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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino, operante nel settore civile, penale ed amministrativo. L'attività di assistenza e consulenza giudiziale e stragiudiziale dello studio è rivolta a privati, imprese ed enti pubblici. L'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in materia legale e collabora con una piattaforma on line quale redattore di articoli sul tema. Lo stesso è inoltre membro di un'associazione per la tutela dei consumatori. Forte appassionato del diritto, l'avvocato mette a disposizione del cliente la sua dedizione giornaliera alla conoscenza e all'approfondimento della materia.
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Collaboro con lo studio nell'esercizio dell'attività legale nelle materie di relativa competenza.
L'articolo tratta gli effetti che la dichiarazione di fallimento determina su quei rapporti giuridici ancora in atto nel momento in cui la stessa sopravviene.
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L'articolo tratta della prescrizione di quella particolare categoria di danni i quali non si rivelano immediatamente a seguito della verificazione dell'evento lesivo.
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Nel corso dell'esperienza lavorativa presso lo studio legale Pogliano ho avuto il piacere di collaborare con un avvocato esperto e preparato, da cui ho appreso molto sul rapporto con il cliente. Lo studio esercita la propria attività prevalentemente a Torino e Vercelli.
L'articolo descrive il c.d. danno non patrimoniale, ovvero quello non consistente in una perdita economica ma nel pregiudizio a valori differenti dal patrimonio.
Il contratto per persona da nominare Ai sensi dell’art. 1401 c.c., nel momento della conclusione del contratto una parte può riservarsi la facoltà di nominare successivamente la persona che deve acquistare i diritti ed assumere gli obblighi nascenti dal contratto stesso. Attraverso il contratto per persona da nominare, dunque, il legislatore consente la sostituzione di un soggetto ad un altro nella titolarità dei diritti e dei doveri derivanti dal negozio. La ratio della norma è sicuramente quella di favorire la circolazione dei beni e, quindi, la produzione della ricchezza, consentendo allo stipulante (colui il quale si riserva la facoltà di nomina) di evitare un duplice trasferimento del diritto e di conseguenza un duplice pagamento dei tributi ad esso relativi. Funzionale ad incentivare la circolazione dei beni, inoltre, è la possibilità per l’acquirente del diritto (terzo nominato) di non apparire quale contraente nelle aste pubbliche. Il contratto per persona da nominare è considerato in dottrina un negozio eventualmente preparatorio; l’avverbio ‘’eventualmente’’ deriva dal fatto che, in mancanza di accettazione da parte del terzo nominato o comunque in caso di invalidità della nomina, il contratto produce effetto nei confronti dei contraenti originari. Come previsto dall’art. 1405 c.c., infatti, se la dichiarazione di nomina non è fatta validamente nel termine stabilito dalla legge o dalle parti, il contratto produce i suoi effetti tra gli originari contraenti. La dichiarazione, in ogni caso, non ha effetto se non è accompagnata dall’accettazione della persona nominata o se non esiste una procura anteriore al contratto (art. 1402, comma 2, c.c.). A differenza del contratto a favore di terzo, quello per persona da nominare non deroga al principio di relatività degli effetti del contratto, in quanto il soggetto nominato assume, per effetto dell’accettazione o comunque di una precedente procura, la posizione di parte del negozio. Secondo la dottrina dominante il contratto per persona da nominare, in entrambe le ipotesi contemplate dalla legge, ossia in presenza o assenza di una specifica procura, costituisce diretta espressione del fenomeno della rappresentanza; in entrambi i casi, infatti, si assiste al fatto di un soggetto che agisce nell’interesse di un altro. Nel caso in cui sussista una procura la differenza deriverebbe, in particolare, solo dal momento nel quale viene posta in essere la contemplato dominii , la quale - nel contratto per persona da nominare - è successiva alla conclusione del negozio e non precedente, come invece avviene nella rappresentanza. Anche l’ipotesi in cui lo stipulante agisce in assenza di uno specifico incarico da parte del terzo nominato, d’altra parte, è - per l’orientamento maggioritario - riconducibile alla rappresentanza e, nello specifico, al fenomeno del falso procuratore. In quest’ottica, l’accettazione da parte del terzo nominato è considerata come una ratifica. Mentre sembra corretta la qualificazione del contatto per persona da nominare in termini di rappresentanza quando lo stesso sia preceduto da una procura, maggiori perplessità desta invece la natura giuridica di tale negozio nel momento in cui esso non costituisca espressione di uno specifico incarico conferito dal nominato. Il contratto concluso dal falso procuratore è infatti, in mancanza di ratifica da parte del soggetto rappresentato, totalmente inefficace, mentre quello per persona da nominare conserva i propri effetti nei confronti dei contraenti originari. Sulla base di tale considerazione, parte della dottrina ritiene che in tale ipotesi il contratto per persona da nominare realizzi, in realtà, una cessione del contratto: lo stipulante, infatti, cede al terzo nominato l’intera posizione contrattuale, comprensiva di diritti e doveri. Anche tale opinione, però, non è scevra da obiezioni: nella cessione del contratto, in particolare, si ha trasferimento di un negozio già completo, mentre nel negozio per persona da nominare si assiste alla cessione di un contratto in fase di formazione, il quale prima dell’accettazione è suscettibile di produrre effetti soltanto provvisori. In secondo luogo, mentre la nomina assegna al nominato la qualifica di parte contrattuale con effetto retroattivo, nella cessione il trasferimento ha effetto solo dal momento della stipula. Ecco perché più corretta sembra essere la qualificazione del contratto per persona da nominare come un istituto che si pone nel mezzo tra la rappresentanza e la cessione del contratto, presentando le caratteristiche di entrambe le fattispecie. La conferma di ciò risiederebbe nella collocazione che l’istituto assume all’interno del codice. Alcuni autori, invece, interpretano il contratto per persona da nominare come un caso di surrogazione legale ex art. 1203 c.c., ossia di sostituzione di un soggetto ad un altro nella titolarità di un dato rapporto giuridico. In realtà, però, le due fattispecie sono differenti: in primo luogo, la surrogazione di cui alla norma menzionata trova il proprio fondamento nella legge, mentre nel contratto per persona da nominare la sostituzione avviene per volontà delle parti contraenti. In secondo luogo, con la surrogazione si ha sostituzione del creditore, mentre nel contratto per persona da nominare la sostituzione attiene anche al lato passivo del rapporto. Inoltre, mentre la surrogazione ha efficacia ex nunc, ossia dal momento in cui avviene, la nomina o l’accettazione del chiamato hanno invece efficacia retroattiva, ossia dal momento in cui è stato stipulato il contratto; infine, nel contratto per persona da nominare non si assiste ad una sostituzione nella titolarità del medesimo rapporto obbligatorio, come invece avviene nella surrogazione. Altra dottrina, poi, riconduce l’istituto in parola al fenomeno delle obbligazioni alternative: qui, però, a differenza di quanto avviene nelle obbligazioni oggettivamente complesse, l’alternatività riguarderebbe non l’oggetto dell’obbligazione, ma i soggetti della stessa. Il promittente, infatti, si impegna ad eseguire la prestazione derivante dal contratto nei confronti della stipulante o, in caso di nomina o comunque di accettazione, a favore del terzo nominato, accettando così la sostituzione del soggetto del rapporto. A tale opinione si obietta, però, che per aversi effettivamente un fenomeno alternativo occorrerebbe che entrambi i soggetti fossero dedotti nel rapporto fin dall’inizio; nel contratto per persona da nominare, invece, l’alternatività può anche mancare quando il terzo da nominare non sia stato ancora individuato al momento della conclusione del relativo negozio. D’altra parte, nelle obbligazioni alternative la scelta tra le prestazioni dedotte in oggetto deve risultare irrilevante per il creditore ed il debitore, nel senso che vi deve essere una sorta di fungibilità oggettiva tra le stesse; qui, al contrario, non è indifferente che gli effetti del negozio ricadano su un soggetto piuttosto che su di un altro, quantomeno dal punto di vista dello stipulante. Una opinione minoritaria in dottrina, ancora, contesta la natura unitaria di tale negozio, ritenendo al contrario che esso sia il frutto di due distinti contratti, uno intercorrente tra stipulante e promittente e l’altro riguardante promittente e terzo nominato. Entrambi condizionati, l’uno risolutamente e l’altro sospensivamente, dalla nomina o comunque dall’accettazione del terzo nominato. Tale opinione non può essere condivisa per una serie di ragioni: in primo luogo, un medesimo evento non può costituire al tempo stesso una condizione risolutiva e una condizione sospensiva; in secondo luogo, la condizione è un elemento accidentale del negozio, mentre è chiaro che la nomina o l’accettazione del chiamato sono invece elementi essenziali per la sussistenza del contratto per persona da nominare. Partendo dal presupposto che il contratto per persona da nominare è un fenomeno riconducibile alla rappresentanza, alcuni autori ritengono sufficiente in capo allo stipulante la capacità di intendere e volere. Tale assunto non può essere condiviso: il contratto per persona da nominare, infatti, è suscettibile di produrre effetti immediati e provvisori nei confronti dello stipulante, il quale acquista il diritto derivante dal contratto in attesa di trasferirlo in capo al terzo attraverso la nomina. Inoltre, come sancito dall’art. 1405 c.c., se la dichiarazione di nomina non è fatta validamente nel termine stabilito dalla legge o dalle parti, il contratto produce i suoi effetti tra i contraenti originari; in questa ipotesi, dunque, l’acquisto dello stipulante diventa definitivo. Per tali ragioni, non si può non convenire per la necessità in capo a quest’ultimo della legale capacità di agire. La dichiarazione di nomina deve, quindi, essere effettuata entro un termine prestabilito dalla parti o dalla legge. A questo punto chi si chiede, in dottrina e giurisprudenza, cosa accada nel caso in cui manchi l’indicazione del termine entro il quale la nomina debba effettivamente avvenire. Secondo la S.C., alla fissazione di tale termine potrebbe provvedervi l’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 1183 c.c.; al contrario, secondo la dottrina in mancanza di tale termine, il contratto dovrebbe produrre effetti in capo allo stipulante. Quanto alla natura giuridica della nomina, alcuni autori ritengono che essa sia un atto giuridico in senso stretto, in quanto gli effetti del contratto discendono dalla stipula e della accettazione, ma non dalla nomina; altri, invece, la considerano come un vero e proprio negozio giuridico. Ciò, ovviamente, influisce sulla capacità necessaria per il suo compimento e sulla disciplina dei vizi del consenso. Secondo l’opinione dominante, la natura giudica della nomina dipende dal rapporto intercorrente tra lo stipulante ed il terzo nominato. Nel caso in cui, infatti, sussista tra gli stessi un rapporto di mandato, con o senza rappresentanza, allora la nomina sarebbe un atto dovuto ed, in particolare, l’adempimento di una obbligazione gravante sullo stipulante per effetto del contratto di mandato concluso con il terzo; in caso contrario, invece, la nomina sarà il frutto di una scelta discrezionale dello stipulante e, dunque, un vero e proprio negozio giuridico. Un problema di particolare rilevanza riguarda l’efficacia del contratto per persona da nominare: ci si domanda, in particolare, se esso sia suscettibile di produrre immediatamente i suoi effetti tra i contraenti originari, ossia fin dal momento della sua conclusione, salvo poi cessare nel momento in cui viene effettuata la nomina, o se invece si abbia sospensione del rapporto fino a quando questa non venga effettuata. La questione si pone in quanto il codice non è chiaro a riguardo: da una parte, infatti, il legislatore afferma che nel caso in cui la nomina non venga validamente effettuata, il contratto produce i suoi effetti tra le parti originarie, dall’altra, precisa che in caso di nomina il terzo nominato si sostituisce allo stipulante dal momento della conclusione del contratto; nulla dice, invece, se prima della nomina il negozio sia effettivamente suscettibile di produrre effetti tra i contraenti originari. La disputa ha sicuramente notevoli effetti pratici: in primo luogo, essa assume rilevanza al fine di stabilire la sussistenza di obblighi a carico dello stipulante e del promittente prima della nomina; in secondo luogo, rileva per individuare il soggetto al quale vadano i frutti della cosa prima della dichiarazione di nomina. La questione, infine, influisce sulla possibilità per le parti originarie di esercitare le azioni che derivano dal contratto, nonché sulla facoltà dei creditori di entrambe di agire sul bene o sul diritto oggetto del negozio. D’altra parte, qualora si ammettesse la capacità del contratto per persona da nominare di produrre effetti immediati, sarebbe ovviamente necessario considerare lo stipulante come il provvisorio titolare del diritto oggetto del negozio e, dunque, sarebbe in sua facoltà utilizzare e disporre dello stesso. Secondo alcuni autori, prima della nomina il negozio non è suscettibile di produrre alcun effetto giuridico: nessuno effetto, infatti, può prodursi in capo al contraente originario, in quanto costui non è destinato a rimanere parte del rapporto; nello stesso tempo, nessun effetto può prodursi in capo al terzo, fino al momento della nomina o della sua accettazione. Di diverso avviso è invece la giurisprudenza di legittimità: secondo la Cassazione, in particolare, il contratto per persona da nominare è suscettibile di produrre effetti giuridici provvisori fin dal momento della sua conclusione, sempreché siano compatibili con la successiva nomina del terzo. Partendo dal presupposto che il contratto produce effetti immediati, l’opinione prevalente ritiene che il diritto che ne costituisce l’oggetto deve essere considerato, fino al momento della nomina, dello stipulante; i creditori del promittente non potranno, dunque, agire sul bene venduto, mentre quelli dello stipulante potranno aggredire tale bene fino a quando non avvenga la nomina o comunque l’accettazione del terzo nominato. Stante l’efficacia provvisoria del contratto per persona da nominare, la trascrizione dovrà essere effettuata a carico del contraente originario, dovendosi inoltre procedere alla trascrizione della riserva di nomina, secondo il meccanismo di cui all’art. 2659 c.c.; la successiva dichiarazione di nomina dovrà poi essere annotata ai sensi dell’art. 2655 c.c. Secondo l’opinione prevalente in dottrina, il contratto per persona da nominare è inammissibile nei contratti c.d. intuitu personae : quando, infatti, la stipulazione del contratto è voluta dal promittente in virtù della qualità e delle condizioni personali dello stipulante, non può poi ammettersi che quest’ultimo sostituisca a sé stesso un altro contraente, il quale potrebbe non essere in possesso della condizioni volute dal promittente. In realtà, però, secondo altri autori dovrebbe ammettersi, nell’ambito dell’autonomia contrattuale riservata alle parti, la possibilità di procedere alla sostituzione del soggetto anche in tali negozi; la fungibilità, infatti, oltre ad essere oggettiva e derivare come tale dalla natura del rapporto, può assumere carattere soggettivo e trovare dunque fondamento nella volontà delle parti. Di conseguenza, deve ammettersi per il promittente la facoltà di accettare la riserva di nomina anche nei negozi intuitu personae , salvo che l’infungibilità non sia imposta dal legislatore, come accade nelle donazioni.
La novazione Ai sensi dell’art. 1230 c.c., l’obbligazione si estingue quando le parti sostituiscono all’obbligazione originaria una nuova obbligazione con oggetto o titolo differenti. La volontà di estinguere l’obbligazione precedente deve risultare in modo non equivoco. La novazione, dunque, è un modo di estinzione delle obbligazioni diverso dall’adempimento. Oltre che attraverso l’esatta esecuzione della prestazione che ne costituisce l’oggetto, infatti, le obbligazioni possono estinguersi secondo diverse modalità, tra le quali rientra appunto la novazione. L’estinzione è qui l’effetto della sostituzione dell’obbligazione originaria con una nuova, diversa negli elementi essenziali. I modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento si distinguono in satisfattori e non satisfattori, a seconda che corrispondano o meno ad un interesse del creditore. Secondo l’opinione dominante la novazione è un modo di estinzione delle obbligazioni diverso dall’adempimento avente carattere non satisfattorio, in quanto non soddisfa l’interesse del creditore all’ottenimento della prestazione, ma determina la sostituzione di questa con una diversa per titolo od oggetto. Al contrario, si dice, nella novazione è soddisfatto l’interesse del creditore ad ottenere la sostituzione dell’obbligazione originaria; è chiaro, infatti, che se questi ha accettato la sostituzione, aveva interesse a che ciò avvenisse. Ne deriva, pertanto, che anche la novazione può considerarsi a tutti gli effetti un modo di estinzione dell’obbligazione avente carattere satisfattorio, in quanto volto a realizzare l’interesse del creditore alla sostituzione dell’obbligazione originaria. Occorre, in primo luogo, distinguere tra novazione e semplice modifica del rapporto originario: nel primo caso, infatti, si assiste all’estinzione di tale rapporto con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di accessori del credito; nel secondo, invece, avviene una mera modifica di questo, che dunque rimane in vita. Si discute in ordine alla natura giuridica della novazione: ci si chiede, in particolare, se essa debba considerarsi come un vero e proprio contratto aventi effetti risolutori, ovvero se, lungi dal poter essere considerata come un negozio giuridico, sia in realtà un effetto contrattuale derivante quale conseguenza automatica delle modifiche essenziali inerenti il rapporto originario. La disputa ha importanti effetti pratici, in quanto influisce sull’interpretazione dei requisiti necessari affinché possa aversi novazione. Secondo la lettera dell’art. 1230 c.c. per aversi novazione occorrono due distinte condizioni, ossia l’ animus novandi e l’ aliquid novi . L’ animus novandi è l’intenzione delle parti di estinguere l’obbligazione originaria e di sostituirla con una nuova, diversa per titolo od oggetto. La volontà di novare non deve necessariamente essere manifestata in maniera espressa, ossia mediante una esplicita dichiarazione, ma deve risultare in modo non equivoco. Sono pertanto sufficienti anche comportamenti concludenti, dai quali desumere con certezza l’intenzione delle parti di estinguere l’obbligazione originaria. La necessità di tale requisito consente di escludere che l’estinzione dell’obbligazione originaria possa avvenire in presenza di una semplice modificazione di questa, anche se riguardante elementi essenziali quali appunto il titolo o la causa. L’ aliquid novi , invece, si identifica con le modifiche essenziali del rapporto obbligatorio: affinché possa averi novazione, infatti, non è sufficiente la volontà della parti di estinguere l’obbligazione originaria, essendo necessario che le stesse abbiano previsto in sua sostituzione una nuova obbligazione, diversa per titolo, inteso come causa dell’obbligazione, od oggetto, ossia come prestazione che identifica l’obbligazione; in questo senso, si distingue tra novazione causale e novazione reale. Ai sensi dell’art. 1231 c.c., infatti, il rilascio di un documento o la sua rinnovazione, l’apposizione o l’eliminazione di un termine e ogni altra modificazione accessoria dell’obbligazione non producono novazione. La necessità di entrambi i requisiti indicati vale ad escludere che possa aversi novazione in presenza della sola volontà delle parti di estinguere l’obbligazione originaria, non accompagnata da modifiche essenziali riguardanti il rapporto originario, ovvero in caso di modificazioni del rapporto originario, anche essenziali, non accompagnate dalla intenzione di novare delle parti. Ciò è confermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale non costituisce novazione oggettiva reale l’impegno del venditore di eliminare i vizi della cosa venduta, in luogo della garanzia concessa dalla legge all’art. 1492 c.c., secondo la quale - in presenza di vizi della cosa - il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo. Tale impegno, in particolare, integra - secondo la S.C. - un riconoscimento di debito e, pertanto, consente solo al debitore di non soggiacere ai termini di prescrizione e di decadenza previsti per l’esercizio delle relative azioni di cui alla norma menzionata. In tale ipotesi, infatti, manca un requisito fondamentale per aversi novazione, ossia la concorde volontà delle parti di estinguere l’obbligazione originaria e, di conseguenza, nonostante la presenza di una modifica essenziale del rapporto obbligatorio, in particolare l’oggetto dell’obbligazione, non può realizzarsi l’effetto novativo per mancanza dell’ animus novand i. In dottrina, tuttavia, non si ravvisano interpretazioni unanimi circa la rilevanza dei suddetti requisiti. Per coloro che ritengono la novazione come un vero e proprio contratto, affinché si abbia estinzione dell’obbligazione originaria per novazione è imprescindibile l’intenzione delle parti manifestata in modo non equivoco, mentre non è essenziale il mutamento del titolo o dell’oggetto dell’obbligazione. Ne consegue, quindi, la facoltà per le stesse di procedere a modifiche solo accessorie del rapporto obbligatorio considerandole come novazione e non come mera modificazione del rapporto originario. In altre parole, in tale ottica l’art. 1231 c.c. non porrebbe il divieto di concludere una novazione avente ad oggetto modifiche accessorie dell’obbligazione, ma varrebbe solo ad escludere, in presenza di tali modifiche, la presunzione di volontà novativa. Viceversa, coloro che sostengono la tesi della novazione come effetto contrattuale affermano che l’estinzione dell’obbligazione originaria deriva automaticamente come conseguenza di modifiche attinenti ad elementi essenziali del rapporto, quali il titolo o l’oggetto dell’obbligazione. Non sarebbe pertanto necessaria la volontà di novare delle parti, in quanto tali modificazioni comportano inevitabilmente l’estinzione dell’obbligazione originaria. Sulla base di tale orientamento, dunque, non sarebbe possibile per le parti accordarsi per determinare l’estinzione dell’obbligazione in presenza di modifiche attinenti ad elementi solo accessori del rapporto obbligatorio. Costituendo un modo di estinzione dell’obbligazione, la novazione implica necessariamente la sussistenza, la validità e l’efficacia dell’obbligazione che ne costituisce l’oggetto. Ai sensi dell’art. 1234, comma 1, c.c., in particolare, la novazione è senza effetto se non esisteva l’obbligazione originaria. L’inesistenza deve essere intesa sia in senso materiale che in senso giuridico, ossia come comprensiva anche dell’eventuale nullità dell’obbligazione. L’espressione ‘’senza effetto’’, in realtà, non sembra corretta, in quanto in tali ipotesi la novazione è radicalmente nulla per mancanza del suo oggetto o comunque della causa, e non semplicemente inefficace. Come previsto dal secondo comma dell’art. 1234 c.c., quando l’obbligazione derivi da un titolo annullabile, la novazione è valida se il debitore ha assunto validamente il nuovo debito conoscendo il vizio del titolo originario. La novazione, d’altra parte, sarebbe valida nel caso in cui il debitore vi abbia acconsentito una volta che sia ormai andata prescritta l’azione di annullamento. Secondo l’opinione prevalente, la manifestazione della volontà di novare nella coscienza del vizio del titolo originario costituisce a tutti gli effetti una sorta di convalida del contratto annullabile: il debitore, infatti, acconsentendo alla sostituzione dell’obbligazione originaria annullabile, manifesta implicitamente l’intenzione di convalidarla. A tale opinione, tuttavia, si obietta che convalida e novazione sono in realtà due fattispecie piuttosto differenti: mentre la convalida, infatti, è volta a sanare il vizio di cui era affetta l’obbligazione originaria mediante una rinuncia all’azione di annullamento, la novazione invece realizza l’effetto sanatorio attraverso l’estinzione di tale obbligazione e la sua conseguente sostituzione con un’altra valida. Posto che il codice nulla dice a riguardo, ci si interroga in ordine alla validità di una novazione avente ad oggetto una obbligazione rescindibile. Qualora si accogliesse la tesi della novazione quale convalida del negozio invalido, allora si dovrebbe convenire per l’impossibilità di procedere alla novazione di un’obbligazione rescindibile, in quanto - per espressa affermazione legislativa - il negozio rescindibile non è suscettibile di essere convalidato. In caso contrario, invece, dovrebbe ammettersi la novazione anche delle obbligazioni rescindibili. Quanto alla risoluzione, occorre distinguere a seconda che essa sia stata o meno già dichiarata: nel primo caso, ovviamente, la novazione sarebbe nulla per mancanza del suo oggetto; nel secondo, invece, dovrebbe ritenersi ammissibile. Non è ammessa la novazione delle obbligazioni naturali: ai sensi dell’art. 2034 c.c., infatti, tali obbligazioni non producono alcun effetto giuridico, salvo quello di escludere la ripetibilità della prestazione in capo a colui il quale l’abbia eseguita spontaneamente. Consentendo la novazione delle obbligazioni naturali, invece, si finirebbe per trasformare l’obbligazione naturale in una obbligazione civile, determinandone così la coercibilità. La novazione, come detto, comporta l’estinzione del rapporto obbligatorio originario, con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di accessori del credito. A seguito della novazione, dunque, si estingueranno le azioni e le eccezioni relative all’obbligazione originaria, i termini di prescrizione e di decadenza, le garanzie, nonché gli interessi e le eventuali penali. Con specifico riguardo alle garanzie, tuttavia, l’art. 1232 c.c. consente il mantenimento dei privilegi, del pegno e delle ipoteche del credito originario quando le parti convengono espressamente di mantenerle per il nuovo credito. Nel caso le garanzie siano prestate da terzi, ovviamente, deve ritenersi che occorra, oltre all’accordo tra creditore e debitore, anche il consenso del garante; pertanto, la mancanza del consenso di quest’ultimo comporterà l’inefficacia dell’accordo di mantenimento raggiunto tra creditori e e debitore. Secondo la dottrina prevalente, d’altra parte, le parti potranno convenire espressamente non solo il mantenimento delle garanzie, ma anche la conservazione delle azioni, delle eccezioni, delle modalità di esecuzione, degli interessi e di tutti gli altri accessori del credito. Se la novazione si effettua tra il creditore ed uno dei debitori in solido con effetto liberatorio per tutti, i privilegi, il pegno e le ipoteche del credito anteriore possono essere riservati soltanto sui beni del debitore che fa la novazione (art. 1233 c.c.). Nulla esclude, tuttavia, che i condebitori liberati consentano al mantenimento delle garanzie. La possibilità di mantenere i privilegi, però, stante la natura degli stessi quali garanzie strettamente connesse alla causa del credito, deve ritenersi esclusa in caso di novazione causale, quando a seguito della modifica della causa dell’obbligazione questa non rientri più tra i crediti ai quali la legge ha accordato il privilegio. Quanto detto vale per la c.d. novazione oggettiva, la quale si contrappone alla novazione c.d. soggettiva. Ai sensi dell’art. 1235 c.c., quando un nuovo debitore si sostituisce a quello originario che viene liberato, si osservano le norme contenute nel capo VI di questo titolo. In primo luogo, dunque, il legislatore sembra escludere qualsiasi effetto novativo conseguente alla sostituzione del creditore, ossia di colui il quale ha diritto a ricevere la prestazione. Si ritiene, infatti, che la sostituzione del creditore non attiene mai ad un elemento essenziale del rapporto obbligatorio, in quanto per il debitore è di norma irrilevante adempiere nelle mani di uno o di un altro soggetto. Ne deriva, pertanto, che la sostituzione del creditore non comporta mai estinzione dell’obbligazione originaria, ma semplice sostituzione nella titolarità attiva del medesimo rapporto obbligatorio; in tale ipotesi, dunque, permarranno tutti gli accessori del credito originario. Come detto, infatti, affinché possa aversi novazione non è sufficiente la volontà delle parti di estinguere l’obbligazione originaria, essendo al contrario necessaria la modifica degli elementi essenziali di questa, tra i quali non rientra la persona del creditore. Con riguardo alla novazione soggettiva passiva, invece, l’art. 1235 c.c. rimanda alle norme dedicate alla delegazione, l’espromissione e l’accollo, con ciò manifestando l’intenzione di considerare tale forma di novazione come una successione nella titolarità passiva del medesimo rapporto obbligatorio. La delegazione, l’espromissione e l’accollo, infatti, non comportano l’estinzione del rapporto obbligatorio originario, ma realizzano semplicemente un fenomeno successorio, ossia la sostituzione del debitore nella titolarità della stessa obbligazione. Nell’ottica del legislatore, quindi, la sostituzione dei soggetti dell’obbligazione non comporta mai l’estinzione dell’obbligazione originaria per novazione, bensì successione di un altro soggetto nella titolarità attiva o passiva del medesimo rapporto obbligatorio. Potrà aversi novazione, invece, solo nel caso in cui la sostituzione del debitore riguardi un rapporto giuridico fondato sull’ intuitu personae : in tale ipotesi, però, ricorrerà a tutti gli effetti una modifica dell’oggetto dell’obbligazione e, quindi, ricorrerà una novazione oggettiva. Tale opinione è tuttavia contraddetta da parte della dottrina, la quale traccia una netta distinzione tra la novazione soggettiva passiva e la successione nella titolarità passiva del medesimo rapporto obbligatorio. La novazione soggettiva passiva, in particolare, si realizzerebbe nel momento in cui alla sostituzione del soggetto tenuto ad effettuare la prestazione corrisponda l’estinzione dell’obbligazione originaria; viceversa, nel caso in cui da tale sostituzione non derivi la suddetta estinzione, si dovrebbe parlare di semplice successione nella titolarità del medesimo rapporto obbligatorio. Tale orientamento si fonda sulla importanza della persona del debitore: per il creditore, infatti, non è irrilevante che l’adempimento della prestazione sia effettuato da un soggetto piuttosto che da una altro, stante la garanzia patrimoniale generica prevista dalla legge all’art. 2740 c.c. in caso di inadempimento. La sostituzione del debitore, dunque, in presenza di una manifestata volontà di novare delle parti dovrebbe comportare l’estinzione del rapporto originario: sussistono, infatti, entrambi i requisiti richiesti dalla legge per l’estinzione per novazione dell’obbligazione originaria, ossia la volontà delle parti e la modifica di un elemento essenziale del rapporto, il debitore. La sostituzione del debitore, quindi, può comportare estinzione dell’obbligazione originaria per novazione quando sussista in tal senso una volontà delle parti, mentre realizzerà semplice successione nel debito nel caso in cui tale volontà manchi. La differenza tra le due vicende è sicuramente rilevante: in caso di novazione si estingueranno con l’obbligazione tutti gli accessori del credito, nonché tutte le azioni e le elezioni ad essa relativi; la successione nel debito, invece, realizzando una successione a titolo particolare nella titolarità passiva del medesimo rapporto obbligatorio, non comporta tale estinzione e, di conseguenza, con l’obbligo di eseguire la prestazione si trasferiranno in capo al nuovo debitore tutte le azioni e le eccezioni relative, nonché gli accessori.
Nozione e natura giuridica La calunnia è un reato sanzionato dall’art. 368 c.p., secondo il quale chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso norme, diretta all’Autorità giudiziaria o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se si incolpa taluno di un reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave. La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo. La calunnia è un reato comune, commissivo, monosoggettivo, istantaneo, plurioffensivo, di mera condotta, di pericolo, aggravato dall’evento, a condotta vincolata e a dolo generico. Come affermato dalla S.C., il delitto di calunnia ha natura plurioffensiva in quanto lede non solo l’interesse primario dello Stato, soggetto passivo principale, alla corretta amministrazione della giustizia, ma anche il diritto all’onore dell’incolpato, che assume la veste di concorrente persona offesa dal reato. A dimostrazione che l’interesse considerato prevalente è quello relativo alla tutela dell’attività giudiziaria, il legislatore ha collocato il delitto di calunnia nell’ambito dei reati contro l’amministrazione della giustizia. L’oggetto giuridico della calunnia è, pertanto, l’interesse ad un corretto funzionamento della giustizia ed, in particolare, l’interesse a non instaurare un processo contro un innocente; nello stesso tempo, un ulteriore oggetto di tutela è rappresentato dalla libertà e dall’onore dell’innocente incolpato. Secondo una dottrina minoritaria, invece, il delitto di calunnia avrebbe in realtà natura di reato monoffensivo, in quanto l’unico interesse tutelato sarebbe ora quello al corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia, ora quello della persona falsamente incolpata. Per la sussistenza del delitto, secondo la giurisprudenza, è sufficiente la possibilità che l’autorità giudiziaria dia inizio al procedimento per accertare il reato incolpato con danno per il normale funzionamento della giustizia, mentre non è necessaria l’effettiva instaurazione del suddetto procedimento. Ai fini dell’integrazione dell’illecito, dunque, è sufficiente che la condotta posta in essere dal reo, ossia la falsa denuncia o la simulazione delle tracce del reato, siano idonee a determinare l’instaurazione di un procedimento penale, non occorrendo invece che questo sia stato effettivamente intrapreso. Il delitto di calunnia è infatti un reato di mero pericolo. A conferma della natura di reato pericolo della calunnia, la S.C. ha escluso la sussistenza del delitto quando la falsa accusa ha ad oggetto fatti per i quali l’esercizio dell’azione penale è paralizzato dal difetto di una condizione di procedibilità, purché tale difetto sia a sua volta evidente ed escluda immediatamente la possibilità di un seguito alla notizia di reato. Il delitto di calunnia è un reato istantaneo, in quanto la sua consumazione si esaurisce con la comunicazione all’autorità giudiziaria di una falsa incolpazione a carico di persona che si sa essere innocente; ne consegue, come chiarito dalla S.C., che la reiterazione di eventuali e successive dichiarazioni di conferma della falsa accusa non può concretare ulteriori violazioni della medesima norma incriminatrice. Trattandosi di reato istantaneo, inoltre, non assumono nessuna influenza le sopravvenute modifiche normative riguardanti la nozione o la procedibilità del reato presupposto. Il reato è di mera condotta, in quanto per la sua integrazione non è richiesta la sussistenza di un evento inteso in senso naturalistico causalmente ricollegato alla condotta. La condotta è sostanzialmente a forma vincolata, in quanto la falsa incolpazione deve avvenire mediante la presentazione di una falsa denuncia, querela o istanza, ovvero attraverso la simulazione delle tracce di un reato. L’elemento soggettivo del delitto di calunnia è il dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di incolpare di un reato taluno sapendolo innocente. La falsa accusa, dunque, può avere ad oggetto un illecito inesistente ovvero commesso da altri. La condotta incriminata L’art. 368 c.p. contempla due diverse forme di calunnia: la calunnia diretta o formale e quella indiretta o materiale. La prima consiste nell’accusare taluno di un reato che non ha commesso, mediante denuncia, querela o istanza; la seconda, invece, consiste nel simulare a carico di taluno le tracce di un reato. In giurisprudenza, si è precisato che il termine ‘’denuncia’’ deve essere inteso in senso ampio ed atecnico, quale informazione scritta od orale, palese o confidenziale, firmata od anonima, rivolta all’autorità competente, senza necessità di rispettare particolari formalità. Il reato si configura così, per espressa affermazione della S.C., anche in presenza di una chiamata in correità effettuata dall’imputato durante l’interrogatorio. Per la sussistenza del reato, in ogni caso, è necessario che il fatto descritto nella denuncia, querela o istanza corrisponda astrattamente ad una ipotesi di reato, delittuosa o contravvenzionale, mentre il delitto è escluso qualora il denunciante abbia, errando, indicato un nomen juris non corrispondente, nella realtà, ad alcuna fattispecie criminosa. Deve quindi escludersi la sussistenza del delitto quando venga denunciato un fatto accaduto realmente ma non riconducibile ad alcuna previsione criminosa, nonostante l’eventuale qualificazione propostane dal denunciante, posto che in tali casi manca una alterazione della realtà suscettibile di determinare l’indebita incolpazione dell’accusato. Per l’integrazione del reato, tuttavia, non è sufficiente che il fatto corrisponda ad una fattispecie oggettiva, occorrendo altresì l’assenza di cause di giustificazione ed il concorso, a seconda delle ipotesi, del dolo e della colpa. Di conseguenza, non sussiste il reato di calunnia quando si comunichi all’autorità giudiziaria che taluno ha ucciso per legittima difesa o in stato di necessità o per caso fortuito. In tal caso, infatti, si informerebbe l’autorità giudiziaria di una fattispecie non costituente reato, dal momento che la prospettata presenza di una scriminante esclude in radice la rilevanza penale del fatto. Al contrario, il reato sussisterebbe nell’ipotesi in cui taluno accusi un altro di un reato tacendone però una causa di giustificazione. Con riguardo, invece, alle cause soggettive di esclusione delle pena inerenti alla persona dell’incolpato, la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nell’escludere il reato di calunnia quando l’incolpato sia un soggetto immune per ragioni politiche, sia non punibile per effetto di una qualità personale, ovvero non imputabile per età o infermità di mente. Di contrario avviso è parte della dottrina, secondo la quale attribuire falsamente un reato ad una persona non imputabile o non punibile per qualità personali deve considerarsi un comportamento altamente riprovevole e, pertanto, non vi è ragione plausibile per non ravvisarsi l’ipotesi di calunnia. Altri autori, ancora, ritengono che il reato di calunnia non sia escluso tutte le volte in cui sia possibile instaurare un procedimento penale perché la causa di non punibilità esige un accertamento processuale. Quanto alle cause estintive del reato, è pacifico che la calunnia sia configurabile quando esse intervengono successivamente alla falsa incolpazione; discussa, invece, è l’ipotesi in cui la causa di estinzione intervenga in un momento precedente. La giurisprudenza si è espressa in senso positivo, sostenendo che l’ipotesi criminosa in esame si realizza anche quando il reato attribuito all’innocente sia già estinto per prescrizione al momento della denuncia. La dottrina risulta invece divisa: secondo alcuni non ogni falsa incolpazione può essere considerata quale evento della calunnia, ma solo quella che sia idonea a determinare la possibilità di procedere contro l’incolpato; pertanto, la sussistenza del reato andrebbe esclusa quando il reato falsamente denunciato sia già estinto al momento della denuncia, in quanto in tal caso la detta possibilità sarebbe esclusa dall’obbligo imposto al giudice di immediata declaratoria di ‘’non doversi procedere’’; per altri autori, invece, il reato dovrebbe comunque sussistere anche in tale ipotesi, posto che l’esigenza di immediata declaratoria di non punibilità non esclude la possibilità che un procedimento penale venga effettivamente instaurato. Con riferimento, infine, alle condizioni di procedibilità, secondo l’orientamento prevalente il reato di cui all’art. 368 c.p. non si configura quando la falsa accusa ha ad oggetto fatti per i quali l’esercizio dell’azione penale è paralizzato dal difetto di una condizione di procedibilità. Come chiarito dalla giurisprudenza, sussiste il reato di calunnia anche quando il fatto, oggetto della falsa incolpazione, sia essenzialmente diverso da quello realmente accaduto, ovvero quando al denunciato sia stato attribuito un reato diverso per titolo e più grave. La calunnia differisce dalla simulazione di reato in quanto implica l’indicazione della persona incolpata. Secondo la giurisprudenza, tuttavia, non è necessario che il nome del soggetto falsamente incolpato risulti espressamente dalla denuncia o querela, essendo sufficiente che questo sia implicitamente ma agevolmente individuabile. L’incolpazione implicita, in particolare, integra il delitto di calunnia quando dal suo tenore e dal contesto delle circostanze in cui viene formulata emerge la volontaria attribuzione di un fatto costituente reato a carico di persona che si sa innocente, che, sebbene non indicata nella sua precisa individuazione, sia peraltro determinabile sulla base degli elementi contenuti nella dichiarazione accusatoria o a questa agevolmente riferibili. In ogni caso, per la sussistenza del reato di calunnia è necessaria l’idoneità della falsa denuncia o della simulazione a determinare l’inizio di un procedimento penale o, comunque, di indagini da parte dell’autorità giudiziaria. Cosicché, il reato di calunnia non è configurabile quando la falsa incolpazione si profili immediatamente con caratteri di assurdità e di inverosimiglianza tali da non richiedere neppure un controllo circa la generica attendibilità della denuncia, a nulla rilevando che siano stati eseguiti accertamenti istruttori per la conferma di inattendibilità delle affermazioni accusatorie. Si deve dunque ritenere che, nonostante l’art. 368 c.p., a differenza dell’art. 367 c.p., non richieda espressamente che a seguito della falsa incolpazione sorga la possibilità di un procedimento penale, la calunnia - essendo un reato di pericolo - si realizza solo quando esiste la possibilità che venga iniziato un procedimento per accertare la sussistenza del reato oggetto dell’incolpazione. Per la sussistenza del reato, quindi, è sufficiente che la condotta dell’agente appaia ex ante astrattamente idonea a provocare l’intervento dell’autorità giudiziaria sul fatto denunciato. Si precisa, dunque, la sussistenza, accanto alle ipotesi di affermazioni icto oculi assurde, di ulteriori casi in cui è consentito all’interprete riscontrare l’assoluta difformità del fatto storico rispetto al tipo normativo descritto dall’art. 368 c.p., ovvero la totale carenza di contenuto offensivo nel comportamento del calunniatore. Con riferimento al fenomeno della novazione legislativa, caratterizzato dalla successiva emanazione di una norma che depenalizzi o qualifichi diversamente il fatto oggetto dell’incolpazione, la giurisprudenza è concorde nel ritenere sussistente il delitto di calunnia. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nell’escludere il reato in esame nell’ipotesi in cui la falsa attribuzione concerna circostanze aggravanti, in quanto in tal caso non viene imputato a taluno un fatto che questi non ha commesso. Sussiste invece il reato in questione quando la circostanza falsamente attribuita determini il mutamento del titolo delittuoso, cioè sia elemento costitutivo di un diverso reato più grave. Per espressa affermazione della giurisprudenza, il delitto di calunnia si può commettere anche riferendo ciò che si è appreso da altri, qualora il denunciante abbia la coscienza che l’incolpato non ha commesso il fatto. Secondo parte della dottrina, d’altra parte, il reato sussisterebbe non solo quando risulta che il soggetto incolpato non ha commesso il fatto attribuitogli, ma anche quando costui lo abbia commesso, ma in circostanze che escludono il carattere di illecito penale di esso, ossia in presenza per esempio di una causa di giustificazione o di esclusione della pena. L’elemento soggettivo del reato Un problema molto dibattuto in tema di calunnia riguarda l’elemento soggettivo ed, in particolare, il grado di consapevolezza circa l’innocenza dell’incolpato richiesto in capo all’agente. In giurisprudenza si ritiene che, ai fini dell’integrazione del dolo del reato di calunnia, è necessario che colui che falsamente accusa una altra persona di un illecito abbia la certezza dell’innocenza dell’incolpato. L’elemento soggettivo di tale reato, dunque, è da ritenersi integrato nel caso in cui sussista una esatta corrispondenza tra momento rappresentativo, inteso quale sicura conoscenza della non colpevolezza dell’accusato, e momento volitivo, inteso quale intenzionalità dell’incolpazione. Per la sussistenza del reato di calunnia è quindi necessaria la dimostrazione che l’imputato abbia acquisito la certezza dell’innocenza dell’incolpato; di conseguenza, dice la S.C., non può essere addebitato tale delitto quando sussistano elementi tali da far sorgere, nell’animo del denunciante, anche soltanto ragionevoli dubbi in ordine alla colpevolezza di colui nei cui confronti la denuncia è diretta. Tale necessità si ricava dal testo dell’art. 368 c.p., il quale usa l’espressione ‘’che taluno sa innocente’’, la quale risulta indicativa della consapevolezza certa dell’innocenza dell’incolpato. Deve ritenersi, dunque, che ai fini dell’integrazione dell’elemento psicologico del delitto di calunnia non assuma alcuna rilevanza il dolo c.d. eventuale. Parte della dottrina, tuttavia, è di contrario avviso, ritenendo che per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di calunnia sia sufficiente anche solo un dubbio in capo all’agente circa l’effettiva colpevolezza dell’accusato. Non esclude l’elemento soggettivo del reato, d’altra parte, il c.d. animus defendendi , ossia l’intenzione dell’agente di difendersi da una accusa a suo carico. Consumazione, tentativo e concorso di reati La consumazione del reato di calunnia si verifica nel momento in cui l’autorità giudiziaria riceve l’informazione calunniosa o nel momento in cui essa viene a conoscenza delle tracce simulate, a seconda che la calunnia sia formale o materiale. Il tentativo è ipotizzabile con riguardo alla sola calunnia materiale, quando l’agente sia sorpreso nell’atto della simulazione o comunque quando questa non sia portata a compimento per fatto indipendente dalla volontà dell’agente, trattandosi di condotta diretta alla commissione del reato di calunnia e connotata dai requisiti della idoneità e della univocità. Come chiarito dalla giurisprudenza, commette più reati di calunnia chi, sia pure mediante un’unica dichiarazione accusatoria, attribuisce ad altra persona, sapendola innocente, una pluralità di reati, in quanto a ciascuna delle false incolpazioni corrisponde uno specifico evento, consistente nel pericolo dell’esercizio dell’azione penale nei confronti di un innocente per ogni reato ad esso falsamente attribuito. In tale ipotesi, dunque, si configura un concorso formale omogeneo, ossia una pluralità di reati di calunnia collegati ad un’unica condotta criminosa. Ugualmente, si configurano tanti distinti reati di calunnia, unificati ai sensi dell’art. 81, comma 1, c.p., in caso di falsa incolpazione di più soggetti innocenti con un’unica denuncia. Deve invece escludersi il concorso di più reati di calunnia in caso di presentazione di successive denunce aventi ad oggetto lo stesso reato e lo stesso incolpato, quando il contenuto dell’atto successivo non sia tale da costituire un apprezzabile novum rispetto all’accusa originaria. D’altra parte, sussiste concorso formale tra il reato di calunnia e quello di false dichiarazioni ad un pubblico ufficiale nella propria identità, ex art. 495, comma 3, n. 2, c.p., qualora il soggetto, nell’ambito di un procedimento penale a suo carico, dichiari all’autorità giudiziaria false generalità corrispondenti a quelle di una persona effettivamente esistente e tale dichiarazione abbia creato il pericolo dello svolgimento di indagini nei confronti di quest’ultima. Secondo la giurisprudenza, la calunnia può concorrere formalmente anche con il delitto di falsa testimonianza: come chiarito dalla S.C., infatti, la calunnia e la falsa testimonianza sono delitti tra loro distinti per diversa obiettività giuridica, essendo la norma che incrimina la prima diretta colpire, ai fini della corretta amministrazione della giustizia, la violazione del dovere di non cigolare di un reato una persona di cui si conosce l’innocenza, mentre la norma che incrimina la seconda è volta, pur nell’ambito dell’identica tutela, a colpire la violazione del dovere incombente al testimone di dire la verità. Ricorre dunque concorso formale tra le due figure qualora nella falsa deposizione testimoniale sia contenuta anche una falsa incolpazione. Le circostanze Essendo la calunnia un reato istantaneo, la spontanea ritrattazione della denuncia non esclude la punibilità del delitto, integrando un post factum irrilevante rispetto all’avvenuto perfezionamento del reato, eventualmente valutabile quale circostanze attenuante ai sensi dell’art. 62, n. 6, c.p., costituendo una sorta di ravvedimento operoso. il riconoscimento dell’attenuante, tuttavia, è subordinato al fatto che la ritrattazione sia avvenuta prima che l’autorità procedente acquisisca la prova della falsità dell’incolpazione. Come sostenuto dalla giurisprudenza, inoltre, al delitto di calunnia non può mai essere applicata l’attenuante di cui all’art. 62, n. 1, c.p., quale che sia stata la finalità perseguita dal reo, posto che l’ordinamento giuridico non può ammettere o riconoscere alcuna positiva valenza alla falsa incolpazione di un innocente. La configurabilità della circostanza aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale non è condizionata dalla partecipazione dell’autore o degli autori del reato ad una associazione terroristica od eversiva, essendo prospettabile una condotta con fini eversivi anche al di fuori di legami di tipo associativo (Cass., S.U., sent. n. 2110 del 1996). L’autocalunnia Ai sensi dell’art. 369 c.p., chiunque, mediante dichiarazione ad alcuna delle Autorità indicate dall’art. 368 c.p., anche se fatta con scritto anonimo o sotto falso nome, ovvero mediante confessione innanzi all’Autorità giudiziaria, incolpa se stesso di un reato che egli sa non avvenuto, o di un reato commesso da altri, è punito con la reclusione da uno a tre anni. Il delitto di cui all’art. 369 c.p., cosi come quello contenuto nell’articolo precedente, si inquadra nel fenomeno della c.d. simulazione soggettiva del reato ed ha come oggetto giuridico l’interesse al normale funzionamento dell’amministrazione della giustizia, avendo entrambe le ipotesi come presupposto la possibilità di un procedimento penale come effetto dell’autoincolpazione o della falsa accusa di un reato a persona che si sa essere innocente. Commette autocalunnia, secondo la giurisprudenza, sia chi incolpa se stesso di un reato che egli sa non avvenuto, sia chi incolpa se stesso di un reato che sia stato effettivamente commesso ma da altri. Come affermato dalla S.C., il delitto di autocalunnia, a differenza di quello di cui all’art. 368 c.p., non è un reato plurioffensivo, poiché lo scopo della incriminazione è solo quello di evitare che sia turbato il regolare funzionamento della giustizia. Non commette pertanto calunnia, ma concorso in autocalunnia colui il quale sostenga le medesime accuse formulate contro se stesso dall’autocalunniatore, il quale, incolpandosi di un reato che non ha commesso o di un reato commesso da altri, rinuncia alla tutela del proprio onore e della propria libertà. Se, però, l’incolpazione del terzo venga formulata indipendentemente da un preventivo accordo con l’incolpato, il quale solo successivamente sia indotto a confermare l’accusa incolpando se stesso, il terzo dovrà rispondere di calunnia; del pari, il terzo, anche nell’ipotesi di preventivo accordo con l’incolpato, risponderà di un distinto reato di calunnia qualora insista nell’accusa nonostante la ritrattazione operata dall’autocalunniatore, poiché in tal caso non è più operante la rinuncia, da parte di quest’ultimo, alla tutela del proprio onore o della propria libertà. Ci si chiede in giurisprudenza se il delitto di autocalunnia possa concorrere con quello di favoreggiamento personale quando il soggetto si autocalunni per scagionare altri: secondo l’opinione prevalente tra i due illeciti non può sussistere nessun concorso, ed in tale ipotesi ricorrerà solo il delitto di autocalunnia in quanto fattispecie speciale rispetto al favoreggiamento personale. La falsa insolazione prevista nell’art. 369 c.p., si dice, può infatti avere ad oggetto anche un reato non avvenuto, mentre il favoreggiamento personale di cui all’art. 378 c.p. dello stesso codice, presuppone sempre che un reato sia stato commesso e consiste in un indistinto aiuto svolto a favore della persona dell’autore. Quando questo aiuto da parte dell’agente si estrinseca nella falsa incolpazione di sé, con dichiarazioni all’autorità giudiziaria o ad altra che a questa abbia l’obbligo di riferire, il fatto trova corrispondenza di previsione in una pluralità di norme giuridiche, ma il concorso di reati è soltanto apparente. Commette così autocalunnia e non favoreggiamento personale chi, pur di giovare al vero autore di un delitto che già è stato commesso, si addebita elementi, sia pure esclusivamente materiali del fatto, che lo espongono alla instaurazione del procedimento penale, ciò in quanto il delitto di autocalunnia è ipotesi specifica rispetto al titolo generico e sussidiario del favoreggiamento personale, che può applicarsi solo quando il fatto che lo costituisce non sia espressamente previsto da altra norme incriminatrice. Secondo altra giurisprudenza, invece, è astrattamente ipotizzabile il concorso tra il delitto di autocalunnia e quello di favoreggiamento personale. Si ritiene pienamente ammissibile, al contrario, il concorso tra i reati di autocalunnia e falsa testimonianza, avendo essi diversa obiettività giuridica, in quanto lesivi di interessi dell’attività giudiziaria di specie diversa.
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Lo studio Mussano occupa una posizione importante nel panorama legale torinese; nel corso dell'esperienza presso il suddetto ho avuto così il piacere di confrontarmi con una realtà lavorativa dinamica e stimolante.
L'intervista è stata effettuata per il programma radiofonico ''live social'' e concerneva le successioni ''mortis causa'', nonché l'evoluzione che ha interessato nel corso degli anni il mestiere dell'avvocato.
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