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Il lavoratore: obblighi di fedeltà e concorrenza sleale

Scritto da: Giovanni Orlando - Pubblicato su IUSTLAB




Pubblicazione legale:

1) Sulla responsabilità del dipendente.

La dottrina ha avuto modo di soffermarsi più volte sull’art. 2105 c.c.

Tale norma prevede due differenti obblighi facenti capo al lavoratore, entrambi di contenuto negativo (obblighi di non fare) e finalizzati alla tutela di un interesse del datore distinto da quello primario alla prestazione di lavoro: l’interesse alla capacità di concorrenza dell’impresa e quindi alla sua posizione di mercato.

Si tratta di obblighi accessori rispetto alla prestazione di lavoro ascrivibili alla categoria dei cd. obblighi di protezione.

Il primo obbligo di cui all’art. 2105 c.c. è quello di non concorrenza, implica l’astensione del lavoratore da ogni atto di concorrenza che possa potenzialmente arrecare danno all’impresa.

Si tratta di un obbligo specifico del lavoratore più ampio del divieto di concorrenza sleale sancito dall’art. 2598 c.c. ed è da intendersi limitato ai comportamenti specificati dalla norma qualificati dalla violazione di certe regole di lealtà correttezza e buona fede di cui alle direttive degli artt. 1175 e 1375 c.c.

Proprio per il suo fondamento contrattuale l’obbligo dianzi descritto ha vigore solo per la durata del rapporto di lavoro.

L’altro obbligo, quello avente ad oggetto la riservatezza, sempre specificato dall’art. 2105 c.c., si riferisce invece a tutte le notizie attinenti all’organizzazione e alla produzione dell’impresa e comunque conosciute dal lavoratore in ragione dell’attività lavorativa svolta in seno all’impresa stessa, la cui divulgazione o utilizzo possa essere pregiudizievole. Per la particolare natura dell’interesse protetto, l’opinione unanime ritiene che tale dovere persista in capo al lavoratore finché persista l’esigenza a cui è finalizzato, quindi anche dopo la cessazione del rapporto.

E’ bene precisare che il dovere di riservatezza, ossia il dovere di rispettare i segreti aziendali non esclude che il lavoratore possa usare le competenze e conoscenze professionali acquisite nello svolgimento della propria prestazione, ma si riferisce bensì a tutte le notizie sia esclusive dell’azienda (know-how) sia in sé neutre la cui conoscenza esterna possa comunque costituire un potenziale pericolo per l’impresa.

In quest’ultimo senso si è espresso il Tribunale di Monza affermando che:” a differenza della tutela generale accordata alla invenzione per mezzo del brevetto, il quale conferisce il monopolio temporaneo di sfruttamento della stessa al suo autore a fronte di un obbligo di pubblicità, l'ordinamento offre una tutela giuridica solo parziale al c.d. know-how, e cioè al patrimonio conoscitivo aziendale, consistente in una protezione limitata alla previsione di una serie di fattispecie in cui è posto a carico non già della generalità bensì di determinate categorie di persone un obbligo di segretezza: così gli art. 2105 c.c., 6 bis r.d. n. 1127 del 1939 (legge brevetti), nonché l'art. 623 c.p. che sanziona penalmente il comportamento lesivo del segreto industriale.”(Tribunale Monza, 25 gennaio 2005).

Il segreto aziendale trova anche tutela penale negli artt. 621, 622 e 623 c.p.

E’ utile sottolineare che, mentre le prime due norme puniscono la rivelazione o l’uso di documenti segreti e/o di segreti professionali del cui contenuto il soggetto sia venuto a conoscenza per ragioni del proprio stato o ufficio, professione o arte qualora possa derivarne un danno, l’art. 623 del codice penale punisce la rivelazione o l’uso di scoperte o invenzioni scientifiche da chi ne abbia avuto notizia a prescindere dalla possibilità di danno.

In proposito, la Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che:”in tema di delitti contro la inviolabilità dei segreti, non costituisce condizione per la configurabilità del reato di rivelazione di segreti industriali (art. 623 c.p.) la sussistenza di presupposti per la brevettabilità, ex art. 2585 c.c., della scoperta o dell'applicazione rivelata.” (Cassazione penale , sez. V, 07 giugno 2005, n. 25174).

Peraltro, la cd. Legge brevetti ( R.D. 1127/39) è stata interamente abrogata dal codice della proprietà industriale (D. Lgs. 30/2005); le disposizioni ivi contenute sembrerebbero tuttavia andare oltre la tradizionale distinzione dicotomica fra obbligo di fedeltà del dipendente di cui all’art. 2105 c.c. che comunque cesserebbe con l’esaurimento del rapporto di lavoro e patto di non concorrenza la cui necessità sarebbe imprescindibile per la tutela dell’imprenditore dalla divulgazione di notizie e informazioni riservate ai sensi dell’art. 2125 c.c.

Ed infatti, il D. Lgs. 30/2005 all’art. 98 dà una definizione del cd. know-how secondo cui: “costituiscono oggetto di tutela le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni:
a) siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore;
b) abbiano valore economico in quanto segrete;
c) siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

Continua poi l’art. 99 del medesimo decreto espressamente disponendo che: “salva la disciplina della concorrenza sleale, è vietato rivelare a terzi oppure acquisire od utilizzare le informazioni e le esperienze aziendali di cui all'articolo 98.

In ultima analisi, è evidente che al di fuori dello schema tipico sopra descritto rientrante nelle disposizioni di cui agli artt. 2105 e 2125 c.c., resterebbe valida nella fattispecie in esame, la direttiva generale di cui all’art. 2043 c.c., di talché ben può affermarsi la responsabilità civile del dipendente, avendo altresì l’opportunità di avvalersi della piena tutela attivabile astrattamente (entro tre mesi dal fatto a querela di parte) ai sensi dell’art. 623 del codice penale.

 

2) Sulla responsabilità del datore di lavoro per concorrenza sleale.

A mente dell’art. 2598 c.c. circa i mezzi considerati sleali e quindi vietati bisogna distinguerne tre categorie: le prime due afferiscono alla pubblicità e agli atti diretti a ingenerare confusione con i prodotti o comunque con l’attività del concorrente.

La terza , che è quella che qui interessa, ha carattere generico e comprende “ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”, nella quale pertanto rientrano sia i casi di cd. spionaggio industriale, sia i casi di storno dei dipendenti.

Ovviamente nella fattispecie in esame si riscontrerebbe sia l’assunzione di personale del concorrente attirandolo molto probabilmente con la promessa di un trattamento migliore, sia lo spionaggio industriale, giacché lo storno del personale sarebbe avvenuto al precipuo scopo di conoscere indebitamente i segreti detenuti dal personale e attinenti all’impresa concorrente.

In altre parole, gli ex dipendenti pur non essendo imprenditori concorrenti, avrebbero dolosamente compartecipato alla condotta anticoncorrenziale finalizzata presumibilmente anche all'accaparramento dei clienti dell’impresa precedente, all'uopo avvalendosi verosimilmente, unitamente all’imprenditore che li ha assunti, anche delle conoscenze personali maturate durante il pregresso rapporto di lavoro.

Non sussisterebbe quindi solo un semplice transito del collaboratore alle dipendenze dell'impresa concorrente e della prestazione in suo favore delle attività costituenti espressione delle conoscenze ( e dei segreti) precedentemente acquisiti nonché della professionalità maturata durante e per effetto del precedente rapporto lavorativo, ma sarebbe fondato ritenere la commissione di azioni e fatti specificamente e intenzionalmente diretti a cagionare, mediante modalità non conformi ai canoni della correttezza, un rilevante danno da divulgazione del know-how nonché anche da perdita di clientela al datore di lavoro abbandonato.

In proposito, il Tribunale di Bologna ha avuto modo di affermare che: “il danno determinato dallo storno di dipendenti e dal conseguente sviamento di clientela, difficilmente risarcibile in forma specifica, può essere neutralizzato solo attraverso l'inibizione allo stornante - per un periodo di tempo determinato e in via equitativa - dell'assunzione di altri dipendenti appartenenti alla sfera del ricorrente, nonché dell'utilizzo delle prestazioni che i dipendenti «stornati» svolgevano nella precedente impresa e nei confronti della medesima clientela.”( Tribunale Bologna, 04 ottobre 2005)

Risulta pertanto indubitabile anche la responsabilità civile dell’impresa che ha assunto successivamente il dipendente, sia a titolo di illecito concorrenziale ex art. 2598 c.c., sia secondo la direttiva generale di cui all’art. 2043 c.c.

 

-avv. Giovanni Orlando-



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Giovanni Orlando

Avvocato in Catanzaro