Pubblicazione legale:
1) Sulla responsabilità del
dipendente.
La dottrina ha avuto modo di soffermarsi più volte sull’art. 2105 c.c.
Tale norma prevede due differenti obblighi facenti capo al lavoratore,
entrambi di contenuto negativo (obblighi di non fare) e finalizzati alla tutela
di un interesse del datore distinto da quello primario alla prestazione di
lavoro: l’interesse alla capacità di concorrenza dell’impresa e quindi alla sua
posizione di mercato.
Si tratta di obblighi accessori rispetto alla prestazione di lavoro
ascrivibili alla categoria dei cd. obblighi di protezione.
Il primo obbligo di cui all’art.
2105 c.c. è quello di non concorrenza, implica l’astensione del lavoratore
da ogni atto di concorrenza che possa potenzialmente arrecare danno all’impresa.
Si tratta di un obbligo specifico del lavoratore più ampio del divieto di
concorrenza sleale sancito dall’art. 2598 c.c. ed è da intendersi limitato ai
comportamenti specificati dalla norma qualificati dalla violazione di certe
regole di lealtà correttezza e buona fede di cui alle direttive degli artt.
1175 e 1375 c.c.
Proprio per il suo fondamento
contrattuale l’obbligo dianzi descritto ha vigore solo per la durata del
rapporto di lavoro.
L’altro obbligo, quello avente ad
oggetto la riservatezza, sempre specificato dall’art. 2105 c.c., si
riferisce invece a tutte le notizie attinenti all’organizzazione e alla
produzione dell’impresa e comunque conosciute dal lavoratore in ragione
dell’attività lavorativa svolta in seno all’impresa stessa, la cui divulgazione
o utilizzo possa essere pregiudizievole. Per
la particolare natura dell’interesse protetto, l’opinione unanime ritiene che
tale dovere persista in capo al lavoratore finché persista l’esigenza a cui è
finalizzato, quindi anche dopo la cessazione del rapporto.
E’ bene precisare che il dovere di riservatezza, ossia il dovere di
rispettare i segreti aziendali non esclude che il lavoratore possa usare le
competenze e conoscenze professionali acquisite nello svolgimento della propria
prestazione, ma si riferisce bensì a
tutte le notizie sia esclusive dell’azienda (know-how) sia in sé neutre la cui
conoscenza esterna possa comunque costituire un potenziale pericolo per
l’impresa.
In quest’ultimo senso si è espresso il Tribunale di Monza affermando che:” a differenza della tutela generale
accordata alla invenzione per mezzo del brevetto, il quale conferisce il
monopolio temporaneo di sfruttamento della stessa al suo autore a fronte di un
obbligo di pubblicità, l'ordinamento offre una tutela giuridica solo parziale
al c.d. know-how, e cioè al patrimonio conoscitivo aziendale, consistente in
una protezione limitata alla previsione di una serie di fattispecie in cui è
posto a carico non già della generalità bensì di determinate categorie di
persone un obbligo di segretezza: così
gli art. 2105 c.c., 6 bis r.d. n. 1127 del 1939 (legge brevetti), nonché l'art.
623 c.p. che sanziona penalmente il comportamento lesivo del segreto
industriale.”(Tribunale
Monza, 25 gennaio 2005).
Il segreto aziendale trova anche tutela penale negli artt. 621, 622 e 623
c.p.
E’ utile sottolineare che, mentre le prime due norme puniscono la
rivelazione o l’uso di documenti segreti e/o di segreti professionali del cui
contenuto il soggetto sia venuto a conoscenza per ragioni del proprio stato o
ufficio, professione o arte qualora possa derivarne un danno, l’art. 623 del codice penale punisce la
rivelazione o l’uso di scoperte o invenzioni scientifiche da chi ne abbia avuto
notizia a prescindere dalla possibilità di danno.
In proposito,
Peraltro, la cd. Legge brevetti
( R.D. 1127/39) è stata interamente abrogata dal codice della proprietà
industriale (D. Lgs. 30/2005); le disposizioni ivi contenute sembrerebbero
tuttavia andare oltre la tradizionale distinzione dicotomica fra obbligo di
fedeltà del dipendente di cui all’art. 2105 c.c. che comunque cesserebbe con l’esaurimento
del rapporto di lavoro e patto di non concorrenza la cui necessità sarebbe
imprescindibile per la tutela dell’imprenditore dalla divulgazione di notizie e
informazioni riservate ai sensi dell’art. 2125 c.c.
Ed infatti, il D. Lgs. 30/2005
all’art. 98 dà una definizione del cd. know-how secondo cui: “costituiscono
oggetto di tutela le informazioni aziendali e le esperienze
tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo
controllo del detentore, ove tali informazioni:
a) siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme o nella precisa
configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente
accessibili agli esperti ed agli operatori del settore;
b) abbiano valore economico in quanto segrete;
c) siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono
soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.”
Continua poi l’art. 99 del medesimo decreto
espressamente disponendo che: “salva la
disciplina della concorrenza sleale, è vietato rivelare a terzi oppure
acquisire od utilizzare le informazioni e le esperienze aziendali di cui
all'articolo
In
ultima analisi, è evidente che al di fuori dello schema tipico sopra descritto
rientrante nelle disposizioni di cui agli artt. 2105 e 2125 c.c., resterebbe
valida nella fattispecie in esame, la direttiva generale di cui all’art. 2043
c.c., di talché ben può affermarsi la responsabilità civile del dipendente, avendo
altresì l’opportunità di avvalersi della piena tutela attivabile astrattamente (entro
tre mesi dal fatto a querela di parte) ai sensi dell’art. 623 del codice
penale.
2) Sulla
responsabilità del datore di lavoro per concorrenza sleale.
A mente dell’art. 2598
c.c. circa i mezzi considerati sleali e quindi vietati bisogna distinguerne tre
categorie: le prime due afferiscono alla pubblicità e agli atti diretti a
ingenerare confusione con i prodotti o comunque con l’attività del concorrente.
La terza , che è quella
che qui interessa, ha carattere generico e comprende “ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza
professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”, nella quale pertanto
rientrano sia i casi di cd. spionaggio industriale, sia i casi di storno dei
dipendenti.
Ovviamente nella fattispecie
in esame si riscontrerebbe sia l’assunzione di personale del concorrente
attirandolo molto probabilmente con la promessa di un trattamento migliore, sia
lo spionaggio industriale, giacché lo storno del personale sarebbe avvenuto al
precipuo scopo di conoscere indebitamente i segreti detenuti dal personale e
attinenti all’impresa concorrente.
In altre parole, gli ex dipendenti
pur non essendo imprenditori concorrenti, avrebbero dolosamente compartecipato
alla condotta anticoncorrenziale finalizzata presumibilmente anche all'accaparramento
dei clienti dell’impresa precedente, all'uopo avvalendosi verosimilmente,
unitamente all’imprenditore che li ha assunti, anche delle conoscenze personali
maturate durante il pregresso rapporto di lavoro.
Non sussisterebbe quindi
solo un semplice transito del collaboratore alle dipendenze dell'impresa
concorrente e della prestazione in suo favore delle attività costituenti
espressione delle conoscenze ( e dei segreti) precedentemente acquisiti nonché
della professionalità maturata durante e per effetto del precedente rapporto
lavorativo, ma sarebbe fondato ritenere la commissione di azioni e fatti
specificamente e intenzionalmente diretti a cagionare, mediante modalità non
conformi ai canoni della correttezza, un rilevante danno da divulgazione del
know-how nonché anche da perdita di clientela al datore di lavoro abbandonato.
In proposito, il Tribunale
di Bologna ha avuto modo di affermare che: “il
danno determinato dallo storno di dipendenti e
dal conseguente sviamento di clientela, difficilmente risarcibile in forma
specifica, può essere neutralizzato solo attraverso l'inibizione allo stornante
- per un periodo di tempo determinato e in via equitativa - dell'assunzione di
altri dipendenti appartenenti alla sfera del ricorrente, nonché
dell'utilizzo delle prestazioni che i dipendenti «stornati»
svolgevano nella precedente impresa e nei confronti della medesima clientela.”( Tribunale Bologna, 04 ottobre 2005)
Risulta pertanto indubitabile anche la responsabilità civile dell’impresa
che ha assunto successivamente il dipendente, sia a titolo di illecito
concorrenziale ex art. 2598 c.c., sia secondo la direttiva generale di cui
all’art. 2043 c.c.
-avv. Giovanni
Orlando-
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