Pubblicazione legale:
1.
Il caso
Una coppia di donne – una delle quali madre
biologica di una bambina nata da fecondazione
assistita pratica all’estero – proponeva reclamo dinanzi alla Corte
d’Appello di Venezia avverso il decreto con cui il Tribunale di Treviso aveva
rigettato la richiesta di ricevere dall’ufficio di stato civile una dichiarazione congiunta di riconoscimento
della bambina, nata in Italia.
Le
ragioni del rigetto della domanda da parte della Corte territoriale si
fondavano sul disposto di cui all’art. 11 comma 3 del DPR n. 396/2000, a tenore
del quale “L'ufficiale dello stato civile
non può enunciare, negli atti di cui è richiesto, dichiarazioni e indicazioni
diverse da quelle che sono stabilite o permesse per ciascun atto.”
La
coppia proponeva ricorso per Cassazione eccependo, tra le altre doglianze[1],
l’esistenza di un vizio nell’atto di nascita in relazione alla esatta
indicazione dei genitori[2].
Con la sentenza n. 7668/2020, pubblicata il 3 aprile 2020, la Prima
Sezione della Corte di Cassazione si è espressa in senso negativo, fondando la
propria decisione sul divieto – vigente nel nostro ordinamento – di accedere
alle tecniche di procreazione assistita, come previste dalla Legge 40 del 2004, per le coppie formate
da persone dello stesso.
2.
La
procreazione medicalmente assistita
La legge 40 del 2004 disciplina la
procreazione medicalmente assistita, volta a consentire la procreazione nei
casi in cui vi sia una accertata diagnosi di sterilità o comunque condizioni
patologiche che impediscano la procreazione stessa.
Come approfondiremo esaminando
la pronuncia resa dalla Cassazione, la legge 40 del 2004 è rivolta alle coppie
composte da soggetti maggiorenni dello stesso sesso, entrambi viventi ed in età
fertile, conviventi o coniugati.
Si tratta di un impianto
normativo che ha da sempre indotto accese discussioni, sia in seno alla società
civile che alla giurisprudenza; la pronuncia in commento risulta espressione di
una parte di tale dibattito.
Si segnala in particolare che,
con la sentenza n. 162 del 2014, la Corte Costituzionale ha dichiarato la
illegittimità costituzionale dell’art. 4 comma 3 delle Legge 40 del 2004 nella
parte in cui stabilisce il divieto di ricorso a tecniche di procreazione assistita di tipo eterologo,
in presenza di una patologia irreversibile che causi infertilità o sterilità.
Successivamente, con la sentenza
n. 96 del 2015, la Consulta ha nuovamente censurato la legge 40 del 2004 – ed
in particolare gli artt. 1 commi 1 e 2 e 4, nella parte in cui non consentono
il ricorso alle tecniche di procreazione
medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche
trasmissibili[3].
3.
La pronuncia
in commento
La Prima
Sezione della Corte, a fondamento del rigetto della domanda, ha richiamato il
disposto di cui all’art. 5 delle Legge n. 40 del 2004 (su cui già la corte
territoriale basava la propria decisione) che, come anticipato, richiede quale
requisito soggettivo per l’accesso alle tecniche di procreazione assistita lo status
di coppia di maggiorenni di sesso diverso, coniugati o conviventi.
Il
divieto di ricorrere alla procedura in parola per coppie dello stesso sesso
sarebbe rafforzato, secondo la Corte, dalla previsione di sanzioni amministrative
a carico di chi le applica (art. 12, comma 2 Legge 40 del 2004).
Si
tratterebbe così di un divieto vigente nel nostro ordinamento ed applicabile agli
atti di nascita formati in Italia, a prescindere dal luogo in cui sia avvenuta
la procreazione assistita.
Una
simile interpretazione, secondo la Suprema Corte, sarebbe confermata dalla
sentenza n. 221 del 2019 resa dalla Consulta in cui è stato affermato il
carattere di “extrema ratio” delle
tecniche di fecondazione assistita, intese in particolare come rimedio a
situazioni patologiche e non “rimovibili”, restando così escluso il diritto di
ricorrere alle medesime tecniche solo per il “desiderio alla genitorialità”[4].
4.
Le
differenze con altre fattispecie che interessano coppie dello stesso sesso
La Prima
Sezione della Corte, esaminando i motivi di ricorso e gli orientamenti
giurisprudenziali richiamati dalle ricorrenti, si è soffermata su altre
fattispecie che coinvolgono i “diritti alla genitorialità” di coppie dello
stesso, non ritenute tuttavia
applicabili per analogia al caso di specie.
Più in particolare la Corte ha
brevemente richiamato la fattispecie della adozione
di minori da parte di coppie omosessuali e del riconoscimento in Italia di
atti formati all’estero dichiarativi del rapporto di filiazione tra genitori
dello stesso sesso.
-
In relazione al tema della adozione, la Suprema
Corte, anche in questo caso richiamando i principi statuiti dalla Consulta nella
sopra richiamata sentenza, ha evidenziato che tra il caso di adozione – che
presuppone la esistenza in vita dell’adottato ed il suo interesse a mantenere
relazioni affettive instaurate di fatto – e quello della procreazione assistita
sussista una differenza essenziale, atteso che nella seconda ipotesi il bambino
deve ancora nascere, con conseguente necessità di tutelarne le “condizioni di
partenza”. Più in particolare la Prima Sezione si è soffermata sul caso della
cd. stepchild adotion, affrontato, tra
le altre, con la pronuncia n. 12962 del 2016. In tale caso la Corte aveva
ritenuto di confermare la validità della adozione di una minore richiesta dalla
compagna della madre, avuto riguardo al preminente interesse della bambina a
mantenere relazioni affettive già consolidate.
-
Allo stesso modo la Suprema Corte non ha ritenuto
configurabile una analogia tra il caso sottoposto alla sua attenzione e quello
del riconoscimento in Italia di atti
stranieri dichiarativi della filiazione congiunta tra due donne, sul
presupposto per cui, in tale ultimo caso, trattandosi di atto straniero,
risulterebbe necessaria la tutela del diritto alla “conservazione” dello status filiationis acquisito all’estero,
in conformità all’art. 117 comma 1 Cost. In questo caso la Prima Sezione
richiama la sentenza n. 19599 del 2016, in cui è stato affermato il principio
per cui è possibile il riconoscimento e la trascrizione nei registri dello
stato civile italiano di un atto straniero dal quale risulti la nascita di un
minore da due donne, non ostando a tal fine la circostanza per cui nel nostro
ordinamento non sia prevista (o sia vietata) una fattispecie analoga e dovendo
in ogni caso prevalere l’interesse del minore che si traduce nel suo diritto
alla continuità dello stato di figlio acquisito all’estero.
-
La Corte ha proseguito il proprio ragionamento
soffermandosi sull’ulteriore fattispecie delle coppie omosessuali maschili che,
per divenire genitori, devono necessariamente ricorrere alla pratica della maternità surrogata, vietata nel nostro
ordinamento dall’art. 12 comma 6 Legge n. 40/2004; tale divieto, secondo la
Prima Sezione, risulta espressione di un principio di ordine pubblico. La Prima
Sezione ha così richiamato la pronuncia n. 12193 del 2019 - resa a Sezioni
Unite - con cui era stata negata la domanda di trascrizione nei registri di
stato civile di un provvedimento straniero che accertava il rapporto di
filiazione tra un minore nato a seguito di maternità surrogata ed un soggetto
privo di legami biologici con il medesimo. Secondo la Corte di Cassazione, in
particolare, il riconoscimento del rapporto di filiazione così come configurato
sarebbe ad ogni effetto contrario al divieto della surrogazione della maternità
previsto nel nostro ordinamento.
Da
ultimo la Suprema Corte non ha ritenuto rilevante la circostanza – pure
enfatizzata dalle ricorrenti – per cui la pratica fecondativa fosse avvenuta all’estero,
posto che la bambina era nata in Italia ed il relativo atto di nascita era
stato formato nel nostro paese.
[1] Con i primi tre motivi di ricorso, in
particolare, la parte censura la pronuncia resa dalla Corte d’Appello di
Venezia, in via incidentale, su profili afferenti la validità della procura
alle liti ed il difetto di legittimazione ad agire della madre “intenzionale”,
quale rappresentate della minore. La Suprema Corte, circoscritta la materia del
contendere al tema della possibilità di rettifica dell’atto di nascita, ha
ritenuto di dichiarare i primi tre motivi di ricorso inammissibili “per difetto
di interesse”.
[2] Le ricorrenti contestavano la esistenza
di un vizio dell’atto nella misura in cui non veniva correttamente prospettata
la realtà esistente nei fatti, ovvero la volontà di una delle due donne di
comparire sull’atto come madre “intenzionale”.
[3] La Consulta ha in particolare ritenuto
irragionevole e lesivo del diritto alla salute della donna fertile portatrice
di grave malattia genetica l’esclusione dal diritto a ricorrere a tecniche di
fecondazione assistita che consentano di potere individuare preventivamente gli
embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore e dunque evitare il
rischio di gravi patologie o malformazioni o addirittura la morte precoce del
feto.
[4] Nella pronuncia costituzionale richiamata
dalla Prima Sezione viene posto un interrogativo di base, ovvero se sia
configurabile un “diritto alla procreazione” anche nel quomodo e dunque con metodi diversi da quello naturale. Ebbene la
Corte Costituzionale ha ritenuto che la procreazione assistita, come
configurata dalla Legge 40 del 2004, non possa rappresentare una modalità di
realizzazione del desiderio di essere genitori in alternativa al concepimento
naturale e sulla base di una decisione arbitraria della persona. La Consulta si
è poi soffermata sulla “tipologia” di nucleo familiare che scaturisce dal
proficuo utilizzo delle tecniche di procreazione che, a suo dire, dovrebbe pur
sempre essere improntato al modello “tradizionale”.
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