Laureata con lode alla Luiss Guido Carli di Roma nel 2010, sono avvocato dal novembre 2013. Sono specializzata in diritto civile e nel relativo contenzioso ed assisto privati e aziende, svolgendo anche attività di consulenza stragiudiziale nel settore del diritto commerciale, degli appalti pubblici e privati, dell’energia, della tutela del credito e nella relativa contrattualistica. La mia esperienza si estende anche al diritto di famiglia, al diritto immobiliare ed ai tradizionali istituti della responsabilità, sia contrattuale che extracontrattuale. Nel corso degli anni ho aggiornato costantemente le mie competenze professionali.
Grazie ad una pluriennale esperienza in uno studio legale di primario livello, ho maturato una importante competenza nel diritto civile e nel relativo contenzioso, assistendo sia privati che aziende, anche nella fase stragiudiziale e nella contrattualistica.
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Il Corso ha offerto una ampia panoramica della normativa connessa al Fallimento ed alle altre procedure concorsuali
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E-book in materia di diritto tributario ed in particolare del regime delle prove nel relativo contenzioso
Con la sentenza n. 7667 del 5 dicembre 209, pubblicata il 3 aprile 2020, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha affermato il principio per cui, in tema di adozione di maggiorenne e di verifica delle condizioni di cui all’art. 291 c.c., occorra procedere ad una interpretazione della norma costituzionalmente compatibile con l’art. 30 Cost., alla luce della lettura datane dalla giurisprudenza costituzionale e dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali, per consentire una ragionevole riduzione del divario di età minimo in ragione delle situazioni familiari concrete consolidatesi nel tempo. 1. Le condizioni di cui all’art. 291 c.c. Nel nostro ordinamento l’adozione di persone maggiori di età è consentita alle persone che abbiano compiuto i trentacinque anni e che superino di almeno diciotto anni le persone che intendono adottare. In casi particolari è consentito al Giudice di autorizzare l’adozione da parte di soggetti che abbiano compiuto i trenta anni, ferma restando la differenza di età minima richiesta. La norma in parola è stata posta alla attenzione della Corte Costituzionale in più occasioni, sia in relazione alla potenziale disparità di trattamento tra la fattispecie di adozione di maggiore di età, in cui è previsto il limite legale della differenza di età, e quella della adozione di minori, sia in relazione alla possibilità di adozione del maggiorenne anche per soggetti con figli. Con la sentenza n. 557 del 11-19 maggio 1988, in particolare, la Consulta ha dichiarato la illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non consente l’adozione a persone che abbiano discendenti maggiorenni e consenzienti. La Corte Costituzionale è poi successivamente intervenuta con la pronuncia n. 245 del 2004, dichiarando la illegittimità costituzionale dell’art. 291 c.c. nella parte in cui non prevede il divieto di adozione di maggiorenne in presenza di figli naturali riconosciuti dall’adottante minorenni o, se maggiorenni, non consenzienti. Tale ultima pronuncia risulta invero superata dalla equiparazione, da parte del Legislatore del 2012, tra figli “legittimi” e “naturali” e dalla conseguente soppressione di tale distinzione semantica. 2. 2. La fattispecie in esame La pronuncia in commento tra origine dalla – negata – richiesta di adozione di una donna maggiorenne da parte del convivente della madre naturale della adottanda, in ragione della insussistenza del divario minimo di età previsto dall’art. 291 c.c. Tanto il Tribunale di Modena che la Corte d’Appello di Bologna, nello specifico, respingevano la domanda dell’attore ritenendo che non vi fossero speciali ragioni per giustificare la deroga al requisito legale dell’intervallo minimo di età. La parte proponeva ricorso per Cassazione, denunciando, con il primo motivo, la illegittimità costituzionale dell’art. 291 c.c. nella parte in cui non consente al giudice di derogare in modo discrezionale al limite del divario di età, ai sensi degli artt. 2, 3, 10 e 30 Cost. La ricorrente spiegava in particolare come il legame tra l’adottanda ed il compagno della di lei madre durasse da trentacinque anni e fosse dunque ad ogni effetto equiparabile ad un rapporto di filiazione; la differenza di età tra adottante ed adottanda era peraltro di diciassette anni e quattro mesi. Con gli altri tre motivi la parte denunciava la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto per mancata disapplicazione dell’art. 291 c.c. perché in contrasto con le citate norme costituzionali; l’omesso esame di un punto decisivo per il giudizio, ovvero il legame di unità familiare su cui l’adozione era fondata ed infine la irragionevole disparità di trattamento tra adottandi maggiorenni e minorenni. 3. 3. La decisione della Corte di Cassazione La Prima Sezione ha accolto il ricorso, analizzando, punto per punto, le doglianze sollevate dalla parte ed offrendo una ampia panoramica della fattispecie in commento. In relazione alla eccezione di legittimità costituzionale sollevata, la Corte ha ritenuto di disattenderla, richiamando le pronunce rese dalla Consulta in tema di disparità di disciplina tra l’adozione di minore e di maggiorenne ed al limite della differenza di età che sussiste sono nel secondo caso. Ebbene la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 89 del 1993, ha ritenuto “ razionalmente giustificata ” la diversità di disciplina delle tue tipologie di adozione, sul presupposto per cui, nel caso di adozione di minore, ne vada tutelato lo sviluppo e l’inserimento nel nucleo familiare ai fini della sua formazione “in prospettiva”. Lo stesso interesse, secondo la Consulta, sarebbe attenuato – e comunque di fatto non dovrebbe essere esaminato dal Giudice – nel caso di adozione di maggiorenne, non presupponendo tale istituto l’instaurarsi o il permanere della convivenza familiare né la soggezione alla potestà degli adottanti. Analoghe considerazioni sono state svolte dalla Corte Costituzionale con la pronuncia n. 500 del 2000, del pari richiamata dalla Prima Sezione. Nondimeno la Suprema Corte ha affermato il principio per cui l’art. 291 c.c. sia suscettibile di interpretazione conforme alle norme costituzionali ed al diritto vivente: la Prima Sezione, partendo dal presupposto per cui il nucleo familiare interessato dalla adozione sia “ consolidato e compatto da circa trenta anni ”, ha osservato come l’istituto della adozione di maggiorenni abbia nel tempo assunto la diversa funzione di riconoscimento giuridico della relazione sociale ed affettiva tra adottante ed adottato, in una ottica “solidaristica” ritenuta meritevole di tutela. In questa prospettiva il limite dei diciotto anni previsto dall’art. 291 c.c. appare, a dire della Corte, “ un’indebita ed anacronistica ingerenza dello Stato nell’assetto familiare ”, in contrasto con l’art. 8 CEDU, che pone agli Stati specifici obblighi di rispetto della vita familiare. La Prima Sezione ha poi richiamato il suo stesso orientamento reso con la sentenza n. 354 del 1999, in cui veniva riconosciuto ad un maggiorenne ed un minorenne, entrambi figli del coniuge dell’adottante, il diritto alla adozione, al fine di garantire la unità del nucleo familiare di cui faceva parte il comune genitore. Un simile principio, seppur reso su una fattispecie diversa ( nds presenza di una adozione “mista”, di un figlio maggiore e di uno minore), viene dalla Corte ritenuto applicabile per analogia al caso di specie, essendo fondato sulla medesima ratio , ovvero la tutela della unità familiare, garantita dall’art. 30 Cost. e dall’art. 8 CEDU. Nell’ottica dunque di coerenza con l’intero sistema normativo, come implicitamente confermato dal comma 2 dell’art. 12 delle preleggi, la Suprema Corte ha ritenuto che il giudice, nell’applicare l’art. 291 c.c., possa - avuto riguardo alle circostanze specifiche del caso - derogare al requisito legale di età richiesto e ridurre ragionevolmente tale divario, al fine di tutelare situazioni familiari consolidate.
1. Il caso Una coppia di donne – una delle quali madre biologica di una bambina nata da fecondazione assistita pratica all’estero – proponeva reclamo dinanzi alla Corte d’Appello di Venezia avverso il decreto con cui il Tribunale di Treviso aveva rigettato la richiesta di ricevere dall’ufficio di stato civile una dichiarazione congiunta di riconoscimento della bambina, nata in Italia. Le ragioni del rigetto della domanda da parte della Corte territoriale si fondavano sul disposto di cui all’art. 11 comma 3 del DPR n. 396/2000, a tenore del quale “ L'ufficiale dello stato civile non può enunciare, negli atti di cui è richiesto, dichiarazioni e indicazioni diverse da quelle che sono stabilite o permesse per ciascun atto. ” La coppia proponeva ricorso per Cassazione eccependo, tra le altre doglianze [1] , l’esistenza di un vizio nell’atto di nascita in relazione alla esatta indicazione dei genitori [2] . Con la sentenza n. 7668/2020 , pubblicata il 3 aprile 2020, la Prima Sezione della Corte di Cassazione si è espressa in senso negativo, fondando la propria decisione sul divieto – vigente nel nostro ordinamento – di accedere alle tecniche di procreazione assistita, come previste dalla Legge 40 del 2004 , per le coppie formate da persone dello stesso. 2. La procreazione medicalmente assistita La legge 40 del 2004 disciplina la procreazione medicalmente assistita, volta a consentire la procreazione nei casi in cui vi sia una accertata diagnosi di sterilità o comunque condizioni patologiche che impediscano la procreazione stessa. Come approfondiremo esaminando la pronuncia resa dalla Cassazione, la legge 40 del 2004 è rivolta alle coppie composte da soggetti maggiorenni dello stesso sesso, entrambi viventi ed in età fertile, conviventi o coniugati. Si tratta di un impianto normativo che ha da sempre indotto accese discussioni, sia in seno alla società civile che alla giurisprudenza; la pronuncia in commento risulta espressione di una parte di tale dibattito. Si segnala in particolare che, con la sentenza n. 162 del 2014, la Corte Costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 4 comma 3 delle Legge 40 del 2004 nella parte in cui stabilisce il divieto di ricorso a tecniche di procreazione assistita di tipo eterologo , in presenza di una patologia irreversibile che causi infertilità o sterilità. Successivamente, con la sentenza n. 96 del 2015, la Consulta ha nuovamente censurato la legge 40 del 2004 – ed in particolare gli artt. 1 commi 1 e 2 e 4, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili [3] . 3. La pronuncia in commento La Prima Sezione della Corte, a fondamento del rigetto della domanda, ha richiamato il disposto di cui all’art. 5 delle Legge n. 40 del 2004 (su cui già la corte territoriale basava la propria decisione) che, come anticipato, richiede quale requisito soggettivo per l’accesso alle tecniche di procreazione assistita lo status di coppia di maggiorenni di sesso diverso, coniugati o conviventi. Il divieto di ricorrere alla procedura in parola per coppie dello stesso sesso sarebbe rafforzato, secondo la Corte, dalla previsione di sanzioni amministrative a carico di chi le applica (art. 12, comma 2 Legge 40 del 2004). Si tratterebbe così di un divieto vigente nel nostro ordinamento ed applicabile agli atti di nascita formati in Italia, a prescindere dal luogo in cui sia avvenuta la procreazione assistita. Una simile interpretazione, secondo la Suprema Corte, sarebbe confermata dalla sentenza n. 221 del 2019 resa dalla Consulta in cui è stato affermato il carattere di “ extrema ratio ” delle tecniche di fecondazione assistita, intese in particolare come rimedio a situazioni patologiche e non “rimovibili”, restando così escluso il diritto di ricorrere alle medesime tecniche solo per il “ desiderio alla genitorialità ” [4] . 4. Le differenze con altre fattispecie che interessano coppie dello stesso sesso La Prima Sezione della Corte, esaminando i motivi di ricorso e gli orientamenti giurisprudenziali richiamati dalle ricorrenti, si è soffermata su altre fattispecie che coinvolgono i “diritti alla genitorialità” di coppie dello stesso, non ritenute tuttavia applicabili per analogia al caso di specie. Più in particolare la Corte ha brevemente richiamato la fattispecie della adozione di minori da parte di coppie omosessuali e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero dichiarativi del rapporto di filiazione tra genitori dello stesso sesso. - In relazione al tema della adozione, la Suprema Corte, anche in questo caso richiamando i principi statuiti dalla Consulta nella sopra richiamata sentenza, ha evidenziato che tra il caso di adozione – che presuppone la esistenza in vita dell’adottato ed il suo interesse a mantenere relazioni affettive instaurate di fatto – e quello della procreazione assistita sussista una differenza essenziale, atteso che nella seconda ipotesi il bambino deve ancora nascere, con conseguente necessità di tutelarne le “condizioni di partenza”. Più in particolare la Prima Sezione si è soffermata sul caso della cd. stepchild adotion , affrontato, tra le altre, con la pronuncia n. 12962 del 2016. In tale caso la Corte aveva ritenuto di confermare la validità della adozione di una minore richiesta dalla compagna della madre, avuto riguardo al preminente interesse della bambina a mantenere relazioni affettive già consolidate. - Allo stesso modo la Suprema Corte non ha ritenuto configurabile una analogia tra il caso sottoposto alla sua attenzione e quello del riconoscimento in Italia di atti stranieri dichiarativi della filiazione congiunta tra due donne , sul presupposto per cui, in tale ultimo caso, trattandosi di atto straniero, risulterebbe necessaria la tutela del diritto alla “conservazione” dello status filiationis acquisito all’estero, in conformità all’art. 117 comma 1 Cost. In questo caso la Prima Sezione richiama la sentenza n. 19599 del 2016, in cui è stato affermato il principio per cui è possibile il riconoscimento e la trascrizione nei registri dello stato civile italiano di un atto straniero dal quale risulti la nascita di un minore da due donne, non ostando a tal fine la circostanza per cui nel nostro ordinamento non sia prevista (o sia vietata) una fattispecie analoga e dovendo in ogni caso prevalere l’interesse del minore che si traduce nel suo diritto alla continuità dello stato di figlio acquisito all’estero. - La Corte ha proseguito il proprio ragionamento soffermandosi sull’ulteriore fattispecie delle coppie omosessuali maschili che, per divenire genitori, devono necessariamente ricorrere alla pratica della maternità surrogata , vietata nel nostro ordinamento dall’art. 12 comma 6 Legge n. 40/2004; tale divieto, secondo la Prima Sezione, risulta espressione di un principio di ordine pubblico. La Prima Sezione ha così richiamato la pronuncia n. 12193 del 2019 - resa a Sezioni Unite - con cui era stata negata la domanda di trascrizione nei registri di stato civile di un provvedimento straniero che accertava il rapporto di filiazione tra un minore nato a seguito di maternità surrogata ed un soggetto privo di legami biologici con il medesimo. Secondo la Corte di Cassazione, in particolare, il riconoscimento del rapporto di filiazione così come configurato sarebbe ad ogni effetto contrario al divieto della surrogazione della maternità previsto nel nostro ordinamento. Da ultimo la Suprema Corte non ha ritenuto rilevante la circostanza – pure enfatizzata dalle ricorrenti – per cui la pratica fecondativa fosse avvenuta all’estero, posto che la bambina era nata in Italia ed il relativo atto di nascita era stato formato nel nostro paese. [1] Con i primi tre motivi di ricorso, in particolare, la parte censura la pronuncia resa dalla Corte d’Appello di Venezia, in via incidentale, su profili afferenti la validità della procura alle liti ed il difetto di legittimazione ad agire della madre “intenzionale”, quale rappresentate della minore. La Suprema Corte, circoscritta la materia del contendere al tema della possibilità di rettifica dell’atto di nascita, ha ritenuto di dichiarare i primi tre motivi di ricorso inammissibili “per difetto di interesse”. [2] Le ricorrenti contestavano la esistenza di un vizio dell’atto nella misura in cui non veniva correttamente prospettata la realtà esistente nei fatti, ovvero la volontà di una delle due donne di comparire sull’atto come madre “intenzionale”. [3] La Consulta ha in particolare ritenuto irragionevole e lesivo del diritto alla salute della donna fertile portatrice di grave malattia genetica l’esclusione dal diritto a ricorrere a tecniche di fecondazione assistita che consentano di potere individuare preventivamente gli embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore e dunque evitare il rischio di gravi patologie o malformazioni o addirittura la morte precoce del feto. [4] Nella pronuncia costituzionale richiamata dalla Prima Sezione viene posto un interrogativo di base, ovvero se sia configurabile un “diritto alla procreazione” anche nel quomodo e dunque con metodi diversi da quello naturale. Ebbene la Corte Costituzionale ha ritenuto che la procreazione assistita, come configurata dalla Legge 40 del 2004, non possa rappresentare una modalità di realizzazione del desiderio di essere genitori in alternativa al concepimento naturale e sulla base di una decisione arbitraria della persona. La Consulta si è poi soffermata sulla “tipologia” di nucleo familiare che scaturisce dal proficuo utilizzo delle tecniche di procreazione che, a suo dire, dovrebbe pur sempre essere improntato al modello “tradizionale”.
Nota a ordinanza n. 1990/2020 relativa alla ammissibilità delle contestazioni alle risultanze della ctu per la prima volta in sede di comparsa conclusionale
La pluriennale collaborazione con lo studio mi ha consentito di acquisire importanti esperienze e competenze nell'ambito del diritto civile.
Votazione 110/110 con la lode, tesi in diritto penale internazionale dal titolo "La repressione internazionale dei crimini a sfondo sessuale", relatore Prof. Ugo Villani
1. Introduzione Con l’ordinanza n. 7500 depositata il 15 marzo 2019, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha affermato il principio per cui, nel caso di insinuazione al passivo di un credito comprensivo anche di interessi e rivalutazione monetaria, la mancata statuizione del Giudice Delegato in relazione a tali voci di credito costituisca un “rigetto implicito” e, come tale, debba essere oggetto di opposizione allo stato passivo da parte del creditore. Non risulta pertanto ammissibile la domanda tardiva proposta dal creditore in relazione alle voci di credito già oggetto di precedente istanza. 2. La fattispecie La pronuncia in commento trae origine dal contenzioso sorto tra uno studio legale e la curatela del Fallimento Gasnavi Srl, in relazione al credito – a titolo di interessi e rivalutazione monetaria – vantato dal primo. Più in particolare lo studio legale in questione subentrava nei diritti di credito di un singolo professionista che ne aveva per l’appunto domandato, mediante istanza di ammissione al passivo tempestiva, il riconoscimento, indicando nella domanda la quota capitale, gli interessi e la rivalutazione monetaria. Ebbene la curatela – ed il Giudice Delegato – riconoscevano al passivo la somma capitale e gli oneri accessori (iva e cap), ma nulla statuivano in relazione agli interessi ed alla rivalutazione. Il professionista non proponeva opposizione avverso lo stato passivo così formato. Successivamente lo studio legale presentava una domanda di insinuazione al passivo “tardiva” ai sensi dell’art. 101 l. fall., chiedendo il riconoscimento degli interessi e delle somme dovute a titolo di rivalutazione, da calcolarsi dalla data di apertura del fallimento al soddisfo e con il medesimo grado privilegiato della quota di credito già ammessa. Il Tribunale di Palermo rigettava la domanda ed il creditore impugnava così la decisione. La Corte territoriale confermava la posizione del Tribunale di Palermo, osservando come la mancata ammissione al passivo degli interessi e della rivalutazione richiesti avesse valore di rigetto e come, in assenza di una impugnazione ad hoc , sul punto si fosse formato un “giudicato”. 3. La decisione della Corte di Cassazione Lo studio legale proponeva ricorso per Cassazione deducendo, tra i vari motivi, la falsa applicazione e violazione di legge in relazione al principio di definitività dello stato passivo fallimentare ed alla sua efficacia di “giudicato interno” nonché la violazione e falsa applicazione del principio di irretroattività degli effetti della sentenza resa dalla Corte Costituzione il 23.5.2001, ritenuta non applicabile dalla Corte territoriale al caso in esame. La Suprema Corte, nel rigettare l’impugnazione, si soffermava ampiamente sui singoli motivi di ricorso. In particolare, in relazione al valore del “silenzio” serbato dal Giudice Delegato su alcune delle richieste avanzate dal creditore (nel caso che ci occupa il riconoscimento degli interessi e della rivalutazione monetaria sul credito vantato in linea capitale a titolo di prestazioni professionali), la Corte confermava il proprio orientamento (espresso, ex multis , dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 6060/2015) secondo cui, ove il creditore partecipi al procedimento di formazione dello stato passivo attraverso la formulazione di una istanza ex art. 93 l. fall., il Giudice Delegato debba provvedere sulla relativa domanda. La mancata pronuncia sulla stessa – o la parziale pronuncia – assume così valore di rigetto implicito, come tale censurabile con ricorso in opposizione allo stato passivo. Ed invero, secondo la Suprema Corte, la domanda di insinuazione al passivo tardiva è ammissibile nella misura in cui si differenzia - per oggetto e titolo della domanda - da quella originaria, restando altrimenti “assorbita” dal precedente giudicato interno. Diverso sarebbe stato il caso in cui la domanda di insinuazione tempestiva non avesse riguardato anche il riconoscimento degli interessi e della rivalutazione monetaria: in tale ipotesi, infatti, trattandosi di questione “nuova”, la relativa istanza di ammissione tardiva sarebbe risultata ammissibile. In relazione invece alla mancata applicazione da parte della Corte territoriale del principio statuito con la pronuncia di illegittimità costituzionale resa nel 2001 ( nds in cui la Consulta dichiarava incostituzionale l’art. 54 della Legge Fallimentare nella parte in cui non estendeva il diritto di prelazione agli interessi domandati in sede concorsuale come previsto dall’art. 2749 cc), la Suprema Corte precisa come tale pronuncia non fosse applicabile al caso concreto proprio in ragione del giudicato interno maturato e dunque del carattere “consolidato” della posizione giuridica sottostante.
Nota su ordinanza della Cassazione Civile, Sez. VI, n. 22082 del 2011
Nota alla sentenza n. 3246 del 30.5.2011 resa dal Consiglio di Stato
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