerario. Particolare interesse, poi, riveste, ai nostri fini, la sentenza Cass. Sezione I Penale, 19-26 febbraio 2014, n.9314 in quanto, infatti, preliminarmente, rileva come con la pronuncia n. 343 del 1987 la Corte Costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 47, comma 10 nella parte in cui, in caso di revoca del provvedimento di ammissione all’affidamento in prova per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova, non stabilisce gli effetti conseguenti, ha affermato che il Tribunale di sorveglianza, una volta disposta la revoca della misura alternativa, debba procedere a determinare la residua pena detentiva ancora da espiare sulla scorta di una valutazione discrezionale, da condurre in considerazione della durata delle limitazioni patite dal condannato e del comportamento tenuto durante l’intero corso dell’esperimento. A tal proposito, si rileva come la Consulta, effettuata la ricognizione dei contrapposti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali sulle conseguenze della revoca della misura, ha rilevato, con la sentenza in parola, l’incongruenza delle posizioni sino ad allora affermatesi e, in particolare, ha espresso dissenso per la tesi maggioritaria che, assegnando all’affidamento in prova una funzione essenzialmente rieducativa, riteneva che la revoca per il fallimento dell’esperimento avesse effetto retroattivo e determinasse il ripristino dell’originario rapporto punitivo, in quanto non teneva conto del contenuto sanzionatorio delle prescrizioni inerenti la misura, limitative della libertà personali e quindi necessariamente oggetto di valutazione in sede di revoca per stabilire quanto debba ancora essere espiato, per cui il non tenerne conto si poneva in contrasto col disposto dell’art. 13 Cost.. Si deve rilevare, però, che nella propria disamina, con la sentenza citata si veniva a criticare, anche, l'impostazione minoritaria, basata sulla equiparazione dell’affidamento in prova all’espiazione della pena quale sua modalità esecutiva, nel ritenere che il periodo scontato dovesse in ogni caso essere scomputato per intero dalla pena residua, avrebbe finito per introdurre ingiustificate parificazioni di trattamento tra la diversa situazione di coloro che avessero violato le leggi o le regole imposte sin dall’inizio e quanti vi fossero incorsi nel periodo conclusivo dell’esperimento. Tal modo di vedere era sorretto dalla considerazione che, in tal modo si sarebbe eliminata la natura sanzionatoria e l’efficacia preventiva della revoca, con la conseguente disincentivazione a mantenere una condotta regolare in contrasto con la funzione rieducativa della misura. Si rileva, per quel che riguarda l'odierna questione, che la pronuncia della Corte Costituzionale poneva fine, con una lettura costituzionalmente orientata, ad una diatriba dottrinale e giurisprudenziale in riferimento, ben si badi, solo ed esclusivamente alla misura dell'affidamento in prova, lasciando del tutto estranea ala decisione la questione della revoca della detenzione domiciliare che, per molti versi, altro non può che ritenersi del tutto analoga al trattamento intramurario, anche alla luce delle ben maggiori restrizioni imposte e così come si è in altra parte analizzato. A tal proposito, si rileva come l’efficacia della revoca della detenzione domiciliare è stata oggetto di diverse pronunce giurisprudenziali volte a colmare il vuoto legislativo presente nella legge 26 luglio 1975 n. 354. Infatti, la Corte costituzionale era intervenuta nella sola ed esclusiva materia dell'affidamento in prova dichiarando con le sentenze n. 312 del 1985 e n. 343 del 1987, l'illegittimità costituzionale dell'art. 47 della legge 26 luglio 1975 n. 354, nella parte in cui non prevedeva nel computo della pena da espiare il periodo patito a titolo di affidamento in prova al servizio sociale antecedente alla revoca del provvedimento. Inoltre la stessa Corte Costituzionale con sentenza 327 del 1989 ha definito la detenzione domiciliare una modalità di esecuzione della pena, caratterizzata dalla soggezione a prescrizioni limitative della libertà, dalla vigilanza del magistrato di sorveglianza, dall'intervento del servizio sociale, ma di contenuto "meno favorevole al condannato" rispetto all'affidamento in prova al servizio sociale. Tale indirizzo è stato fatto proprio dalla sentenza la Corte di Cassazione con la sentenza I Sez. 15.10.2009 n.° 41348 che, peraltro, conferma l’orientamento già espresso dalla decisione della stessa Suprema Corte, Sez. Feriale n. 29821 del 27 luglio 2005, con la quale si statuiva che la detenzione domiciliare " costituisce un modo di espiazione della pena che può essere revocata qualora vengano meno i presupposti che ne hanno legittimato l'adozione; in tal caso la revoca ha efficacia ex nunc e non ex tunc in quanto, avuto riguardo alla natura dell'istituto in questione, il periodo trascorso in detenzione domiciliare deve essere computato come pena espiata ". La Prima Sezione della Corte di Cassazione, con la citata sentenza 15.10.2009 n.° 41348, ha infatti affermato come nel caso di revoca del regime alternativo della detenzione domiciliare, il periodo trascorso in detenzione costituisca una particolare forma di "espiazione" della pena della reclusione o dell'arresto nell’abitazione del soggetto o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza. Esso rappresenta un "modo" di esecuzione della pena adottato nei confronti di particolari categorie di condannati per i quali l’ordinaria detenzione potrebbe risultare dannosa sotto il profilo fisico e psicologico e perciò priva di una concreta funzione rieducativa e, anzi, a nostro avviso, contraria, oltre che alla norma costituzionale, anche a quella internazionale, così come si evince dalla lettura dell'art. 3 CEDU, norma sovranazionale, recepita dall'ordinamento interno. Pertanto, in ragione delle caratteristiche proprie dell'istituto della detenzione domiciliare come descritte dalla giurisprudenza menzionata, come si legge nella parte motiva della citata sentenza “... la revoca della detenzione ha un’efficacia ex nunc sicchè il periodo trascorso in detenzione domiciliare non potrà non essere computato nel calcolo della pena espiata. ”. Alla luce delle considerazioni svolte, la Suprema Corte di Cassazione accoglieva il ricorso avverso l'ordinanza e ne disponeva l'annullamento senza rinvio, così permettendo che l'intero periodo di detenzione domiciliare fosse computato ai fini della determinazione del fine pena.

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IL DATORE DI LAVORO E' RESPONSABILE PER L'INFORTUNIO AVVENUTO A CHI NON LAVORA PER LUI?

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IL DATORE DI LAVORO E' RESPONSABILE PER L'INFORTUNIO AVVENUTO A CHI NON LAVORA PER LUI? Sicuramente, gli imprenditori non svolgono la loro attività per scopo benefico, ma per lucro e, analogamente, i lavoratori per ricevere lo stipendio. La responsabilità del datore di lavoro in materia di prevenzione degli infortuni, dettata dal D. Lgs. 81/2008 è così ampia, che sarebbe, invero, illogico limitare i beneficiari a solo alcune categorie. Per tale motivo, ovviamente, lavoratore non sarà solo chi è iscritto a libro paga di una determinata azienda, ma chiunque svolga un’attività lavorativa all’interno dell’impresa, vista come organizzazione di un datore di lavoro sia esso pubblico che privato. La normativa antinfortunistica troverà, quindi, applicazione indipendentemente dalla tipologia contrattuale che lega il lavoratore all’impresa, da un lato, ma, anche, indipendentemente dal fatto che questi svolga la sua attività gratuitamente o per ricevere un compenso. In questo senso, quindi, anche colui che presti la propria attività occasionalmente, a puro titolo di favore o di amicizia, o anche per scopi solidaristici (si pensi al partecipante ad un’attività di volontariato), si trova ad essere soggetto alla normativa antinfortunistica, con la conseguenza che colui che lo ha adibito a svolgere quell’attività (si ripete, a puro titolo gratuito e con la volontaristica adesione del prestatore d’opera) deve osservare la normativa antinfortunistica, restando responsabile per il caso di sinistro che è, per la norma, un infortunio sul lavoro a tutti gli effetti. A tale proposito appare essere illuminante la sentenza della Cassazione del 7.5.2010, secondo cui anche il figlio del proprietario dell’azienda che si trovi coinvolto, occasionalmente, in un sinistro durante un suo accesso ai locali dell’impresa paterna, è soggetto alla disciplina antinfortunistica, con correlativa responsabilità penale del padre per l’infortunio, in quanto il D.Lgs. 626/1994 tutela tutte le forme di lavoro, anche quando non sussista un formale rapporto di lavoro (nella specie, il giovane, studente universitario, era, semplicemente, andato a trovare il genitore). Si tratta di un'applicazione rigorosa della posizione di garanzia, propria del datore di lavoro per la sicurezza delle lavorazioni, che si estende a chiunque acceda ai locali aziendali, a prescindere dal motivo per cui accede, in quanto il dovere di garantire la sicurezza, intesa, in ultima analisi come garanzia dell'integrità fisica dei terzi, non può trovare limitazione nella sussistenza, o meno, del rapporto di lavoro contrattualmente inteso. Si vedrà che il D.Lgs. 81/2008 si spinge anche oltre, rispetto il D.Lgs. 626/1994, visto che la necessità di garantire la sicurezza si estende ad ogni accesso ai locali di lavoro, anche a soggetti che non hanno con l'attività imprenditoriale alcun legame. Così, anche il datore di lavoro – l'imprenditore, cioé – potrà essere ritenuto responsabile dell'infortunio occorso, ad esempio, ad un cliente che sia entrato in azienda per chiedere informazioni sui prodotti o all'agente di commercio che lì si rechi per trattare un affare. Il D.Lgs. 81/2008, infatti, non si limita a dettare delle prescrizioni, così come facevano i D.p.R. degli anni Cinquanta (peraltro, dal punto di vista strettamente ecnico, tuttora ottimi), ma impone l'obbligo per l'imprenditore di monitorare la situazione di fatto applicando ogni accortezza ragionevolmente prevedibile, anche se non direttamente imposta da una norma, che possa evitare, proprio per la situazione di fatto esistente, il verificarsi di un infortunio: si tratta, in ultima analisi, dell'applicazione della norma di chiusura dettata dall'art. 2087 c.c..

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