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La responsabilità civile del medico. Evoluzione normativa

Scritto da: Nicoletta Genovese - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

La responsabilità del medico e dell'esercente le professioni sanitarie è stato oggetto di una continua evoluzione normativa. Partendo dalla diatriba obbligazioni di mezzi, obbligazioni di risultato, si è cercato di individuare, nel corso del tempo, una disciplina che riuscisse da un lato a garantire una tutela effettiva al paziente dalla cd malpractice, dall'altro una tutela del  medico, garantendo una evoluzione del rapporto medico paziente armonioso, tale da mettere al riparo dalla malpractice e dalla medicina difensiva.

Fino al 2012, anno di emanazione del decreto Balduzzi, la materia della responsabilità del medico era disciplinata applicando i principi generali dell’ordinamento.

Il riferimento era agli artt. 2230 e seg. del c.c.. In particolare si inquadrava la responsabilità del medico nell’alveo delle norme dedicate all’esercizio dell’attività professionale e delle obbligazioni.

Partendo dal presupposto che la professione medica è una professione intellettuale, al fine di circoscrivere la responsabilità del medico si invocava l’applicazione dell’articolo 2236 del c.c. ai sensi del quale: “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni ,se non in caso di dolo o colpa grave”, limitando così l’attribuzione di responsabilità in capo al medico al solo dolo o alla colpa grave.

Le richieste della medicina moderna

Ben presto, la medicina moderna ha rilevato la fallacia di un simile sistema normativo. Nuove esigenze della medicina e lo sviluppo di una nuova considerazione di esito (la cui incertezza si è sempre meno disposti ad accertare), hanno fatto avvertire la necessità di individuare regole e linee guida che riducessero al massimo la discrezionalità del medico.

Così, si è assistito ad un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale, alla luce delle nuove esigenze avvertitesi a seguito della ormai accertata complessità dell’attività medica e del suo specializzarsi; oltrechè del mutato rapporto medico-paziente in un’ottica sempre più individualista, in cui l’interesse del paziente non è solo alla conservazione delle proprie condizioni di salute ma al loro miglioramento.

In tale contesto, la prestazione del medico per poter essere diligente oltre ad essere conforme agli standard scientifici propri della prestazione medica, deve adempiere anche ad una serie di obblighi accessori, la cui violazione è fonte di responsabilità, quali quelli: informativi; di controllo e di vigilanza.

La dottrina e la giurisprudenza hanno dovuto elaborare concetti nuovi, mettendo in dubbio istituti, nozioni, assiomi sulle quali si era basata per anni la disciplina della responsabilità del medico.

La malasanità e il ricorso alla medicina difensiva

Passando dalla teoria alla pratica, nell’ambito di un contesto socio-sanitario caratterizzato dall’esplosione di casi di malasanità e dalla rincorsa alle responsabilità, da un lato si è enfatizzata la posizione di garanzia del medico nei confronti del paziente, portando alla elaborazione della teoria del contatto sociale, dall’altro si è assistito all’attuazione di pratiche di medicina difensiva attuate dal medico per difendere sé stesso contro eventuali azioni di responsabilità.

Questo modo di operare, ha finito con il mettere a serio rischio la salute dei pazienti, oltrechè arrecare ingenti costi per le casse dello Stato. Basti pensare ai costi a carico del servizio sanitario nazionale per la prescrizione anche non necessaria di analisi. Finendo così, con l’allontanarsi, dall’obbiettivo prioritario di tutelare il malato: soggetto debole per antonomasia.

Il decreto Balduzzi, aporie e questioni irrisolte

Ben presto, si è avvertita l’esigenza di una disciplina ad hoc della responsabilità del medico, che tenesse conto della peculiarità del rapporto medico-paziente e che innovasse la disciplina della responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie pubbliche e private.

Così si è giunti all’emanazione del Decreto Balduzzi (dl. 158 del 2012 convertito in l. 189/2012), con il quale si è cercato di arginare il problema della medicina difensiva, partendo dall’assunto che l’obbligazione del medico è una obbligazione di mezzi e non di risultato.

Ragion per cui, il medico ha l’obbligo di impiegare tutti i mezzi necessari e adeguati, di cui abbia o possa acquisire la disponibilità per la tutela della salute del paziente. Per meglio esercitare la sua attività dovrà attenersi alle linee guida e alla buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, attivandosi per eseguire la propria prestazione, osservando uno standard di diligenza professionale secondo il criterio generale: “dell’homo eiusdem professionis et condicionis“.

Decreto Balduzzi: responsabilità contrattuale o extracontrattuale?

Tuttavia, il decreto Balduzzi, non ha avuto grande successo in merito alla disciplina della responsabilità civile, anzi ha alimentato notevolmente i dubbi e le perplessità esistenti circa l’esatta qualificazione da attribuire alla responsabilità medica. Ci si è chiesto, se la responsabilità del medico dovesse essere considerata contrattuale (come asseriva la preminente giurisprudenza) o extracontrattuale (come aveva fatto presumere il richiamo all’articolo 2043 del codice civile dall’articolo 3 del decreto 158/2012 rubricato “ Responsabilità dell’esercente le professioni sanitarie”.  

I primi commentatori hanno ritenuto che fosse intenzione del legislatore ricondurre la responsabilità del medico entro il regime della responsabilità aquiliana, quindi della responsabilità per fatto illecito.

Una tale lettura, comportava che il medico potesse essere considerato responsabile civilmente ex art 2043, esclusivamente nei casi in cui si fosse verificata una violazione del principio del c.d. alterum non laedere. Principio che sarebbe configurabile unicamente quando: per effetto dell’intervento del sanitario, il paziente si trovasse in una posizione peggiore rispetto a quella precedente. Se, invece, il paziente non realizza il risultato positivo che si potrebbe legittimamente aspettare dalle ordinarie tecniche sanitarie, non sarebbe configurabile una responsabilità extracontrattuale del medico, per il semplice fatto che il paziente non ha subito un danno rispetto alla situazione quo ante.

Il contributo della giurisprudenza e la teoria del contatto sociale

Gli stessi sono stati subito smentiti dalla giurisprudenza di legittimità che è giunta ad individuare quale figura unitaria della responsabilità, quella contrattuale, sulla base dell’assunto che sebbene si dovesse distinguere tra responsabilità personale del medico e responsabilità della struttura sanitaria, la responsabilità del medico personale  o operante in una struttura sanitaria pubblica o privata, doveva essere qualificata sempre come responsabilità contrattuale, sebbene si dovesse distinguere la fonte di tale responsabilità.

Per quanto riguarda la responsabilità del medico, essa deriverebbe dalla posizione di garanzia che il professionista ricopre nei confronti del paziente. In poche parole, dal momento in cui il medico prende in carico il paziente, si instaura un rapporto sociale qualificato che comporta obblighi in capo al medico analoghi a quelli previsti dal contratto d’opera professionale. Obblighi che deriverebbero dal semplice contatto che si instaura tra il medico e il paziente ( Teoria del contatto sociale). Viceversa, per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria, sia essa pubblica o privata, essa troverebbe origine nella stipula del contratto atipico di spedalità. Con l’accettazione del paziente, la struttura sanitaria si impegna a mettere a disposizione del malato non solo le prestazioni dei medici, paramedici e ausiliari, ma anche i farmaci, gli ambienti idonei e le attrezzature moderne necessarie per la terapia e la degenza.

La disciplina attuale: la Legge Gelli-Bianco

Il quadro normativo così delineato dalla giurisprudenza, è completamente mutato nell’aprile del 2017 con la legge Gelli-Bianco (L. n.24/2017): ” recante norme in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché’ in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie“, che ha completamente innovato il quadro normativo della responsabilità del medico, cercando di superare le aporie e le questioni irrisolte del decreto Balduzzi, prendendo una posizione chiara circa l’inquadramento sistematico della natura giuridica della responsabilità medica.

Il sistema binario della responsabilità civile del medico e della struttura sanitaria

Al fine porre fine all’antica diatriba responsabilità contrattuale-responsabilità extracontrattuale, l’articolo 7 della legge Gelli-Bianco introduce un sistema binario della responsabilità civile medica, che prevede un trattamento diverso dell’esercente la professione sanitaria e la struttura sanitaria sia essa pubblica o privata.

La responsabilità della struttura sanitaria è disciplinata dal comma 1 dell’art.7: “La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose”.

Ai sensi del comma 3 dello stesso articolo, la disciplina della responsabilità dell’esercente le professioni sanitarie viene così regolata: “L’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2, risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, salvo abbia agito nell’adempimento di una obbligazione contrattuale assunta con il paziente[…]”.

Dal dettato normativo dell’art. 7 emerge un doppio binario della responsabilità civile medica: l’esercente le professioni sanitarie che esercita la propria attività a qualsiasi titolo all’interno della struttura sanitaria, risponderà della propria condotta ex art. 2043; invece la struttura ospedaliera risponderà dei danni cagionati dal medico ex art. 1218, quindi a titolo di responsabilità contrattuale.

Onere probatorio e termine prescrizionale alla luce delle novità introdotte con la legge Gelli Bianco

Il regime binario introdotto con la legge Gelli-Bianco comporta delle notevoli differenze, sul piano dell’onere probatorio e del termine prescrizionale.

Nel caso di azione di responsabilità nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, il quale risponderà a titolo di responsabilità extra contrattuale, dovrà essere il paziente a dimostrare l’intero danno subito e l’elemento soggettivo. Il paziente inoltre è obbligato a rispettare il termine prescrizionale quinquennale ex art. 2947 c.c.

Viceversa, la responsabilità della struttura sanitaria, posta nell’alveo della responsabilità contrattuale, soggiace a regole diverse: in tal caso l’onere della prova è posto a carico della struttura sanitaria, dovendo, il paziente, dimostrare solamente la prova del titolo contrattuale e dell’inadempimento; inoltre il termine dell’azione sarà quello ordinario, cioè quello decennale previsto dall’art. 2046 c.c.

In definitiva, salvo il caso in cui, paziente e medico abbiano stipulato uno specifico contratto ( in tal caso si applicherà la disciplina del contratto d’opera intellettuale e il medico risponderà, in  caso di inadempimento, ai sensi dell’articolo 1218 del cc), la responsabilità del medico avrà natura extracontrattuale. Fermo restando che le due responsabilità (contrattuale della struttura sanitaria e aquiliana del medico) possono concorrere, secondo il principio generale desumibile dall’articolo 2055 del codice civile.

Evidenti sono, in ultima istanza, gli scopi che il legislatore intende perseguire mediante una tale disciplina. Differenziare le posizioni risarcitorie della struttura sanitaria e del medico, ha come effetto quello di trasferire gran parte del rischio sulla struttura sanitaria, consentendo al medico di esercitare la propria professione con maggiore tranquillità. Così il legislatore prova a porre un argine alle condotte di medicina difensiva che rischiano di porre il malato in una posizione secondaria rispetto alla condotta del medico, preoccupato più di non subire conseguenze penali e/o civili che curare il proprio paziente.

L’apertura della legge Gelli-Bianco alle ADR ” Alternative dispute resolution” e la riduzione del contenzioso

L’obbiettivo prioritario della Gelli-Bianco è la riduzione del contenzioso da responsabilità medica prevedendo la sostenibilità del sistema attraverso strumenti assicurativi. Infatti, tra le novità più significative sono annoverabili l’obbligo di assicurazione sia per il professionista che per la struttura (articolo 10), la previsione della possibilità per il danneggiato di agire direttamente nei confronti dell’assicuratore ( articolo 12) e l’istituzione di un fondo di garanzia nel caso di superamento del massimale ( articolo 14).

Inoltre, dal punto di vista processuale, proprio al fine di ridurre il numero dei contenziosi per malasanità, l’articolo 8 della legge Gelli-Bianco prevede, quale condizione di procedibilità della domanda di risarcimento, l’espletamento della consulenza tecnica preventiva, in funzione conciliativa, di cui all’articolo 696 bis c.p.c, al quale sono obbligate a partecipare tutte le parti, ivi incluse le imprese di assicurazione coinvolte. Alternativamente alla consulenza tecnica preventiva, potrà essere esperito il procedimento di mediazione, ai sensi del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28. Questo permette di evitare i costi del processo e di ridurre i tempi della trattazione e della decisione della controversia.


Avv. Nicoletta Genovese - Avvocato

Sono un avvocato che grazie alla collaborazione con diversi studi legali ha maturato esperienza sia nel settore giudiziale che stragiudiziale in materia di diritto civile, diritto del lavoro e previdenziale, contrattualistica, responsabilità civile et al, diritto dell'immigrazione, diritto tributario e ancora assistenza in materia di diritto penale e dell'esecuzione penale.




Nicoletta Genovese

Esperienza


Recupero crediti

Ho maturato esperienza nel settore del recupero crediti dalla fase stragiudiziale alla fase giudiziale. In particolare in materia di negoziazione del credito, nella stesura di diffide e messa in mora, nella stesura di piani di rientro, sino alla richiesta di decreti ingiuntivi e di assistenza e consulenza nella fase dell'esecuzione.


Malasanità e responsabilità medica

Impegnata in materia di responsabilità del medico e da somministrazione di vaccini. Ho assistito clienti per la richiesta di indennizzo e risarcimento danni a seguito del verificarsi di eventi avversi subiti dalla somministrazione di vaccini, trasfusioni ed emoderivati, in particolare vaccino COVID 19, sia durante la fase amministrativa di richiesta di indennizzo che nella fase giudiziale.


Diritto civile

Ho fatto una pratica nel settore del diritto civile che mi ha permesso di approfondire le tematiche proprie del diritto civile. In particolare, attualmente mi sto dedicando alla tematica del risarcimento da somministrazione di vaccini-vaccini covid 19 e malasanità. Ma seguo anche casi che spaziano dal diritto di famiglia alla responsabilità civile (infortunistica stradale), alla contrattualistica, al recupero crediti et al.


Altre categorie:

Separazione, Divorzio, Diritto assicurativo, Immigrazione e cittadinanza, Incidenti stradali, Negoziazione assistita, Contratti, Diritto tributario, Domiciliazioni, Diritto amministrativo, Incapacità giuridica, Licenziamento, Risarcimento danni, Diritto bancario e finanziario, Usura, Diritto militare, Eredità e successioni, Tutela dei minori, Pignoramento, Diritto del lavoro, Previdenza, Diritto penale, Ricorso al TAR, Diritto internazionale ed europeo, Diritto immobiliare, Multe e contravvenzioni, Tutela del consumatore.



Referenze

Pubblicazione legale

Recupero crediti_ il credit management

Pubblicato su IUSTLAB

Una delle principali cause della crisi economica odierna , che sovente coinvolge professionisti, imprese ma anche privati cittadini sono i crediti insoluti . Spesso aziende, società o privati non riescono in autonomia a recuperare le somme di denaro (i propri crediti) da parte dei propri clienti e dei propri debitori, quindi necessitano dell’assistenza e della consulenza di un legale, che sia in grado di curare e seguire le singole fasi del recupero del credito. Una fase, particolarmente importante, è il cd credit management. Il credit management consiste in tutte quelle attività volte alla gestione , amministrazione e controllo di un credito . Insomma, un insieme di pratiche volte a monitorare un credito, al fine di approntare strategie per il recupero del credito efficaci, ad iniziare dalla verifica dell’eventuale solvibilità del nostro debitore. In altre parole, si ci occupa dell’analisi della documentazion e, della gestione della posizione creditizia/ debitoria , dell’eventuale stesura di piani di rientro , della valutazione della qualità del credito, dell ’attività di recupero del credito vera e propria. Successiva alla fase del credit management, è il recupero del credito vero e proprio, per mezzo di una serie di azioni coordinate tra di loro, che vanno dalla redazione di diffide e messe in mora, alla stipula di accordi transattivi-i famosi saldi e stralcio- fino alla predisposizioni di atti ed azioni dinanzi alle competenti autorità giudiziarie, quali richieste di decreti ingiuntivi et al. Ogni azione, viene posta in essere a seconda del credito da recuperare. I crediti possono avere una diversa origini e natura . A seconda della loro origine possono derivare da un rapporto di natura contrattuale o da altro rapporto obbligatorio, possono distinguersi, a seconda della loro natura in crediti bancari, crediti professionali, in crediti per prestazioni lavorative etc. Le azioni per il recupero crediti possono essere di natura stragiudiziale o giudiziale . Le prime mirano a raggiungere un accordo amichevole tra le parti, mentre le seconde prevedono l’avvio di un’azione legale innanzi al giudice competente ( Giudice di Pace o Tribunale). Il recupero stragiudiziale avviene attraverso diffide, solleciti di pagamento, messe in mora e trattative per raggiungere un accordo transattivo . Ma quando la via amichevole non basta, allora è necessario agire in giudizio, attraverso una pronta ed efficace strategia giudiziale. Il recupero giudiziale , prevede l’invio di intimazioni di pagamento , richieste di decreti ingiuntiv i, precetti e pignoramenti di beni mobili, presso terzi o immobili, a seconda dei casi, al fine di riuscire a recuperare il credito insoluto.

Pubblicazione legale

Il riconoscimento della cittadinanza ius sanguinis/ iure sanguinis

Pubblicato su IUSTLAB

Nel nostro ordinamento la cittadinanza si acquista prioritariamente per nascita : è considerato cittadino italiano il figlio di padre e di madre cittadini per discendenza diretta dall’avo cittadino italiano . La legge di riferimento è la legge 91/1992, in virtù della quale, il discendente emigrato italiano che non abbia conseguito la cittadinanza straniera, può rivendicare il riconoscimento della cittadinanza italiano iure sanguinis . Ragion per cui, anche i discendenti di seconda, terza e quarta generazione, ed oltre, (all'infinito) di emigrati italiani possono essere dichiarati cittadini per filiazione, cioè per cittadinanza ius sanguinis, purché non vi sia stata una interruzione nella trasmissione della cittadinanza. Per ottenere la cittadinanza iure sanguinis occorrono due requisiti: la discendenza da soggetto italiano ( l’avo emigrato); l’ assenza di interruzioni nella trasmissione della cittadinanza. È quindi necessario per il richiedente dare prova della mancata naturalizzazione straniera , non solo dell’avo italiano, ma anche dei suoi discendenti in linea retta, prima della nascita della successiva generazione, fino ad arrivare al richiedente. Il problema della naturalizzazione si è avvertito in particolar modo in Brasile, tra il 1889 e 1891 a seguito della grande naturalizzazione. Il Governo Brasiliano, in virtù del decreto 58 A del 1889, stabiliva che gli Italiani presenti in territorio Brasiliano alla data del 15.11.1889 avrebbero ottenuto la “naturalizzazione automatica” brasiliana a meno che non avessero manifestato dinanzi ai propri consolati la volontà di permanere cittadini della nazione di origine, entro sei mesi dalla data di pubblicazione del decreto. La grande naturalizzazione veniva utilizzata dal Ministero dell’Interno per contestare la trasmissione dello "status civitatis" per supposta automatica perdita della cittadinanza italiana dell’avo italiano che in quel periodo storico era emigrato in Brasile. La sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite il 24.08.2022, n. 25318 ha definitivamente ritenuto illegittima tale norma. In particolare ha ritenuto che la norma straniera deve essere messa in stretta correlazione con le disposizioni del codice civile all'epoca vigente, ergo, il codice civile del 1865. L’art. 11, n. 2, cod. civ. 1865, nello stabilire che la cittadinanza italiana è persa da colui che abbia “ottenuto la cittadinanza in paese estero”, sottintende, per gli effetti sulla linea di trasmissione iure sanguinis ai discendenti, che si accerti il compimento, da parte della persona all’epoca emigrata, di un atto spontaneo e volontario finalizzato all’acquisto della cittadinanza straniera in applicazione del principio secondo il quale: "le norme del diritto internazionale e le leggi estere, non possono essere contrastanti con le leggi del nostro stato afferenti alle persone, all’ordine pubblico e al buon costume". Ragion per cui , in materia di cittadinanza non è previsto alcun automatismo , in quanto per la perdita della cittadinanza italiana è necessaria una esplicita rinuncia . La trasmissione della cittadinanza iure sanguinis La trasmissione della cittadinanza iure sanguinis può avvenire in linea maschile ( paterna) o in linea femminile ( materna). Il riferimento normativo è l'art. 1 della legge 91/1992, ai sensi del quale: " è cittadino per nascita: il figlio di padre o di madre cittadini ". Questo significa che colui che è nato in uno stato straniero ha diritto ad essere riconosciuto cittadino italiano se dimostra di avere un avo italiano senza limiti generazionali , purché la catena di trasmissione della cittadinanza non si sia interrotta per naturalizzazione o per rinuncia di uno degli ascendenti prima della nascita del figlio cui si vorrebbe trasmettere la cittadinanza. La trasmissione può quindi avvenire in linea femminile-materna e in linea maschile-paterna. Se per la trasmissione in linea maschile-paterna non vi sono limiti, nel passato si riscontravano dei limiti per la trasmissione in via materna della cittadinanza. Infatti, l’articolo 10 della legge 555/1912 stabiliva la perdita della cittadinanza italiana per la donna che si univa in matrimonio con un cittadino straniero. Tuttavia, la legge 555/1912 è stata considerata costituzionalmente illegittima in applicazione del principio di uguaglianza e della parità dei coniugi, quindi la possibilità della trasmissione della cittadinanza italiana anche per linea materna. Principio oggi ribadito anche dalla Suprema Corte di Cassazione. Gli Ermellini hanno affermato che: “ per effetto delle sentenze della Corte Costituzionale, deve essere riconosciuto il diritto allo status di cittadino italiano al richiedente nato all’estero da figli di donna italiana coniugata con cittadino straniero nel vigore della L. 555/1912 che sia stata, di conseguenza, privata della cittadinanza italiana a causa del matrimonio ”. Come ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis Il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis può avvenire attraverso due procedure: la procedura giudiziale e la procedura amministrativa. La procedura giudiziale La procedura giudiziale, è la procedura che permette di ottenere il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis in maniera più celere , in quanto i tempi per ottenere il riconoscimento della cittadinanza in via amministrativa, attraverso il Consolato, sono molto lunghi. Basti pensare che i tempi per essere chiamati al consolato possono superare i 10 anni. È preferibile, allora la via giudiziale. Il Tribunale Roma con la sentenza n. 2055/ 2019 ha riconosciuto la problematica delle lunghissime liste di attesa e le ha considerate un diniego di riconoscimento del diritto vantato dai richiedenti, giustificando così il loro accesso alla via giurisdizionale. Sulla scia di tale orientamento, recenti sentenze del Tribunale di Roma hanno previsto che non è necessario attendere 730 giorni prima di iniziare l’azione giudiziaria. Singoli passaggi della procedura giudiziale Innanzitutto bisogna premettere, che dal 2021 è cambiata la legge, e pertanto, la competenza a decidere la domanda di cittadinanza iure sanguinis non è più il Tribunale di Roma, ma è il Tribunale del foro di nascita dell’avo italiano . Il procedimento è disciplinato dalla legge delega 206/2021 la quale prevede al comma n. 36: “ quando l’attore risiede all’estero le controversie di accertamento dello stato di cittadinanza italiana sono assegnate avendo riguardo al comune di nascita del padre, della madre o dell’avo cittadini italiani ”. Quindi, la competenza in materia di domanda di cittadinanza ius sanguinis è delle Sezioni Specializzate in materia di immigrazione e cittadinanza del tribunale del luogo del comune di nascita dell’avo cittadino italiano . Il procedimento, oggi, a seguito della cd Riforma Cartabia si svolge secondo le norme del rito semplificato di cognizione, di cui all’articolo 281 decies e ss c.p.c. È necessaria l’assistenza di un legale, ed è necessaria la procura notarile per la rappresentanza in giudizio. All'uopo è opportuno dotarsi di una procura redatta da un notaio e successivamente tradotta, e in alcuni casi apostillata. Non è necessaria la presenza dei ricorrenti in Italia. Per poter presentare la domanda giudiziale di riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis, di particolare importanza è la raccolta della documentazione . I documenti raccolti, formati all’estero, devono ai sensi del DPR. 445/2000, essere tradotti in lingua italiana e muniti di legalizzazione consolare . La validità dei certificati è disciplinata dall’ art. 41 del DPR 445/2000 che stabilisce la validità illimitata dei certificati rilasciati dalle pubbliche amministrazioni attestanti stati, qualità personali e fatti non soggetti a modificazione. Le restanti certificazioni hanno invece validità di sei mesi. La stessa legge si applica anche ai documenti prodotti in Italia. Nell’ambito del processo giudiziale incombe l’onere sulla parte che richiede il riconoscimento della cittadinanza italiana di fornire la prova del suo diritto , quindi la prova della filiazione da discendente italiano per cui, di fondamentale importanza è la raccolta della documentazione, che costituirà prova del rapporto di filiazione . Ottenuto il riconoscimento della cittadinanza italiana, l’avvocato provvederà a richiedere, all’ufficio anagrafico del comune italiano di nascita dell’avo, la trascrizione degli atti nel registro dello stato civile. Con l’avvenuta trascrizione la procedura si intende conclusa. Il riconoscimento della cittadinanza italiana opera con effetto retroattivo alla nascita della persona. I richiedenti possono recarsi personalmente presso gli Uffici Consolari di residenza per richiedere l’iscrizione all’AIRE (Anagrafica italiani residenti all’estero) nonché il rilascio del passaporto italiano. La via amministrativa Come anzidetto, in alcuni casi è possibile anche scegliere la procedura amministrativa. La procedura amministrativa permette il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis senza instaurare un giudizio. Tuttavia, i tempi per ottenere il riconoscimento della cittadinanza sono più lunghi. La procedura amministrativa può svolgersi in due modalità, a seconda che il richiedente risieda all’estero o in Italia. Se risiede in Italia è possibile esperire la procedura amministrativa tramite il comune di residenza del richiedente, quindi è necessaria preliminarmente ottenere l’iscrizione anagrafica, ed è necessario avere ottenuto la residenza nel Comune in cui si intende esperire il procedimento amministrativo di riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis, oltre ad avere preliminarmente, regolare permesso di soggiorno. Invece, per i residenti all’estero possono proporre istanza all’autorità consolare. I tempi di attesa per ottenere la cittadinanza iure sanguins in via amministrativa sono più lunghi. Se la procedura viene avviata personalmente in Italia, l’attesa varia in base al Comune, nel caso in cui la domanda è presentata all’estero, l’attesa varia in base al Consolato. Proprio per abbattere i tempi di attesa, e permettere al richiedente di continuare a risiedere all’estero è sempre consigliabile la via giudiziale . Di particolare importanza è la raccolta della documentazione e il rispetto della normativa di riferimento. A tal proposito importante è la circolare del ministero dell’interno la K.28.1 del 1992 che rappresenta una sorta di “vademecum” delle procedure da seguire per i cittadini stranieri che vogliono ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana. Naturalmente al fine di poter richiedere il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis, è necessario ricostruire la discendenza della cittadinanza italiana. Quindi è necessario partire dall’avo italiano, e verificare, attraverso la preliminare raccolta della documentazione che non vi sono stati processi di naturalizzazione o interruzione nella trasmissione della cittadinanza.

Pubblicazione legale

La responsabilità del medico derivante dalla violazione del consenso informato: il nuovo rapporto medico-paziente

Pubblicato su IUSTLAB

Il con(senso) informato è attuazione del diritto alla salute nella sua globalità, finalizzato a garantire l’autodeterminazione del singolo individuo in merito alla propria salute. La nozione di consenso informato si inserisce in un’ottica personalista del rapporto medico paziente e non più paternalista; una nozione che pone al centro la persona in linea con l’articolo 2 della costituzione e la sua autonomia e libertà (art.13 cost.). L’istituto del consenso informato è attuazione del principio di autodeterminazione , volto a consentire a ciascun individuo di compiere scelte consapevoli in merito alla propria salute, ed il più possibile conformi al proprio stile di vita, alle proprie convinzioni etico-sociali e alla propria cultura. Non a caso, il principio di autodeterminazione trova le sue radici nel secondo comma dell’articolo 32 della costituzione: (che disciplina il diritto alla salute) “ Nessun trattamento sanitario può essere imposto se non per disposizione di legge ”. Nessuna legge può costringere un individuo a sottoporsi a un determinato trattamento sanitario. Salvo nei casi in cui sia previsto un Trattamento Sanitario Obbligatorio, in quanto non esiste un obbligo giuridico di tutelare la propria salute. In tal senso, il consenso informato, disciplinato dalla legge 219 del 2017 (Consenso informato e direttive anticipate di trattamento) è fonte di responsabilità medica, anche penale. Alla base del consenso informato vi è un diritto riconosciuto al paziente: il diritto all'informazione . I medici sono tenuti a fornire una chiara ed esaustiva informazione ai pazienti. Informazione che deve essere adatta ad un malato concreto, con una propria esperienza e cultura. Si deve, in altre parole, instaurare un dialogo aperto e sincero. Un dialogo che permetta al paziente di porre tutte le domande che ritiene necessarie (in merito agli aspetti tecnici, strutturali e alle possibili alternative terapeutiche). Il paziente deve essere in grado di comprendere la natura del trattamento sanitario cui si sottopone, i possibili sviluppi del percorso terapeutico, nonché le eventuali terapie alternative. Da ciò, ne discende, che per un valido consenso la legge prevede determinati requisiti. E’ necessario che esso sia libero , informato , attuale e revocabile in ogni momento. Deve essere espresso nelle forme richieste dalla legge, solitamente in forma scritta. La forma verbale può essere utilizzata solo se esiste un rapporto di fiducia tra medico e paziente. Tuttavia, se si tratta di un esame clinico o di una terapia che può comportare gravi conseguenze per la salute e l’incolumità della persona, è necessaria la forma scritta, come accade ad es. nell’assunzione di un farmaco in via sperimentale. Il consenso solitamente è personale, salvo i casi di minore età o di incapacità . Nel primo caso (salvo il diritto del minore a essere informato e a esprimere anche in relazione all’età i suoi desideri) è espresso dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale, nel secondo (a seconda del tipo di incapacità) dal: tutore , curatore o amministratore di sostegno . Fatto sempre salvo, il diritto della persona incapace a essere informata. Vi sono casi in cui l’obbligo del consenso informato viene meno, come nel caso di necessità ed urgenza, nei casi di TSO o ancora di vaccinazioni obbligatorie (n.d.r solo per queste). Nel caso in cui il consenso non venga prestato vi è il rifiuto al trattamento. Un dissenso informato-consapevole. Pertanto il medico ha obbligo di non eseguire o di interrompere l’esame clinico o la terapia. Violazioni del consenso informato e responsabilità La violazione del consenso è fonte di responsabilità , anche penale dei medici, chiamati a rispondere, per aver estorto o non raccolto il consenso dei propri pazienti. Il medico e gli esercenti le professioni sanitarie per non incorrere in responsabilità devono verificare che vi sia una valida manifestazione del consenso informato da parte dei propri pazienti. Il non corretto adempimento dell’obbligo informativo, anche a fronte di un trattamento sanitario corretto ma non voluto, espone il professionista e la struttura sanitaria a eventuali richieste risarcitorie da parte del paziente, qualora a seguito di un deficit informativo subisca un pregiudizio. Oneri probatori in capo al paziente La legge impone al paziente di provare che se fosse stato in possesso di una compiuta informazione non avrebbe prestato il consenso all’intervento. Onere della prova che può essere assolto con qualsiasi mezzo, anche il notorio. Il paziente, in definitiva può chiedere il risarcimento per: omessa o insufficiente informazione in relazione a un intervento al quale, se debitamente informato, avrebbe scelto di non sottoporsi. In questo caso oltre al risarcimento per eventuali danni alla salute, sarà dovuto anche un risarcimento per la lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente; omessa o insufficiente informazione in relazione a un intervento che ha cagionato un danno alla salute senza alcuna colpa del medico, a cui il paziente, se debitamente informato , non si sarebbe sottoposto. In questo caso il paziente avrà diritto a un risarcimento per la violazione del diritto all’autodeterminazione oltre al risarcimento per il danno alla salute . omessa o incompleta attività diagnostica che, pur non avendo cagionato un danno alla salute del paziente, gli ha precluso l’accesso a più accurati accertamenti e trattamenti. In questo caso, il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione sarà risarcibile qualora il paziente dimostri che dal deficit informativo siano derivate conseguenze pregiudizievoli, sia in termini di sofferenza soggettiva che di diminuzione della propria libertà di scelta. La liquidazione del danno In merito alla liquidazione del danno , l’Osservatorio del Tribunale di Milano ha individuato 4 ipotesi: per un pregiudizio di lieve entità la liquidazione è compresa tra € 1.000 e € 4.000; per un pregiudizio di media entità si può arrivare sino a € 9.000; per un pregiudizio di grave entità si può arrivare a € 20.000; per un pregiudizio di eccezionale entità si va oltre gli € 20.000.

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Nicoletta Genovese
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