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La rinuncia alla proprietà: tutte le interpretazioni

Scritto da: Monica Battaglia - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

È possibile rinunciare a una proprietà? Cosa prevede la legge in questi casi? La dottrina prevalente sembra propendere per questa opportunità: vediamo più nel dettaglio cosa affermano gli esperti.

Come rinunciare alla proprietà

La rinuncia alla proprietà è una manifestazione di volontà unilaterale, non recettizia, da esprimere in forma scritta se riguarda beni immobili o beni mobili registrati e soggetta a trascrizione. Nel momento in cui essa viene espressa, si ha un effetto immediato di abdicazione del diritto, nonché altri effetti successivi, indiretti ed eventuali, che riguarderanno per esempio l'accrescimento della quota degli altri comproprietari.

L'ammissibilità della rinuncia al diritto di proprietà è oggetto di ampi dibattiti tra gli interpreti, che si trovano a far fronte a casi specifici nella prassi quotidiana, spesso controversi. La rinuncia potrebbe, infatti, venire manifestata per ottenere dei vantaggi particolari: è il caso, per esempio, del coniuge comproprietario di un immobile acquistato con benefici per la prima casa, che rinuncia alla sua quota per acquistare una nuova casa e usufruire di nuove agevolazioni.

La rinuncia alla proprietà può, in questi casi, evitare il ricorso a fattispecie come le vendite simulate o le donazioni senza animus donandi, permettendo di realizzare l'interesse delle parti senza ricorrere a finzioni. Nel nostro ordinamento, tuttavia, non esiste una norma che disciplini in maniera esplicita l'istituto della rinuncia, la cui definizione viene ricavata da diverse fattispecie presenti nel Codice Civile, aprendo dunque a interpretazioni di varia natura.

Opinioni sulla rinuncia alla proprietà

Le opinioni sul tema della rinuncia alla proprietà sono molto diverse tra loro. La tesi negativa porta a suo favore diverse argomentazioni, che partono proprio dalla mancanza di una regolamentazione generale del tema e dal fatto che l'istituto può prestarsi facilmente ad abusi da parte di privati che mirano ad aggirare tasse e oneri. La rinuncia, inoltre, andrebbe in contrasto con il carattere perpetuo del diritto di proprietà e permetterebbe a un soggetto di incidere sulla sfera giuridica di un terzo senza il suo consenso.

D'altro canto, i favorevoli criticano tali argomentazioni osservando che, pur non esistendo una norma specifica in materia, non esiste comunque alcuna norma che vieti tale scelta. L'analisi delle varie norme presenti nel codice porterebbe, anzi, a evidenziare una generale ammissibilità dell'istituto. In quanto diritto disponibile, la proprietà deve essere considerata rinunciabile, senza difficoltà per ciò che riguarda il principio di perpetuità della proprietà, che non può essere considerato un carattere indefettibile del diritto di proprietà.

In virtù delle argomentazioni brevemente espresse e di altre approfondite nel corso degli anni, si può affermare che la dottrina prevalente ammette la rinunciabilità del diritto di proprietà, che oggi sembra condivisa anche dalla giurisprudenza.



Avv. Monica Battaglia - Avvocato civilista a Roma

Studio fondato nel 1948 dall'Avv. Giuseppe Battaglia (1922-1995). L'Avv. Monica Battaglia, laureata presso l'Università La Sapienza di Roma con votazione di 110/110 e Lode, svolge la professione di avvocato da oltre 30 anni nel settore civile e amministrativo con particolare riferimento al diritto ereditario, di famiglia, immobiliare, contrattuale. Cassazionista e Mediatore presso l'Organismo di Mediazione Forense di Roma. Aree di Attività: Amministrativo, Civile, Condominio, Famiglia e Successioni, Lavoro, Locazioni, Immobiliare




Monica Battaglia

Esperienza


Eredità e successioni

Tratto abitualmente la materia delle successioni: problematiche legate all'invalidità di testamenti e relative impugnazioni, lesioni dei diritti dei legittimari, assistenza nella predisposizione di volontà testamentarie, controversie sulla gestione di beni ereditari. La rappresentanza legale è ovviamente garantita anche nella fase della mediazione obbligatoria, preventiva alla eventuale azione giudiziaria; fondamentale avere un approccio costruttivo durante la mediazione, che può condurre ad accordi di riconoscimento dei diritti con reciproca soddisfazione e in un tempo breve.


Diritto di famiglia

Il diritto di famiglia va trattato con cautela e competenza, non potendo ridursi a una guerra sulle questioni economiche. Il mio punto di vista è sempre la tutela delle persone, tanto più se vittime della crisi familiare, come sono, primi fra tutti, i minori. Per queste ragioni, il mio approccio alla separazione o al divorzio è principalmente razionale e tende a raggiungere il massimo risultato per il cliente senza trascinarlo in un contenzioso sfibrante. Nell'ambito della mia esperienza, ho curato anche gli interessi di minori adolescenti nell'ambito delle problematiche di famiglia.


Diritto immobiliare

Seguo il cliente nelle compravendite immobiliari dalla fase delle trattative fino alla stipula del rogito. Curo il rapporto plurimo, con la controparte contrattuale, con il mediatore immobiliare, con l'ente erogatore dell'eventuale mutuo. E' importante che tutti gli aspetti ricevano assistenza scrupolosa e attenta: dalle problematiche di regolarità urbanistica dell'immobile alla provvigione dell'agenzia immobiliare, dai rapporti con la controparte alla conclusione del preliminare, dalla fissazione dei termini al versamento della caparra. Nell'ambito del diritto immobiliare curo anche azioni a difesa della proprietà e del possesso.


Altre categorie:

Separazione, Divorzio, Affidamento, Contratti, Locazioni, Diritto civile, Recupero crediti, Arbitrato, Mediazione, Negoziazione assistita, Matrimonio, Stalking e molestie, Cassazione, Domiciliazioni, Diritto del lavoro, Licenziamento, Unioni civili, Tutela dei minori, Diritto commerciale e societario, Proprietà intellettuale, Marchi, Diritto assicurativo, Pignoramento, Diritto penale, Violenza, Diritto amministrativo, Ricorso al TAR, Diritto condominiale, Sfratto, Diritto dei trasporti terrestri, Incidenti stradali, Tutela del consumatore, Malasanità e responsabilità medica, Risarcimento danni.



Referenze

Pubblicazione legale

Quando il datore di lavoro non è responsabile dell'infortunio

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In generale, in caso di infortunio del dipendente, il datore di lavoro viene considerato responsabile penalmente in quanto tenuto a rispettare specifici obblighi di formazione antinfortunistica e a fornire tutti gli strumenti affinché il lavoro possa essere svolto in totale sicurezza. Di recente, tuttavia, una sentenza della Cassazione ha ribaltato tale responsabilità per i casi in cui l'infortunio sia dovuto al comportamento incauto del dipendente. Infortunio dovuto al comportamento incauto: cosa accade La sentenza a cui si fa riferimento è quella del 3 marzo 2016, n. 8883, relativa al caso di un lavoratore esperto di sicurezza e nominato responsabile per la sua azienda, precipitato da un tetto sul quale era incautamente salito per eseguire un riposizionamento di alcuni fili. In una situazione di questo tipo, viene da chiedersi quale possa essere la colpa del datore di lavoro a fronte del comportamento di un dipendente adeguatamente formato e informato in materia di sicurezza: è da questo presupposto che la Cassazione ha inteso partire per giungere alla risoluzione del caso. La sentenza sul caso specifico Il caso in evidenza si era chiuso dinanzi ai giudici del Tribunale di Rieti con l'assoluzione del datore di lavoro, ritenuto non responsabile di reato relativo alla violazione delle normative sulla prevenzione degli infortuni, una sentenza alla quale era seguito il ricorso in Cassazione della controparte. Secondo la difesa del datore di lavoro, l'istruttoria aveva fatto emergere la correttezza del comportamento dell'imputato e l'imprudenza del dipendente, il quale non aveva posto in essere le dovute misure di sicurezza per l'esecuzione dei lavori. Causa dell'incidente era stato dunque proprio il comportamento del dipendente, che non aveva rispettato le direttive impartite. Assoluzione degli imputati La Corte ha richiamato il principio per cui la sentenza di condanna deve essere pronunciata soltanto “se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, ex art. 533 c.p.p. comma 1, un giudizio non applicabile in questo caso in quanto si era già dimostrata, da parte del datore di lavoro, la predisposizione delle giuste misure di sicurezza, date dalla scelta di un operatore esperto e dalla fornitura dei mezzi adeguati per salire sul tetto ed eseguire l'intervento previsto. Se in altre situazioni, la stessa Cassazione ha sottolineato come non basti a escludere la responsabilità del datore di lavoro il solo comportamento negligente del dipendente infortunato, qualora risultino anche mancanze nell'adozione delle giuste cautele, in questo caso specifico si è proceduto con l'annullamento senza rinvio e la totale assoluzione degli imputati perché il fatto non costituisce reato, ragion per cui non è possibile affermare che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio subito dal dipendente. ← Post meno recente

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Danno da infortunio sul lavoro e prova del nesso di causalità

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Nei casi di infortunio sul lavoro, vige per il lavoratore l'onere della prova per il risarcimento integrale del danno. Questa in realtà, però, non riguarda la colpa del datore di lavoro, che si presume, ma il nesso di causalità tra l'inadempimento e il danno. Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta. Nesso di causalità tra condotta e infortunio Le norme in materia di infortuni sul lavoro mirano a tutelare in maniera completa il lavoratore, soffermandosi fermamente sulle responsabilità del datore di lavoro: questi è tenuto, infatti, a predisporre tutte le misure di sicurezza del caso e a mettere in atto comportamenti volti a garantire la piena incolumità del dipendente nello svolgimento delle sue mansioni. La giurisprudenza di legittimità ha cercato, negli anni, di trovare il giusto equilibrio tra le esigenze di prevenzione e i principi costituzionali che regolano la responsabilità penale e la colpevolezza. Da questo punto di vista, si è sempre cercato di porre in evidenza il rapporto di causalità materiale tra il lavoro e il verificarsi del rischio, dunque si parlerà di infortunio sul lavoro quando è proprio il lavoro a determinare il rischio di cui è conseguenza l'infortunio. In tal senso, anche un infortunio avvenuto al di fuori del luogo e dell'orario di lavoro ma come conseguenza di un rischio derivato dal lavoro, rientra nei casi di infortunio sul lavoro. Obblighi del datore di lavoro La legge prevede che il datore di lavoro sia responsabile per gli infortuni avvenuti al lavoratore in virtù del nesso sopra descritto. Per questo motivo, egli è tenuto ad assicurare la piena sicurezza nel luogo di lavoro a tutti i soggetti che prestano la loro opera. Inoltre, il datore di lavoro è tenuto a tutelare anche tutti coloro che accedono all'ambiente lavorativo a prescindere dal rapporto di dipendenza diretta con il titolare. Come stabilito dall'art.2087 c.c., infatti, l'imprenditore “ è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro ”, ponendosi come garante dell'incolumità di tutti coloro che operano nella sua impresa. Il ruolo dei responsabili del servizio di prevenzione Nell'ottica di garantire la più ampia tutela ai lavoratori, la responsabilità già prevista per l'imprenditore viene estesa anche ai responsabili del servizio di prevenzione e protezione, pur essendo la loro funzione all'interno dell'impresa legata al ruolo di consulente. Collaborando direttamente con il datore di lavoro, essi vengono infatti considerati veri e propri garanti degli eventi che si verificano a causa della violazione di tali doveri.

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Successioni e diritti ereditari: i diritti dei legittimari

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 Quando una persona viene a mancare, si presenta il problema della ripartizione del patrimonio tra i legittimi eredi. Forse non tutti sanno che esiste una "quota legittima" a cui hanno diritto figli, ascendenti e coniuge: queste figure possiedono tali diritti sia nel caso di successione senza testamento, sia in caso di successione testamentaria, anche se con alcune differenze. Scopriamo quali. La quota legittima Per quanto riguarda il patrimonio, esistono due quote complementari: la quota legittima e la quota disponibile. Il codice civile definisce la quota di cui i vari legittimari hanno diritto, costituendo anche uno speciale diritto al coniuge del defunto che sussiste anche in presenza di testamento. Sono diversi, dunque, gli aspetti che concorrono alla determinazione delle singole quote: in primis, il rapporto di parentela, seguito da eventuali categorie di successibili e, ovviamente, alla presenza di più legittimari. In caso di separazione, il coniuge separato senza addebito può avvalersi degli stessi diritti di un coniuge non separato; nel caso di divorzio, invece, l'ex coniuge non godrà più dei diritti di quota legittima. A chi spetta la quota legittima Abbiamo già accennato che i legittimari sono figli e discendenti, coniugi e ascendenti, che sussistono solo col verificarsi di determinati requisiti. Se il figlio è uno solo, a lui spetterà almeno la metà del patrimonio lasciato in eredità. Se, invece, i figli sono più di uno, avranno diritto ad almeno due terzi del patrimonio. Se, al contrario, il defunto non aveva figli, agli ascendenti andrà un terzo del patrimonio ereditario. Qualora questi ultimi concorressero col coniuge, avranno diritto a un quarto, mentre al coniuge andrà metà del patrimonio. E ancora, se il coniuge non si trovasse a concorrere con altri legittimari o con i soli ascendenti, avranno diritto, oltre alla metà del patrimonio come già specificato, ai diritti di abitazione nella residenza della famiglia, inclusiva dei mobili. Se, infine, il coniuge si trovasse a concorrere con un figlio, ciascuna delle due parti avrà diritto ad almeno un terzo a testa, mentre se i figli sono più di uno avranno congiuntamente diritto ad almeno metà del patrimonio; al coniuge, di conseguenza, spetterà una legittima di un quarto. Come si calcola la quota legittima Il calcolo della quota legittima da ripartire tra gli eredi è un'operazione complessa, regolata dall'articolo 556 del codice civile. Bisogna, infatti, sommare tutte le entità patrimoniali (da intendersi al netto di eventuali debiti) con le entità patrimoniali di eventuali donazioni dirette e indirette eseguite dal defunto quando era ancora in vita. Il risultato verrà considerato la quota disponibile, pronta da suddividere tra figli, coniugi e ascendenti.

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Monica Battaglia
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