Pubblicazione legale:
Divieto
di affissione e art. 663 c.p.: un reato quasi dimenticato ma ancora visibile
nei centri urbani
Di Avv. Mattia Cardelli
Passeggiando
per i centri abitati italiani, capita spesso di imbattersi in cartelli o
scritte recanti la formula: “Divieto di affissione – Art. 663 c.p.”. Si
tratta di un richiamo a una disposizione del Codice Penale raramente applicata,
ma ancora formalmente in vigore (con le dovute precisazioni su cui si veda infra),
che affonda le sue radici nella visione pubblicistica dell’ordine urbano tipica
degli anni Trenta del Novecento.
L’articolo
663 del codice penale, rubricato "Vendita o distribuzione abusiva di
scritti o disegni", punisce oggi con la sanzione amministrativa
pecuniaria da 51 fino a 309 euro chiunque, in un luogo pubblico o aperto
al pubblico, pone in vendita o distribuisce al pubblico scritti o disegni
senza averne fatto la prescritta dichiarazione o senza l'autorizzazione
eventualmente richiesta dall’autorità. Sebbene la norma non riguardi
direttamente le affissioni sui muri, il suo riferimento frequente nei cartelli
urbani nasce da una prassi amministrativa e interpretativa che tende a
richiamare l’art. 663 c.p. come deterrente contro le affissioni abusive.
Introdotto
con il Codice Rocco nel 1930, l’art. 663 c.p. rifletteva l’esigenza dello Stato
fascista di controllare la diffusione della stampa, della propaganda e del
pensiero visivo, soprattutto negli spazi pubblici. L’obiettivo era quello
di impedire che materiale non conforme alla “moralità pubblica” o alla
propaganda ufficiale circolasse liberamente. In quest’ottica, la norma fungeva
da strumento di controllo ideologico, più che di ordine pubblico in senso
stretto.
Con
l’evoluzione del sistema democratico e costituzionale, il valore della libertà
di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) ha progressivamente
ridimensionato la portata repressiva dell’articolo, oggi quasi completamente
svuotato di rilevanza pratica. Le affissioni abusive, infatti, sono oggi
disciplinate in via primaria da norme amministrative e regolamenti
comunali, che prevedono sanzioni pecuniarie ben più attuali e incisive.
L’ambito applicativo dell’art.
663 c.p. è stato progressivamente ridotto in ragione di plurimi interventi
legislativi e giurisprudenziali. In particolare, deve richiamarsi la pronuncia
della Corte Costituzionale n. 1/1956, con la quale, dichiarata l’illegittimità
dell’art. 113 t.u.l.p.s., in riferimento all’art. 21 Cost., per l’illimitato
potere che la norma attribuiva all’autorità di pubblica sicurezza nel rilascio
delle licenze, ha resi di fatto inoperante per incostituzionalità derivata
l’art. 663 c.p., da quella norma integrato.
Lasciando tuttavia in vigore
il c. 5 dell’art. 113 t.u.l.p.s., ai sensi del quale “le affissioni non
possono farsi fuori dei luoghi destinati dall’autorità competente”,
l’ambito di applicabilità dell’art. 663 c.p. è rimasto limitato alla parte in
cui prevede la punibilità delle affissioni fatte senza osservare le
prescrizioni dell’Autorità.
Nonostante
la scarsa applicazione pratica e l’inadeguatezza della sanzione prevista (una sanzione
amministrativa pecuniaria massima di circa 300 euro), l’art. 663 c.p. non è mai
stato formalmente abrogato. Le scritte sui muri che lo richiamano sono quindi tracce
visibili di un passato normativo ormai superato, ma ancora incollato – è il
caso di dirlo – al tessuto urbano italiano.
L’art.
663 c.p. è ormai una curiosità giuridica più che una norma
effettivamente operativa: sopravvive nel Codice e nei muri delle nostre città,
ma la sua efficacia sanzionatoria è stata erosa dal tempo e dal progresso
costituzionale. Un esempio emblematico di come il diritto penale possa
restare visibile anche quando ha perso la sua funzione reale. In fondo,
anche le leggi, come i vecchi manifesti, a volte restano incollate più a lungo
del necessario.