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La delibera assembleare è necessaria per la mediazione obbligatoria in materia condominiale – Cass. n. 10846/2020

Scritto da: Riccardo Ventura - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

Chi intenda esercitare in giudizio un'azione relativa, fra l'altro, ad una controversia in materia condominiale, è tenuto in via preliminare ad esperire il procedimento di mediazione obbligatoria ai sensi del medesimo D.Lgs. n. 28 del 2010.

L'art. 71-quater disp.att. c.c. precisa che le controversie in materia di condominio, ai sensi del citato art. 5 D.Lgs. n. 28 del 2010, si intendono quelle relative alla violazione o dall'errata applicazione degli artt. da 1117 a 1139 c.c. e da 61 a 72 disp.att.c.c. In assenza dell'esperimento del procedimento di mediazione la domanda giudiziale sarà improcedibile.

La sentenza in commento esamina alcuni aspetti giuridici in materia condominiale di grande interesse pratico tra cui la capacità di stare in giudizio dell'amministratore condominiale e la legittimazione a conciliare.

Nel caso in esame il Giudice di Pace di Roma aveva dichiarato improcedibile la domanda proposta dal condominio nei confronti di una condomina morosa di oneri condominiali in quanto l'attore non aveva attivato la procedura di mediazione a causa della omessa adozione da parte dell'assemblea condominiale di apposita delibera. Nel giudizio di gravame instaurato dal condominio attore il Tribunale confermava la decisione del Giudice di Pace rilevando il mancato svolgimento della mediazione di cui al D.Lgs. 28/2010 per esclusiva responsabilità del condominio.

In seguito il condominio presentava ricorso in Cassazione al fine di ottenere la riforma della precedente decisione. La Suprema Corte rigettava il ricorso confermando l'impostazione dettata dal Tribunale di Roma.

In particolare, secondo la Cassazione, il tenore letterale dell'art. 71 quater disp. att. c.c., comma 3, conduce alle medesime conclusioni del Tribunale ossia che il tentativo di mediazione non può essere esperito laddove l'amministratore di condominio intervenga a tale incontro sprovvisto della delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all'art. 1136 c.c. comma 2.

Il fatto che la fattispecie per la quale è stato instaurato il giudizio (recupero spese condominiali) sia ricompresa nelle attribuzioni dell'amministratore ai sensi dell'art. 1130 c.c., e pertanto, il medesimo sia legittimato ad agire in giudizio senza necessità della delibera assembleare (art. 1131 c.c.) non giustifica l'assenza di apposita deliberazione assembleare che lo autorizzi specificatamente ad intervenire al procedimento di mediazione. La ratio di tale tesi è riscontrabile nell'assenza in capo all'amministratore di autonomi poteri di disposizione dei diritti sostanziali connessi alla mediazione stessa, in altri termini il potere di transigere e conciliare non è attribuito ex lege all'amministratore (Cass. n. 8473/2019).

Spetta infatti all'assemblea (e non all'amministratore) il "potere" di approvare una transazione riguardante spese d'interesse comune, ovvero di delegare l'amministratore a conciliare, fissando gli eventuali limiti dell'attività transattiva affidatagli (cfr. Cass. n. 821/2014; Cass. Sez. n. 1994/1980). Parimenti, l'art. 1129 c.c., comma 9 (sempre introdotto dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220) obbliga l'amministratore ad "agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale sia compreso il credito esigibile, a meno che non sia stato espressamente dispensato dall'assemblea", non rientrando, quindi, tra le attribuzioni dell'amministratore il potere di pattuire con i condomini morosi dilazioni di pagamento o accordi transattivi senza apposita autorizzazione dell'assemblea.

La massima della sentenza in esame è la seguente:

“Nelle liti condominiali sottoposte all’obbligo di mediazione (tali essendo quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione delle norme di diritto comune sul condominio negli edifici e quelle promosse per la riscossione dei contributi condominiali), l’amministratore di condominio è tenuto a procurarsi, eventualmente previo differimento dell’incontro di mediazione, la delibera autorizzativa adottata dall’assemblea con il voto di condomini che rappresentino la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del fabbricato. Ove ciò non avvenga, secondo l’ordinanza n. 10846 della Suprema Corte, la mediazione non può essere neppure avviata e le domande giudiziali proposte dal condominio sono improcedibili”.


Avv. Riccardo Ventura - Avvocato a Crema e Treviglio

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Referenze

Pubblicazione legale

Il socio di s.r.l può essere anche dipendente?

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Con riferimento alla possibilità per un medesimo soggetto di rivestire contestualmente la qualifica di socio e quella di dipendente di una s.r.l. si fa presente che tale ipotesi è ammessa dalla giurisprudenza in materia. Per far sì che venga a configurarsi un effettivo rapporto di lavoro subordinato è necessario che tra il datore di lavoro ed il dipendente si instauri un vincolo di subordinazione in forza del quale al primo è attribuito il potere organizzativo e disciplinare caratterizzato dall'emanazione di ordini specifici oltre che dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e di controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative del secondo (Tribunale di Firenze 21 gennaio 2016). In conformità al citato principio deve escludersi la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato in tutti quei casi in cui la figura amministrativa della s.r.l. (ossia il datore di lavoro) coincida con quella del dipendente, per esempio nel caso di una società in cui l’amministratore unico sia anche socio e dipendente della medesima non venendo ad esistenza il vincolo di subordinazione. Diversamente, qualora il socio non rivesta cariche amministrative lo stesso può anche rivestire la qualifica di dipendente essendo sottoposto al potere direttivo dell’amministratore della società. Oltre a queste casistiche per così dire pacifiche è inoltre opportuno ricordare come vi siano alcuni precedenti giurisprudenziali in cui viene ammesso che il socio-dipendente sia anche membro del consiglio di amministrazione purché le attribuzioni amministrative del medesimo siano ben delimitate senza possibilità di interferire nella gestione di quel poter direttivo/disciplinare tipico del datore di lavoro. In altri termini, dovrà essere documentata in concreto la subordinazione del socio-dipendente-amministratore rispetto all’organo amministrativo che sarà per forza di cose collegiale e non unipersonale. Per tali ragioni sarebbe opportuno evitare che il socio-dipendente della s.r.l. rivesta anche la qualifica di amministratore (ipotizziamo membro del C.d.a.) in quanto potrebbe verificarsi un concreto pericolo di accertamento ispettivo da parte della preposta autorità, a meno che non vi siano delle specifiche deleghe limitative dei poteri in modo che la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro siano ricollegabili ad una volontà della società distinta da quella del singolo amministratore. E' inoltre utile esaminare anche le conseguenze di eventuali dimissioni del dipendente/recesso del socio. Infatti, durante la vita della società, un dipendente potrebbe rassegnare le proprie dimissioni oppure essere licenziato per vari motivi. In tali casi, senza la specifica previsione di clausole statutarie, si determinerebbe una situazione paradossale nella quale l’ex dipendente (licenziato o dimesso) abbia ancora la titolarità di una quota di partecipazione nella società e possa comunque accedere a tutte quelle informazioni sociali a cui ogni socio ha diritto ad accedervi, con potenziale danno alla segretezza di informazioni riservate e strategiche per l’attività sociale; oltre al fatto che avrebbe diritto alla quota di utili allo stesso spettanti. Per evitare tale complicata situazione sarebbe opportuno prevedere già nello statuto sociale delle clausole che rendano obbligatoria per il dipendente la dismissione della propria quota di partecipazione, in modo da coordinare sia gli aspetti legati al rapporto di lavoro sia quelli relativi al rapporto sociale. Sul punto si richiama la recente sentenza della Corte d’Appello di Torino del 30 giugno 2021, nella quale è stata esaminata la validità di una clausola di “riscatto” della quota di partecipazione del socio-dipendente nel caso di interruzione del rapporto di lavoro. Tali clausole possono riguardare sia il socio-dipendente sia l’amministratore-dipendente e si possono suddividere in due macro categorie a seconda dell’effettiva causa che sta alla base dell’interruzione del rapporto di lavoro: il c.d. "good-leaver": per il dipendente, il licenziamento giustificato da motivi di carattere oggettivo o ingiustificato, le dimissioni per giusta causa, oltre alla risoluzione consensuale del rapporto, morte o invalidità permanente il cui avverarsi lascia immutato il diritto a conservare le partecipazioni sociali rivenienti dal loro esercizio in capo all'ex-dipendente (o amministratore); e il c.d. "bad-leaver" ("cattivo-partente"): es., con riferimento al dipendente, il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, nonché le dimissioni volontarie il cui accadimento determina la decadenza dei diritti connessi alle partecipazioni sociali. Sarà opportuno prevedere nel testo dello statuto sociale clausole di questo tenore al fine di meglio disciplinare tuttei vari scenari verificabili durante la vita della società.

Sentenza giudiziaria

Revocato il fallimento a ditta individuale

Sentenza del 17 febbraio 2022 - Corte d'Appello di Milano

La Corte d'Appello di Milano ha accolto il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento in quanto non rispettati i requisiti di cui all'art. 1 L.F. In particolare, trattandosi di ditta individuale, non soggetta all'obbligo di tenuta delle scritture contabili obbligatorie, la Corte ha ammesso come prova circa la carenza dei requisiti di cui all'art. 1 L.F. le certificazioni uniche dell'ultimo triennio.

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Corso aggiornamento sul Superbonus

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