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Cos'è la sindrome da alienazione parentale?

Scritto da: Riccardo Ventura - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

Quando si configura la c.d. sindrome da alienazione parentale?

La sindrome da alienazione parentale ricomprende tutte quelle condotte poste in essere da un genitore (alienante) per screditare, emarginare e denigrare l'altro genitore (alienato). Tali comportamenti, oltre ad influenzare negativamente il minore, minano la presenza del genitore alienato nella vita del proprio figlio, compromettendo altresì il diritto di quest'ultimo ad una crescita serena e bilanciata. Spesso la genesi di siffatte condotte è da ricercarsi non tanto nel cattivo svolgimento dei doveri connessi alla figura genitoriale quanto ad una punizione diretta al genitore alienato per non essere stato, in pendenza del rapporto affettivo, un buon partner. E' evidente come i sentimenti rancorosi di un genitore nei confronti dell'altro possano causare la lesione del rapporto genitore-figlio. Il termine alienazione genitoriale (c.d. Parental Alienation Syndrome) non integra una nozione di patologia clinicamente accertabile, bensì un insieme di comportamenti posti in essere dal genitore collocatario per emarginare o neutralizzare l'altra figura genitoriale (Tribunale di Milano 11 marzo 2017). La giurisprudenza ha più volte sottolineato l'importanza della tutela alla bigenitorialità del minore anche nei casi in cui il minore si oppone (Trib. Brescia 19 novembre 2018). Proprio la capacità da parte del genitore affidatario di mantenere e preservare il rapporto affettivo del minore con l'altro genitore rappresenta un requisito dell'idoneità genitoriale (Cass. n. 6919/2016). Infatti, nel caso in cui il genitore affidatario ponga in essere condotte alienanti nei confronti dell'altro genitore il Tribunale, potrà, se sussistono risultanze peritali chiare, convergenti e motivate, disporre l'affidamento super-esclusivo in favore del genitore alienato, ovviamente se quest'ultimo dimostri di possedere la sufficiente capacità genitoriale (Corte Appello Venezia 16 dicembre 2019 n. 8607). Del medesimo avviso è la Cassazione secondo cui: “Qualora un genitore denunci comportamenti dell'altro genitore, affidatario o collocatario di un figlio di età minore, rivolti ad allontanare da sé il bambino ed indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle condizioni di affidamento del minore, il giudice è tenuto ad accertare l'effettiva sussistenza di tali comportamenti ed a valutarne la rilevanza per l'equilibrio psichico del minore, al fine di esprimere un corretto ed informato giudizio in materia di adeguatezza genitoriale, indipendentemente dalla qualifica che si intenda attribuire ai comportamenti alienanti” (Cass. n. 21215/2017). Tali approdi giurisprudenziali diretti alla tutela della bigenitorialità postulano l'identica importanza che le due figure genitoriali hanno nel percorso di crescita del minore, soprattutto nel momento di disgregazione della famiglia, con conseguente obbligo del genitore collocatario di favorire il rapporto con l'altro genitore, evitando condotte lesive di tale interazione affettiva. Nemmeno la resistenza del minore manifestata nei confronti del genitore non collocatario risulta sufficiente ad evitare la frequentazione di quest'ultimo, proprio in virtù di quanto sopra affermato circa la tutela della bigenitorialità.

Si ricorda sul punto la recente decisione del Tribunale dei Minori di Perugia in data 2 aprile 2020, a seguito di una CTU disposta in un procedimento introdotto con ricorso del PM ex art. 333 c.c. e segg., per far cessare le condotte poste in essere da entrambi i genitori di una minore, ritenute pregiudizievoli per un suo sano sviluppo, ha così pronunciato: “Il trasferimento temporaneo della bambina (n.d.r.in una struttura protetta), pur rappresentando l'extrema ratio, al Collegio l'intervento più efficace, il cui vantaggio è rappresentato dal fatto che, da un lato permette di interrompere il legame disfunzionale della minore con la madre e, dall'altro, consente alla bambina uno spazio intermedio tra i due genitori”. Secondo il Tribunale Umbro, dalle evidenze emerse in sede di CTU, non vi erano valide alternative al collocamento della minore in una struttura protetta, in quanto la madre collocataria poneva in essere condotte alienanti nei confronti del padre, mentre quest'ultimo durante la consulenza si era sottratto alla stessa impedendo la valutazione delle sue capacità genitoriali. Si ricorda, infine, il provvedimento emesso dal Tribunale dei Minorenni di Roma in data 5 luglio 2019, con il quale, espletata la CTU, riteneva che il “figlio fosse prigioniero di una relazione assolutizzante con la madre, che gli negava ogni rapporto con il padre e gli forniva una comunicazione strutturalmente incongrua e disorganizzante, clinicamente associata ad un funzionamento psicotico, con il serio rischio psicopatologico di sviluppare negativamente la propria personalità e l'identità del proprio sé, con possibile sostituzione della figura paterna e, disposto, l'allontanamento coatto del minore dall'abitazione della madre ed il suo collocamento presso il padre”.


Avv. Riccardo Ventura - Avvocato a Crema e Treviglio

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Riccardo Ventura

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Referenze

Pubblicazione legale

Il socio di s.r.l può essere anche dipendente?

Pubblicato su IUSTLAB

Con riferimento alla possibilità per un medesimo soggetto di rivestire contestualmente la qualifica di socio e quella di dipendente di una s.r.l. si fa presente che tale ipotesi è ammessa dalla giurisprudenza in materia. Per far sì che venga a configurarsi un effettivo rapporto di lavoro subordinato è necessario che tra il datore di lavoro ed il dipendente si instauri un vincolo di subordinazione in forza del quale al primo è attribuito il potere organizzativo e disciplinare caratterizzato dall'emanazione di ordini specifici oltre che dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e di controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative del secondo (Tribunale di Firenze 21 gennaio 2016). In conformità al citato principio deve escludersi la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato in tutti quei casi in cui la figura amministrativa della s.r.l. (ossia il datore di lavoro) coincida con quella del dipendente, per esempio nel caso di una società in cui l’amministratore unico sia anche socio e dipendente della medesima non venendo ad esistenza il vincolo di subordinazione. Diversamente, qualora il socio non rivesta cariche amministrative lo stesso può anche rivestire la qualifica di dipendente essendo sottoposto al potere direttivo dell’amministratore della società. Oltre a queste casistiche per così dire pacifiche è inoltre opportuno ricordare come vi siano alcuni precedenti giurisprudenziali in cui viene ammesso che il socio-dipendente sia anche membro del consiglio di amministrazione purché le attribuzioni amministrative del medesimo siano ben delimitate senza possibilità di interferire nella gestione di quel poter direttivo/disciplinare tipico del datore di lavoro. In altri termini, dovrà essere documentata in concreto la subordinazione del socio-dipendente-amministratore rispetto all’organo amministrativo che sarà per forza di cose collegiale e non unipersonale. Per tali ragioni sarebbe opportuno evitare che il socio-dipendente della s.r.l. rivesta anche la qualifica di amministratore (ipotizziamo membro del C.d.a.) in quanto potrebbe verificarsi un concreto pericolo di accertamento ispettivo da parte della preposta autorità, a meno che non vi siano delle specifiche deleghe limitative dei poteri in modo che la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro siano ricollegabili ad una volontà della società distinta da quella del singolo amministratore. E' inoltre utile esaminare anche le conseguenze di eventuali dimissioni del dipendente/recesso del socio. Infatti, durante la vita della società, un dipendente potrebbe rassegnare le proprie dimissioni oppure essere licenziato per vari motivi. In tali casi, senza la specifica previsione di clausole statutarie, si determinerebbe una situazione paradossale nella quale l’ex dipendente (licenziato o dimesso) abbia ancora la titolarità di una quota di partecipazione nella società e possa comunque accedere a tutte quelle informazioni sociali a cui ogni socio ha diritto ad accedervi, con potenziale danno alla segretezza di informazioni riservate e strategiche per l’attività sociale; oltre al fatto che avrebbe diritto alla quota di utili allo stesso spettanti. Per evitare tale complicata situazione sarebbe opportuno prevedere già nello statuto sociale delle clausole che rendano obbligatoria per il dipendente la dismissione della propria quota di partecipazione, in modo da coordinare sia gli aspetti legati al rapporto di lavoro sia quelli relativi al rapporto sociale. Sul punto si richiama la recente sentenza della Corte d’Appello di Torino del 30 giugno 2021, nella quale è stata esaminata la validità di una clausola di “riscatto” della quota di partecipazione del socio-dipendente nel caso di interruzione del rapporto di lavoro. Tali clausole possono riguardare sia il socio-dipendente sia l’amministratore-dipendente e si possono suddividere in due macro categorie a seconda dell’effettiva causa che sta alla base dell’interruzione del rapporto di lavoro: il c.d. "good-leaver": per il dipendente, il licenziamento giustificato da motivi di carattere oggettivo o ingiustificato, le dimissioni per giusta causa, oltre alla risoluzione consensuale del rapporto, morte o invalidità permanente il cui avverarsi lascia immutato il diritto a conservare le partecipazioni sociali rivenienti dal loro esercizio in capo all'ex-dipendente (o amministratore); e il c.d. "bad-leaver" ("cattivo-partente"): es., con riferimento al dipendente, il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, nonché le dimissioni volontarie il cui accadimento determina la decadenza dei diritti connessi alle partecipazioni sociali. Sarà opportuno prevedere nel testo dello statuto sociale clausole di questo tenore al fine di meglio disciplinare tuttei vari scenari verificabili durante la vita della società.

Sentenza giudiziaria

Revocato il fallimento a ditta individuale

Sentenza del 17 febbraio 2022 - Corte d'Appello di Milano

La Corte d'Appello di Milano ha accolto il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento in quanto non rispettati i requisiti di cui all'art. 1 L.F. In particolare, trattandosi di ditta individuale, non soggetta all'obbligo di tenuta delle scritture contabili obbligatorie, la Corte ha ammesso come prova circa la carenza dei requisiti di cui all'art. 1 L.F. le certificazioni uniche dell'ultimo triennio.

Titolo professionale

Corso aggiornamento sul Superbonus

Istituto di Conciliazione e alta formazione ICAF - 1/2023

Corso di aggiornamento in tema di bonus edilizi con particolare riferimento alle ultime novità legislative.

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