Pubblicazione legale
Nascita indesiderata e tutela del concepito.
Pubblicato su IUSTLAB
Sebbene il
nostro ordinamento non rechi una definizione di capacità giuridica, la medesima
occupa, non a caso, una collocazione primaria all’interno del codice civile. Trattasi,
invero, della suscettibilità delle persone fisiche di essere titolari di
situazioni giuridiche attive e passive, ovvero di diritti ed obblighi
giuridicamente riconosciuti, il cui acquisto avviene al momento della nascita. Siffatta
attitudine compete all’individuo per l’intera sua esistenza, trovando, come è
logico, il proprio confine naturale nell’evento della morte, evento
quest’ultimo che può anche essere dichiarato presuntivamente al ricorrere delle
condizioni stabilite dall’art. 58 c.c. Il
riconoscimento indiscriminato della capacità in parola rappresenta una chiara
espressione dei principi di libertà ed eguaglianza che ispirano il nostro
ordinamento, vero è che l’art. 22 Cost. sancisce espressamente il divieto di
privazione per motivi politici della capacità giuridica, al pari del nome e
della cittadinanza. Invero, la
capacità giuridica può essere oggetto di restrizioni solo in talune ipotesi
speciali relative, quali l’esclusione dalla successione e la riduzione del
diritto agli alimenti, le quali seguono a condotte del soggetto privato
definite “riprovevoli” ed “indegne”. E’ evidente,
tuttavia, che affinchè si possa validamente disporre dei propri diritti ed
assumere obblighi è necessario aver raggiunto un grado di maturità tale da
consentire una ponderazione delle proprie scelte e, di conseguenza, del proprio
agire. Tale
esigenza ha sicuramente ispirato il legislatore laddove ha previsto all’art. 2
c.c. che è solo con il raggiungimento della maggiore età che si acquista la
diversa capacità di agire, ovvero di compiere atti giuridicamente vincolanti,
restringendo le deroghe a siffatto presupposto temporale ad ipotesi specifiche,
tra le quali il matrimonio, il riconoscimento e la legittimazione dei figli
naturali, la donazione, il diritto di autore. In tale
contesto, il nostro ordinamento ha prestato altresì un’attenzione particolare
al concepito, ovvero a colui che non è ancora venuto ad esistenza e che
tuttavia, in quanto soggetto di diritto, è destinatario di norme giuridiche di
tutela. In
particolare, l’art. 1 c.c. ha previsto che i diritti che la legge riconosce al
concepito sono subordinati all’evento della nascita. Così è, ad
esempio, per i diritti spettanti al nascituro in materia di successione
legittima e testamentaria, nonché di donazione. Parimenti,
il concepito deve ritenersi destinatario di tutte quelle norme che, più o meno
esplicitamente, tutelano il diritto alla vita, diritto questo che nel caso
specifico non potrà che assumere i contorni del diritto al conseguimento della
vita. La nostra
carta costituzionale non ricorre all’utilizzo di tale locuzione, eppure è
indubbio che il diritto alla vita costituisca l’imprescindibile antecedente
logico degli ulteriori diritti fondamentali della persona in essa sanciti,
quali il diritto alla salute, la libertà personale, la libertà di
manifestazione del pensiero. Diversamente,
l’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo prevede
espressamente il diritto di ciascun individuo alla vita e, quanto al diritto
interno, l’art. 1 della L. 194/1978, recante la disciplina di tutela sociale
della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, sancisce che
lo Stato tutela la vita umana sin dal suo inizio. La scelta di
tale ultimo termine, e non quello diverso di nascita, non appare casuale ed, al
contrario, si ritiene in linea con l’attenzione riposta nei confronti del
nascituro dall’intero corpus della normativa richiamata. Va da sé che
il diritto alla vita non può che involgere l’ulteriore diritto alla salute
ovvero, con riguardo al concepito, il diritto a nascere sano, con la
conseguenza che eventuali malformazioni e/o lesioni cagionategli dalla condotta
dolosa o colposa del medico che ne ha curato la nascita trovano piena tutela in
sede risarcitoria. Diversa è,
invece, l’ipotesi in cui le malformazioni e/o le gravi patologie di cui il
soggetto è affetto dalla nascita non trovino la propria causa efficiente nella
condotta medica, ma abbiano origine genetica. In relazione
a tali casi, contorni decisamente problematici e dibattuti ha assunto negli
ultimi decenni la questione della cosiddetta “nascita indesiderata”, con la
quale si è inteso stigmatizzare quelle fattispecie controverse in cui il medico
abbia omesso di rilevare ed informare la gestante delle malformazioni e/o delle
gravi patologie del nascituro. Innanzitutto,
occorre rilevare che ipotesi siffatte trovano la propria cornice normativa
nella citata L. 194/78, la quale prevede la possibilità di ricorrere
all’interruzione volontaria della gravidanza, entro i primi novanta giorni,
nell’ipotesi in cui la sua prosecuzione, il parto o la maternità rappresentino
un pericolo per la salute psico-fisica della madre tenuto conto, tra le altre
ragioni, delle previsioni di anomalie o malformazioni del concepito. Oltre il
termine suindicato l’interruzione volontaria della gravidanza non potrà
prescindere dalla sussistenza dell’ulteriore requisito della gravità del
pericolo in cui incorre la gestante. Ne consegue
che se, da un lato, emerge con chiarezza la sussistenza in capo al medico del
dovere di informare la gestante della presenza di gravi anomalie o
malformazioni del nascituro, dall’altro, è vero che lo stesso legislatore ha
premura di precisare che l’aborto non costituisce un mezzo per il controllo
delle nascite. Pertanto, il
thema probandum della domanda di risarcimento da nascita indesiderata non potrà
che assumere natura complessa, richiedendo all’uopo l’accertamento delle
seguenti diverse circostanze: la presenza di gravi malformazioni o patologie
del feto, l’omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo
derivante alla salute psico-fisica della madre ed, in ultimo, la volontà di
quest’ultima di interrompere la gravidanza laddove tempestivamente informata. Se le prime
due circostanze richiamate non generano particolari problemi sotto il profilo
probatorio, se non eventualmente quelli strettamente contingenti, non può dirsi
altrettanto in relazione alla prova del pericolo per la salute psichica della
madre e della sua volontà di praticare l’aborto. Trattasi di
aspetti che, proprio in quanto attengono alla sfera interiore della gestante,
non si prestano per loro stessa natura ad essere oggetto di accertamento
mediante prova concreta. Tali
difficoltà probatorie investono proprio il soggetto che assume di aver subito
il danno, nella specie la madre, sulla quale ricade il relativo onere
probatorio in virtù del principio di prossimità della prova espresso dall’art.
2697 c.c. Sul punto,
parte della giurisprudenza di legittimità ha inizialmente ritenuto che l’onere probatorio in questione potesse dirsi
assolto facendo ricorso ad una mera presunzione della volontà della gestante di
interrompere la gravidanza, laddove informata delle anomalie patologiche del
nascituro (Cass. Civ. 10/05/2002, n. 6735; Cass. Civ. 29/07/2004, n. 14488). La soluzione
prospettata non è andata esente da critiche nella misura in cui si espone al
rischio di giustificare, seppur implicitamente, una sorta di automatismo tra le
gravi malformazioni del concepito ed il ricorso all’interruzione volontaria
della gravidanza, ponendosi così in contrasto con la ratio della disciplina
dettata in subiecta materia, senza mancare di sollevare problemi di natura
etica. Per tale
ragione è apparsa sicuramente più prudente la recente posizione assunta dalle
Sezioni Unite che, investite dell’annosa disputa giurisprudenziale, hanno
ritenuto che il ricorso a presunzioni semplici per la prova delle circostanze
riguardanti la sfera psichica della madre debba trovare sostegno in ulteriori
elementi fattuali, idonei a rinforzare quanto ritenuto “più probabile che non” (Cass.,
SS.UU., 22/12/2015, n. 25767). Tali diversi
fatti potrebbero consistere nella prova del ricorso al consulto medico proprio
per conoscere l’esistenza di eventuali patologie del feto, o ancora nelle
pregresse manifestazioni di pensiero della gestante di voler interrompere la
gravidanza in caso di malformazioni del figlio. Le
precisazioni suesposte non esauriscono, tuttavia, la portata dei contrasti
sorti in materia, i quali invero hanno investito altresì la riconoscibilità o
meno in capo al concepito della legittimazione attiva al risarcimento del danno
afferente la nascita indesiderata e, prima ancora, la natura del diritto che si
assume leso. Quanto al
primo aspetto, si è obiettato che non può riconoscersi legittimazione ad agire
in capo ad un soggetto che, nel momento in cui si è consumato l’illecito
omissivo, non era ancora venuto ad esistenza e, dunque, non era ancora soggetto
di diritto. In realtà,
tale primo nodo interpretativo non è apparso insormontabile tenuto conto del
fatto che è lo stesso ordinamento, come si è detto, a riconoscere al concepito
taluni specifici diritti, subordinandone l’acquisto al momento della nascita,
nonché ad apprestare forme di tutela speciali proprio in favore del nascituro. Ne consegue
che la circostanza che il danno sia originato da un fatto anteriore alla
nascita non preclude la risarcibilità del diritto leso dopo la nascita del
soggetto, allorquando il medesimo acquista la capacità giuridica. Quanto alla
natura del diritto tutelato, l’indagine relativa al suo contenuto non può
prescindere da una comparazione delle circostanze che precedono e che seguono
l’illecito, le quali nella specie corrispondono rispettivamente alla non vita
ed alla vita. A riguardo,
non è rimasta certo singolare la prospettazione della sussistenza di un vero e
proprio “diritto a non nascere” o “a non nascere se non sano”, diritto questo che resterebbe
leso dalla condotta del medico che
ometta di informare la madre della presenza di malformazioni del nascituro,
precludendole in tal modo la possibilità di praticare l’aborto. Ciò posto,
emerge prima facie che un tale argomentare porterebbe innanzitutto
all’inaccettabile conseguenza logica di poter imputare il medesimo danno anche
alla condotta della madre che abbia deciso di portare a termine la gravidanza,
sebbene informata delle condizioni patologiche del nascituro. In ogni
caso, assume importanza dirimente la circostanza che il nostro ordinamento
tutela la vita nella sola accezione positiva e non anche sotto il profilo del
diritto alla non vita, non potendo quest’ultimo per sua stessa natura
costituire un bene della vita giuridicamente tutelato. Né d’altro
canto la questione può dirsi comparabile alla diversa tematica riguardante
l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, la quale si
fonda su una manifestazione di pensiero ex ante del soggetto interessato,
anteriorità questa che non può per logica aversi nel caso di cui si discute. L’indagine
ermeneutica circa i profili della natura del diritto del concepito si è spinta,
in un secondo momento, ad analizzare aspetti propri della vita endo-familiare
del concepito. Partendo
dall’assunto che il soggetto diversamente abile necessiti di cure ed attenzioni
che inevitabilmente incidono sull’equilibrio familiare e sull’organizzazione
della vita quotidiana della famiglia di cui farà parte, si è giunti a sostenere
l’esistenza del diritto del tale soggetto a nascere in una famiglia preparata
ad accoglierlo. Un tale
diritto risulterebbe, pertanto, compromesso nell’ipotesi in cui il processo di
preparazione e di consapevolezza familiare sia stato negato dall’omessa
informazione da parte del medico circa le patologie del concepito. E’ evidente,
tuttavia, che anche tale prospettazione è destinata ad arenarsi nelle medesime
contestazioni ed aporie cui conduce l’affermazione del diritto alla non vita,
laddove postula la comparazione tra la sofferenza patìta dal soggetto per
essere parte di una famiglia non pronta ad accoglierlo e la non vita. L’excursus
giurisprudenziale esaminato ha certamente il pregio di dirimere i nodi di
natura processuale sorti in materia di danno da nascita indesiderata, laddove
fornisce chiarimenti sia in relazione all’onere probatorio gravante sulla
gestante, sia in ordine all’azionabilità della tutela risarcitoria in favore
del concepito. Non possono
dirsi altrettanto esaustive le conclusioni cui si è giunti sull’ulteriore
aspetto problematico, ovvero quello riguardante la natura del diritto del
nascituro che si assume leso dalla violazione da parte del medico dell’obbligo
di informazione circa le patologie e le malformazioni del feto. Vero è che
la delicatezza del tema ha sicuramente condizionato le risposte offerte dalla
giurisprudenza a fronte di argomentazioni difensive poste a sostegno della
risarcibilità del concepito che si sono rivelate per certi versi azzardate o,
comunque, imprudenti. L’unica
costante appare essere, dunque, la difficoltà interpretativa e di analisi che
indubbiamente affonda le proprie radici in una datata legislazione della
materia.