Oggigiorno si parla sempre più spesso di diffamazione su Internet, con ciò intendendosi le offese alla reputazione altrui perpetrate sul web, utilizzando Facebook, partecipando a un gruppo WhatsApp o scrivendo una recensione negativa su TripAdvisor, per citare gli esempi più comuni.
Per inquadrare correttamente il problema occorre partire dalle norme di riferimento contenute nel codice penale, che hanno disciplinato il reato di diffamazione in un’epoca in cui il web e i social network non erano neanche immaginabili, e vedere, poi, la chiave di lettura che la giurisprudenza ha dato a tali norme, non solo per attualizzarle alla luce dei moderni mezzi di comunicazione, ma anche per bilanciare il diritto di una persona a veder tutelata la propria reputazione con il diritto alla critica, altrettanto importante e costituzionalmente garantito.
Norma di riferimento è l’art. 595 c.p. che, al primo comma, definisce la diffamazione come un’offesa all’altrui reputazione fatta comunicando con più persone, da punirsi con la reclusione fino a un anno o con una multa fino a euro 1.032.
Una forma aggravata di diffamazione è prevista al terzo comma: se l’offesa è recata a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, la pena è la reclusione da tre a sei mesi o una multa non inferiore a 516 euro, per via della facilità e velocità con cui il messaggio offensivo può propagarsi.
E proprio l’art. 595, terzo comma, nella parte in cui fa riferimento a qualsiasi mezzo di pubblicità per diffondere l’offesa, è stata interpretata pacificamente dalla giurisprudenza nel senso di includervi anche la diffamazione su Internet.
Presupposti per la configurazione del reato sono:
Per la Suprema Corte, l’eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia la persona offesa non consente di configurare il reato come ingiuria (sent. n. 40083/2018).
È opportuno ribadire nuovamente che la diffamazione su Facebook è aggravata dal mezzo di pubblicità, ricadendo nell’art. 595 c.p., ma non dal mezzo di stampa: non si tratta, cioè, di informazione o comunicazione di tipo professionale veicolata da una testata giornalistica, che ricadrebbe nella fattispecie disciplinata dall’art. 13 della L. 47/1948 (Cass., sent. n. 4873/2017 e sent. n. 12546/2017).
Il legislatore prevede, tra le cause di esclusione del reato di diffamazione (e dunque, per esteso, della discriminazione su Internet), l’esercizio del diritto di critica, quale forma del più ampio diritto di manifestazione del pensiero sancito dall’art. 21 della Costituzione.
La critica va intesa come un giudizio valutativo che parte da un fatto reale e concreto e si esprime su tale fatto con toni aspri, polemici, frasi colorite o linguaggio gergale, purché le espressioni utilizzate siano proporzionali e funzionali a contestare il fatto.
Linea di demarcazione tra diffamazione e diritto di critica è la “continenza”, ovvero esprimersi con moderazione, attenersi ai fatti e non sfociare in un’immotivata aggressione alla reputazione di una persona. Pertanto, una recensione ironica nei confronti di un pubblico esercente pubblicata su Facebook non integra gli estremi della diffamazione perché il gestore, operando in un libero mercato, accetta che i propri servizi possano essere oggetto di valutazioni positive o negative (Trib. Pistoia, sent. n. 5665/2015).
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