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La divisione di un immobile abusivo alla luce della recente giurisprudenza.

Scritto da: Riccardo Ventura - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

Il presente contributo intende esaminare sinteticamente il recente arresto delle Sezioni Unite in materia di scioglimento della comunione ereditaria di immobili abusivi.

La Suprema Corte, oltre a delineare l'ambito di applicazione delle nullità previste dalla normativa urbanistica (L. n. 47/1985 e nel D.P.R. n. 380/2001), prende l'occasione per chiarire alcuni aspetti cruciali circa la natura giuridica della divisione.


Il caso da cui trae origine la pronuncia in esame riguarda la curatela di un soggetto fallito che agiva per chiedere l'assegnazione di una porzione immobiliare di proprietà del medesimo. Il fallito, infatti, in forza di successione legittima era titolare, in comproprietà con i due fratelli, di un fabbricato abitativo. Tale immobile presentava piani sopraelevati costruiti in assenza di concessione edilizia, risultando pertanto abusivi. Poste le difficoltà per la divisione si domandava la vendita del fabbricato con conseguente ripartizione di quanto ricavato. In primo grado, preso atto delle contumacia dei convenuti, il Tribunale rigettava la domanda attorea. La Corte di Appello confermava la decisione di primo grado, richiamandosi altresì alla normativa urbanistica e precisamente agli artt. 17 e 40, L. n. 47/1985 e l'art. 46, D.P.R. n. 380/2001 relativi all'abusivismo edilizio, secondo cui la divisione ereditaria non è ricompresa tra gli atti inter vivos per i quali è prevista la comminatoria della nullità in assenza degli estremi della concessione edilizia o della concessione in sanatoria. Tale decisione è stata oggetto di apposito ricorso in Cassazione.


In tale pronuncia la Suprema Corte, prima di definire il caso sottopostole, affronta in modo esaustivo i dubbi che da tempo avvolgevano l'istituto della divisione ereditaria.


In primo luogo, la Suprema Corte afferma la natura di atto inter vivos della divisione ereditaria. A tale conclusione si giunge osservando che solo grazie alla manifestazione di volontà dei comunisti si addiviene all'effetto tipico del negozio divisorio, diversamente dagli atti mortis causa ove è l'evento morto produttivo degli effetti giuridici. Nel caso di divisione ereditaria l'evento morte rappresenta l'antefatto che origina la situazione di comproprietà, non potendo questa rivestire la qualità di presupposto della divisione. Pertanto, gli atti di scioglimento della comunione sono ricompresi nella casistica degli atti soggetti alla nullità prevista dall'art. 46 D.P.R. n. 380/2001.


In secondo luogo, la Corte si interroga sulla natura della divisione, ovvero se la stessa abbia natura dichiarativa o costitutiva. Nella giurisprudenza consolidata all'atto di divisione veniva attribuita natura dichiarativa anche in considerazione della retroattività degli effetti come previsto dall'art. 757 c.c.. Secondo la Corte, tuttavia, l'orientamento appena citato deve essere abbandonato in favore di un nuovo inquadramento della divisione quale negozio avente natura costitutiva. Infatti, appare sensato accogliere tale impostazione in quanto l'atto divisorio produce un effetto modificativo-sostitutivo della divisione, attribuendo specifiche porzioni ai singoli comunisti e modificando la situazione giuridica originaria della comproprietà con una nuova situazione di proprietà esclusiva. In altri termini, in forza dello scioglimento viene a mutare la consistenza dell'oggetto del diritto di proprietà: prima astratto sull'intera massa da dividere; dopo concreto sulla porzione assegnata. Tale ricostruzione non è del tutto nuova, in quanto già in passato alcuni autori avevano accolto la teoria dell'efficacia costitutiva del negozio in oggetto (Dejana, Concetto e natura giuridica del contratto di divisione, in Riv. Dir. Civ., 1939).

La Corte precisa, altresì, che la divisione oltre ad avere una natura costitutiva presenta una causa distributiva-attributiva (G. Amadio, Funzione distributiva e tecniche di apporzionamento nel negozio divisorio, Contratto di divisione e autonomia privata - Convegno svoltosi a Santa Margherita di Pula, 30/31 maggio 2008, in Quaderni della fondazione italiana del Notariato e-library).


È per effetto della distribuzione delle porzioni che viene modificandosi la situazione in capo al condividente, non più comproprietario assieme agli altri comunisti, bensì proprietario esclusivo della porzione. Appaiono evidenti anche i due momenti intrinsecamente collegati di cui consta il fenomeno divisorio: la rinuncia al diritto pro quota e l'acquisto del diritto esclusivo sulla porzione.

È vero che, talvolta, la divisione opera come una mera specificazione concreta della quota astratta, ma non per questo una modifica sostanziale della situazione soggettiva giuridica del comunista non vi è stata. La natura costitutiva, infatti, risiede in tutti quegli atti che innovano, anche solo con modifiche, la realtà giuridica.

A tale costitutività la Corte di cassazione ha ritenuto di affiancare una traslatività dell'atto divisorio.

Sembra ragionevole ritenere, però, che la divisione con efficacia costitutiva non presenti sempre effetti traslativi.

Di fatto, in caso di divisione, solo talvolta si configurano reciproche alienazioni tra condividenti. Si potrà parlare tuttalpiù di divisione costitutiva-traslativa quando la divisione preveda conguagli. Il conguaglio, in effetti, si cala nella dimensione dello scambio, del trasferimento: in caso di difficoltà nella divisione, chi dei condividenti abbia ricevuto una porzione di valore maggiore rispetto alla sua quota è tenuto a versare un conguaglio a titolo di corrispettivo nei confronti del coerede che abbia invece ricevuto una porzione con valore inferiore alla sua quota. Solo in quest'ultimo caso, sembra opportuno qualificare la causa della divisione come anche traslativa, non solo attributiva-distributiva.


Chiariti questi principi di primaria importanza relativi alla natura giuridica della divisione le Sezioni Unite si sono soffermate su due ipotesi più frequenti, ovvero la divisione parziale e la divisione “endoesecutiva” o “endoconcorsuale”

In merito alla prima tipologia di divisione il nostro ordinamento sembrerebbe rifiutare una divisione parziale, posto che la divisione ereditaria deve comprendere tutti i beni facenti parte dell'asse ereditario. Si ricorda, tuttavia, che la giurisprudenza ammette una divisione parziale in virtù di un accordo unanime dei condividenti e definitivo, ossia senza la necessità di successive operazioni di apporzionamento (Cass., 14 novembre 1977, n 4924); la stessa giurisprudenza si è spinta oltre ammettendo anche una divisione parziale in assenza di accordo dei condividenti purché non vi fosse alcuna opposizione giudiziale a tale negozio (Cass., Sez. II, n. 6931 del 8 aprile 2016; Cass., Sez. II, n. 5869 del 24 marzo 2016; Cass., Sez. II, n. 573 del 12 gennaio 2011).

Si consideri, inoltre, che lo stesso codice civile in caso di omessa indicazione di uno o più beni (art. 762 c.c.) non si configura un'ipotesi di nullità della divisione ma si rende necessario procedere all'integrazione del cespite mancante, accogliendo implicitamente la piena validità di una divisione parziale.

Le Sezioni Unite, in definitiva, hanno ritenuto ammissibile una divisione parziale dell'asse ereditario con esclusione del fabbricato abusivo quando vi sia la volontà concorde di tutti i coeredi, rendendo tale atto conforme all'art. 46 D.P.R. n. 380/2001 e all'art. 40, comma II, L. 47/1985, impedendo al singolo coerede di opporsi alla domanda di divisione giudiziale parziale proposta da altro coerede con esclusione dell'immobile abusivo.

Con riferimento alla c.d. divisione “endoesecuvita” o “endoconcorsuale” la Suprema Corte si è soffermata sull'applicabilità o meno dell'art. 46, comme 5, D.P.R. n. 380/2001 e dell'art. 40, comma 5 e 6, L. 47/1985 i quali prevedono l'esclusione della nullità per gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari relative ad immobili abusivi. La ratio di tale norma è individuabile nella volontà del Legislatore di velocizzare la procedura esecutiva diretta al ristoro dei creditore, senza che l'abusivismo di un immobile possa minare la detta procedura.

Orbene, le Sezioni Unite stabiliscono che la divisione di un edificio abusivo che si renda necessaria nell'ambito dell'espropriazione di beni indivisi (divisione c.d. "endoesecutiva") o nell'ambito delle procedure concorsuali (divisione c.d. "endoconcorsuale") sia sottratta alla comminatoria di nullità prevista per gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi in forza delle norma sopra citate.

La Corte evidenzia il rapporto di strumentalità che lega il giudizio di divisione endoesecutivo rispetto al procedimento espropriativo e a sostengo della propria affermazione richiama l'art. 600 c.p.c. alla luce del quale il giudizio di divisione si qualifica come “sviluppo normale di ogni procedura di espropriazione di beni indivisi”.

In fatti, in caso di assenza di richiesta di separazione in natura della quota da parte del creditore pignorante o in caso di impossibilità materiale della separazione, la divisione rappresenta la via ordinaria per procedere alla separazione.


In conclusione, la Suprema Corte ammette la comminatoria di nullità degli atti inter vivos che abbiano ad oggetto edifici abusivi, avente la stessa natura sanzionatoria nei confronti del proprietario di essi (o dei suoi eredi), impedendo agli stessi di disporre dei diritti reali relativi a tali immobili in costanza dell'abusivismo, mentre non prevede la sanzione della nullità rispetto agli atti strumentali all'espropriazione forzata attivata nei confronti del proprietario del fabbricato abusivo. In altri termini, è differente il requisito soggettivo: non si tratta di atti posti in essere ad iniziativa del proprietario dell'immobile abusivo, ma di atti posti in essere in suo danno, ad iniziativa e a vantaggio dei suoi creditori.


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Il socio di s.r.l può essere anche dipendente?

Pubblicato su IUSTLAB

Con riferimento alla possibilità per un medesimo soggetto di rivestire contestualmente la qualifica di socio e quella di dipendente di una s.r.l. si fa presente che tale ipotesi è ammessa dalla giurisprudenza in materia. Per far sì che venga a configurarsi un effettivo rapporto di lavoro subordinato è necessario che tra il datore di lavoro ed il dipendente si instauri un vincolo di subordinazione in forza del quale al primo è attribuito il potere organizzativo e disciplinare caratterizzato dall'emanazione di ordini specifici oltre che dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e di controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative del secondo (Tribunale di Firenze 21 gennaio 2016). In conformità al citato principio deve escludersi la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato in tutti quei casi in cui la figura amministrativa della s.r.l. (ossia il datore di lavoro) coincida con quella del dipendente, per esempio nel caso di una società in cui l’amministratore unico sia anche socio e dipendente della medesima non venendo ad esistenza il vincolo di subordinazione. Diversamente, qualora il socio non rivesta cariche amministrative lo stesso può anche rivestire la qualifica di dipendente essendo sottoposto al potere direttivo dell’amministratore della società. Oltre a queste casistiche per così dire pacifiche è inoltre opportuno ricordare come vi siano alcuni precedenti giurisprudenziali in cui viene ammesso che il socio-dipendente sia anche membro del consiglio di amministrazione purché le attribuzioni amministrative del medesimo siano ben delimitate senza possibilità di interferire nella gestione di quel poter direttivo/disciplinare tipico del datore di lavoro. In altri termini, dovrà essere documentata in concreto la subordinazione del socio-dipendente-amministratore rispetto all’organo amministrativo che sarà per forza di cose collegiale e non unipersonale. Per tali ragioni sarebbe opportuno evitare che il socio-dipendente della s.r.l. rivesta anche la qualifica di amministratore (ipotizziamo membro del C.d.a.) in quanto potrebbe verificarsi un concreto pericolo di accertamento ispettivo da parte della preposta autorità, a meno che non vi siano delle specifiche deleghe limitative dei poteri in modo che la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro siano ricollegabili ad una volontà della società distinta da quella del singolo amministratore. E' inoltre utile esaminare anche le conseguenze di eventuali dimissioni del dipendente/recesso del socio. Infatti, durante la vita della società, un dipendente potrebbe rassegnare le proprie dimissioni oppure essere licenziato per vari motivi. In tali casi, senza la specifica previsione di clausole statutarie, si determinerebbe una situazione paradossale nella quale l’ex dipendente (licenziato o dimesso) abbia ancora la titolarità di una quota di partecipazione nella società e possa comunque accedere a tutte quelle informazioni sociali a cui ogni socio ha diritto ad accedervi, con potenziale danno alla segretezza di informazioni riservate e strategiche per l’attività sociale; oltre al fatto che avrebbe diritto alla quota di utili allo stesso spettanti. Per evitare tale complicata situazione sarebbe opportuno prevedere già nello statuto sociale delle clausole che rendano obbligatoria per il dipendente la dismissione della propria quota di partecipazione, in modo da coordinare sia gli aspetti legati al rapporto di lavoro sia quelli relativi al rapporto sociale. Sul punto si richiama la recente sentenza della Corte d’Appello di Torino del 30 giugno 2021, nella quale è stata esaminata la validità di una clausola di “riscatto” della quota di partecipazione del socio-dipendente nel caso di interruzione del rapporto di lavoro. Tali clausole possono riguardare sia il socio-dipendente sia l’amministratore-dipendente e si possono suddividere in due macro categorie a seconda dell’effettiva causa che sta alla base dell’interruzione del rapporto di lavoro: il c.d. "good-leaver": per il dipendente, il licenziamento giustificato da motivi di carattere oggettivo o ingiustificato, le dimissioni per giusta causa, oltre alla risoluzione consensuale del rapporto, morte o invalidità permanente il cui avverarsi lascia immutato il diritto a conservare le partecipazioni sociali rivenienti dal loro esercizio in capo all'ex-dipendente (o amministratore); e il c.d. "bad-leaver" ("cattivo-partente"): es., con riferimento al dipendente, il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, nonché le dimissioni volontarie il cui accadimento determina la decadenza dei diritti connessi alle partecipazioni sociali. Sarà opportuno prevedere nel testo dello statuto sociale clausole di questo tenore al fine di meglio disciplinare tuttei vari scenari verificabili durante la vita della società.

Sentenza giudiziaria

Revocato il fallimento a ditta individuale

Sentenza del 17 febbraio 2022 - Corte d'Appello di Milano

La Corte d'Appello di Milano ha accolto il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento in quanto non rispettati i requisiti di cui all'art. 1 L.F. In particolare, trattandosi di ditta individuale, non soggetta all'obbligo di tenuta delle scritture contabili obbligatorie, la Corte ha ammesso come prova circa la carenza dei requisiti di cui all'art. 1 L.F. le certificazioni uniche dell'ultimo triennio.

Pubblicazione legale

Patto di stabilità e patto di non concorrenza

Pubblicato su IUSTLAB

Patto di stabilità e patto di non concorrenza. Molto spesso il datore di lavoro ha la necessità di stipulare, con i propri dipendenti, accordi in forza dei quali tutelare sia la fase iniziale del rapporto di lavoro (formativa) sia quella finale successiva all’interruzione del rapporto di lavoro. In particolare, gli strumenti giuridici a disposizione del datore di lavoro possono essere individuati nel patto di stabilità e nel patto di non concorrenza. Di seguito verranno illustrate gli aspetti salienti dei detti negozi giuridici. 1) DEFINIZIONE DEL PATTO DI STABILITA’ Il patto di stabilità consiste in una clausola di durata minima del rapporto di lavoro che limita, per un periodo prefissato, la possibilità di una o di entrambe le parti di recedere dal contratto di lavoro, a meno che non si verifichi una giusta causa di recesso o di impossibilità sopravvenuta della prestazione. Viene sostanzialmente limitato con tale patto la facoltà di recedere unilateralmente dal rapporto di lavoro prima dello scadere di un determinato tempo. In passato vi erano perplessità circa la previsione di una tale clausola in favore del solo datore di lavoro, ma successivamente anche la giurisprudenza di legittimità ha rilevato che " non contrasta con alcuna norma o principio dell'ordinamento giuridico il pactum de non recedendo con cui il lavoratore, disponendo della propria facoltà di recesso, si vincola unilateralmente a non dimettersi dal rapporto di lavoro prima dello scadere del termine di durata minima convenuto tra le parti. È ammissibile la clausola con cui, in caso di dimissioni anticipate, si stabilisce a carico del lavoratore l'obbligo del risarcimento del danno, anche con le modalità della penale ex art. 1382 c.c. " ( Cass., 7 settembre 2005, n. 17817 ). Condizioni e limiti del patto di stabilità Il patto di stabilità può essere previsto sia nel momento iniziale del rapporto di lavoro (in questo caso viene anche definito come “clausola di durata minima garantita”) sia in costanza dello stesso. Può essere posto: - a carico del solo datore di lavoro (che si impegna a non licenziare il dipendente che chiede il patto per tutelarsi per un periodo minimo); - a carico del solo lavoratore (che si impegna a non dimettersi, di regola a fronte del pagamento di un corrispettivo, per garantire al datore di lavoro un minimo di stabilità); - per entrambe le parti. Si precisa, tuttavia, che in caso di patto di stabilità in favore del solo datore di lavoro al lavoratore deve essere riconosciuto un corrispettivo proporzionato al sacrificio richiesto, consistente anche in particolari investimenti economici e/o formativi della risorsa. E’ possibile, infatti, prevedere un obbligo contrattuale per il lavoratore di rimborsare il datore di lavoro dei costi della formazione sostenuta in caso di recesso anticipato del dipendente. Sul punto si segnala la recente sentenza del Tribunale di Velletri (n. 305 del 21 febbraio 2017) con la quale è stata confermata la legittimità del patto in questione quando da parte del datore di lavoro sia stato sostenuto un reale costo finalizzato alla formazione del lavoratore e che quindi sia interessato “ a poter beneficiare per un periodo di tempo minimo ritenuto congruo, del bagaglio di conoscenze acquisiti dal lavoratore ”. Durata In assenza di riferimenti normativi sul punto la dottrina ha sostenuto, per analogia con il contratto a termine, che il la limitazione temporale massima dovrebbe essere di tre anni, ad oggi attualizzato ai 24 mesi di durata massima del contratto a tempo determinato prevista dalla legge (art. 19, D.Lgs. n. 81/2015). Strumenti di tutela del datore di lavoro in caso di violazione del patto Al fine di tutelare l’investimento economico del datore di lavoro è consigliabile prevedere nel citato patto una clausola penale che possa predeterminare l’importo che il lavoratore dovrà corrispondere al datore di lavoro in caso di dimissioni ante tempo. La penale, si ricorda può essere equamente diminuita dal Giudice ai sensi dell’art.1384 c.c. i) se l’obbligazione principale è stata in parte eseguita; ii) se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo avuto riguardo all’interesse del datore di lavoro. Da ultimo si segnala che è ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza (Cass. n. 21646 del 26 ottobre 2017; Tribunale di Udine, sez. lav., n. 38 del 21 febbraio 2022) anche la compensazione con il TFR dei crediti del datore di lavoro tra i quali può essere inclusa detta penale. 2) DEFINIZIONE DEL PATTO DI NON CONCORRENZA Il patto di non concorrenza, disciplinato dall'art. 2125 c.c., è un contratto a prestazioni corrispettive ed a titolo oneroso in forza del quale il lavoratore, dietro pagamento di un corrispettivo da parte del datore di lavoro, si impegna a non svolgere attività concorrenziale per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. La finalità del patto consiste nell'interesse dell'imprenditore di tutelare il proprio know-how aziendale ed evitare che l'ex lavoratore possa mettere a disposizione di aziende concorrenti quanto appreso durante la precedente attività lavorativa cessata. In conformità della citata normativa codicistica il patto di non concorrenza deve, a pena di nullità: - risultare da atto scritto; - essere contenuto entro predeterminati limiti di oggetto, luogo e tempo; - prevedere un corrispettivo congruo. Forma e durata Con riferimento alla forma ed alla durata del patto non sussistono particolari problemi in quanto sono espressamente disciplinati dall'art. 2125 c.c.. Lo stesso patto può essere previsto direttamente nel contratto di lavoro, al momento dell'assunzione, oppure può essere stipulato con un documento separato in un momento successivo. La forma scritta è richiesta ad substantiam , pena la nullità. La durata del patto, invece, non deve essere superiore ad anni tre per il personale dipendente ed anni cinque per dirigenti. Oggetto In merito all'oggetto, invece, sebbene il dato letterale dell'art. 2125 c.c. sembrerebbe consentire la limitazione di qualunque attività esercitata dall'ex dipendente dopo la cessazione del rapporto, un'interpretazione tanto estensiva comporterebbe per lo stesso l'impossibilità di svolgere qualsivoglia attività lavorativa in violazione del principio generale secondo cui al lavoratore deve essere comunque consentito di esplicare la propria professionalità ed assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita, anche dopo la cessazione del precedente rapporto di lavoro (Cass., 4 aprile 2006, n. 7835; Trib. di Modena 23 maggio 2019; Cass. 4 agosto 2021, n. 22247; Cass. 25 agosto 2021, n. 23418). La giurisprudenza ha così affermato la nullità del patto qualora il limite all'utilizzo della professionalità del lavoratore sia compressa al punto tale da privarlo di qualunque potenzialità reddituale. La Suprema Corte ha poi precisato che " il patto di non concorrenza, previsto dall'art. 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso è, però, nullo allorché la sua ampiezza è tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale " (Cass., 10 settembre 2003, n. 13282; App. Milano, 17 marzo 2006; Trib. Ravenna, 24 marzo 2005; Trib. Milano, 31 luglio 2003; Trib. Milano, 4 marzo 2009). Territorio Ulteriore elemento che deve essere specificamente individuato nel patto di non concorrenza è la limitazione geografica, pena la nullità. Sono pacificamente ritenuti legittimi patti estesi non solo all'Italia, ma anche all'intero territorio europeo anche se la congruità del limite territoriale andrà comunque valutata di volta in volta, insieme all'oggetto, tenendo conto del fatto che tanto più è ampio l'oggetto del patto, tanto più sarebbe opportuno delimitare l'operatività solo ad alcune zone, o, quantomeno, prevedere un compenso più elevato, per proporzionarlo al maggior sacrificio del lavoratore. In altri termini deve essere trovato sempre un bilanciamento tra il corrispettivo del lavoratore e le limitazioni imposte allo stesso. Unico limite all'estensione del patto de quo è, tuttavia, come detto, quello di consentire, al lavoratore di svolgere un'attività coerente con la propria esperienza e la propria professionalità. La congruità del corrispettivo Il sacrificio richiesto al lavoratore in caso di cessazione del rapporto di lavoro deve essere remunerato da un corrispettivo che dovrà essere congruo in relazione alla retribuzione del dipendente, alla sua professionalità ed al suo inquadramento, alle sue mansioni e più in generale ai vincoli di oggetto, territorio e durata contenuti nel patto di non concorrenza. Sul quantum e sul quomodo del versamento del corrispettivo il Legislatore ha lasciato alle parti ampia autonomia contrattuale: in ogni caso il corrispettivo non può consistere in compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno (Cass. n. 23418/2021; Cass. n. 9790/2020). La modalità del pagamento In assenza di precise previsioni normative sul punto, il corrispettivo del patto di non concorrenza viene talvolta pagato mediante: - corresponsione periodica; - in misura fissa; - durante il rapporto di lavoro; o - con corresponsione dell'importo pattuito in una o più soluzioni dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Strumenti di tutela del datore di lavoro in caso di violazione del patto In merito a gli strumenti di tutela per il datore di lavoro, contro il proprio ex dipendente che violi il patto di non concorrenza regolarmente stipulato e retribuito, si rileva quanto segue: a) disinteresse del datore di lavoro all'adempimento del patto. Il datore di lavoro dovrà valutare la situazione e, qualora ritenesse di non essere più interessato ad ottenere l'adempimento del patto di non concorrenza, potrà risolvere il patto stesso per inadempimento dell'altra parte contraente e chiedere la restituzione del corrispettivo pagato, oltre al risarcimento dei danni provocati dall'attività svolta dall'ex dipendente (in tal caso nel contratto può essere anche stabilita un'apposita penale diretta a predeterminare l'ammontare dei danni). b) interesse del datore di lavoro all'adempimento del patto. In alternativa, qualora vi fosse un concreto e vivo interesse al rispetto del patto, il datore di lavoro potrebbe chiedere l'adempimento del detto patto, anche con una procedura di urgenza ex art. 700 c.p.c., al fine di ottenere dal giudice un'inibitoria che vieti al lavoratore di continuare a svolgere l'attività concorrenziale (potendo poi il datore chiedere nel giudizio ordinario il ristoro dei danni patiti). Nel caso venga provata la violazione del patto di non concorrenza il giudice concedere la tutela inibitoria e ordinare al lavoratore di cessare la condotta illecita, eventualmente anche ordinando di porre fine al rapporto di lavoro in essere.

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