Pubblicazione legale:
Patto di stabilità e patto
di non concorrenza.
Molto spesso il datore di lavoro ha la necessità di stipulare, con i propri dipendenti, accordi in forza dei quali tutelare sia la fase iniziale del rapporto di lavoro (formativa) sia quella finale successiva all’interruzione del rapporto di lavoro. In particolare, gli strumenti giuridici a disposizione del datore di lavoro possono essere individuati nel patto di stabilità e nel patto di non concorrenza. Di seguito verranno illustrate gli aspetti salienti dei detti negozi giuridici.
1) DEFINIZIONE DEL PATTO DI
STABILITA’
Il patto di stabilità
consiste in una clausola di durata minima del rapporto di lavoro che limita,
per un periodo prefissato, la possibilità di una o di entrambe le parti di
recedere dal contratto di lavoro, a meno che non si verifichi una giusta causa
di recesso o di impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Viene sostanzialmente
limitato con tale patto la facoltà di recedere unilateralmente dal rapporto di
lavoro prima dello scadere di un determinato tempo.
In passato vi erano
perplessità circa la previsione di una tale clausola in favore del solo datore
di lavoro, ma successivamente anche la giurisprudenza di legittimità ha
rilevato che "non contrasta con alcuna norma o principio
dell'ordinamento giuridico il pactum de non recedendo con cui il lavoratore,
disponendo della propria facoltà di recesso, si vincola unilateralmente a non
dimettersi dal rapporto di lavoro prima dello scadere del termine di durata
minima convenuto tra le parti. È ammissibile la clausola con cui, in caso di dimissioni
anticipate, si stabilisce a carico del lavoratore l'obbligo del risarcimento
del danno, anche con le modalità della penale ex art. 1382 c.c." (Cass.,
7 settembre 2005, n. 17817).
Condizioni e limiti del
patto di stabilità
Il patto di stabilità può
essere previsto sia nel momento iniziale del rapporto di lavoro (in questo caso
viene anche definito come “clausola di durata minima garantita”) sia in
costanza dello stesso. Può essere posto:
- a carico del solo datore di lavoro (che si impegna a non licenziare il
dipendente che chiede il patto per tutelarsi per un periodo minimo);
- a carico del solo lavoratore (che si impegna a non dimettersi, di
regola a fronte del pagamento di un corrispettivo, per garantire al datore di
lavoro un minimo di stabilità);
- per entrambe le parti.
Si precisa, tuttavia, che in caso di patto di stabilità in favore del
solo datore di lavoro al lavoratore deve essere riconosciuto un corrispettivo
proporzionato al sacrificio richiesto, consistente anche in particolari
investimenti economici e/o formativi della risorsa. E’ possibile, infatti,
prevedere un obbligo contrattuale per il lavoratore di rimborsare il datore di
lavoro dei costi della formazione sostenuta in caso di recesso anticipato del
dipendente.
Sul punto si segnala la recente sentenza del Tribunale di Velletri (n.
305 del 21 febbraio 2017) con la quale è stata confermata la legittimità del
patto in questione quando da parte del datore di lavoro sia stato sostenuto un
reale costo finalizzato alla formazione del lavoratore e che quindi sia
interessato “a poter beneficiare per un periodo di tempo minimo ritenuto
congruo, del bagaglio di conoscenze acquisiti dal lavoratore”.
Durata
In assenza di riferimenti normativi sul punto la dottrina ha sostenuto,
per analogia con il contratto a termine, che il la limitazione temporale
massima dovrebbe essere di tre anni, ad oggi attualizzato ai 24 mesi di durata
massima del contratto a tempo determinato prevista dalla legge (art. 19, D.Lgs.
n. 81/2015).
Strumenti di tutela del
datore di lavoro in caso di violazione del patto
Al fine di tutelare l’investimento economico del datore di lavoro è
consigliabile prevedere nel citato patto una clausola penale che possa
predeterminare l’importo che il lavoratore dovrà corrispondere al datore di
lavoro in caso di dimissioni ante tempo. La penale, si ricorda può essere
equamente diminuita dal Giudice ai sensi dell’art.1384 c.c. i) se
l’obbligazione principale è stata in parte eseguita; ii) se l’ammontare della
penale è manifestamente eccessivo avuto riguardo all’interesse del datore di
lavoro.
Da ultimo si segnala che è ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza
(Cass. n. 21646 del 26 ottobre 2017; Tribunale di Udine, sez. lav., n. 38 del
21 febbraio 2022) anche la compensazione con il TFR dei crediti del datore di
lavoro tra i quali può essere inclusa detta penale.
2) DEFINIZIONE DEL PATTO
DI NON CONCORRENZA
Il patto di non
concorrenza, disciplinato dall'art. 2125 c.c., è un contratto a prestazioni
corrispettive ed a titolo oneroso in forza del quale il lavoratore, dietro
pagamento di un corrispettivo da parte del datore di lavoro, si impegna a non
svolgere attività concorrenziale per il tempo successivo alla cessazione del
rapporto di lavoro. La finalità del patto consiste nell'interesse
dell'imprenditore di tutelare il proprio know-how aziendale ed evitare che l'ex
lavoratore possa mettere a disposizione di aziende concorrenti quanto appreso
durante la precedente attività lavorativa cessata.
In conformità della citata
normativa codicistica il patto di non concorrenza deve, a pena di nullità:
- risultare da atto
scritto;
- essere contenuto entro
predeterminati limiti di oggetto, luogo e tempo;
- prevedere un
corrispettivo congruo.
Forma e durata
Con riferimento alla forma
ed alla durata del patto non sussistono particolari problemi in quanto sono
espressamente disciplinati dall'art. 2125 c.c.. Lo stesso patto può essere
previsto direttamente nel contratto di lavoro, al momento dell'assunzione,
oppure può essere stipulato con un documento separato in un momento successivo.
La forma scritta è richiesta ad substantiam, pena la nullità. La durata
del patto, invece, non deve essere superiore ad anni tre per il personale
dipendente ed anni cinque per dirigenti.
Oggetto
In merito all'oggetto,
invece, sebbene il dato letterale dell'art. 2125 c.c. sembrerebbe consentire la
limitazione di qualunque attività esercitata dall'ex dipendente dopo la cessazione
del rapporto, un'interpretazione tanto estensiva comporterebbe per lo stesso
l'impossibilità di svolgere qualsivoglia attività lavorativa in violazione del
principio generale secondo cui al lavoratore deve essere comunque consentito di
esplicare la propria professionalità ed assicurarsi un guadagno idoneo alle
esigenze di vita, anche dopo la cessazione del precedente rapporto di lavoro
(Cass., 4 aprile 2006, n. 7835; Trib. di Modena 23 maggio 2019; Cass. 4 agosto
2021, n. 22247; Cass. 25 agosto 2021, n. 23418).
La giurisprudenza ha così
affermato la nullità del patto qualora il limite all'utilizzo della
professionalità del lavoratore sia compressa al punto tale da privarlo di
qualunque potenzialità reddituale.
La Suprema Corte ha poi
precisato che "il patto di non concorrenza, previsto dall'art. 2125
c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con
quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni
espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso è, però, nullo allorché
la sua ampiezza è tale da comprimere la esplicazione della concreta
professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità
reddituale" (Cass., 10 settembre 2003, n. 13282; App. Milano, 17 marzo
2006; Trib. Ravenna, 24 marzo 2005; Trib. Milano, 31 luglio 2003; Trib. Milano,
4 marzo 2009).
Territorio
Ulteriore elemento che
deve essere specificamente individuato nel patto di non concorrenza è la
limitazione geografica, pena la nullità.
Sono pacificamente
ritenuti legittimi patti estesi non solo all'Italia, ma anche all'intero
territorio europeo anche se la congruità del limite territoriale andrà comunque
valutata di volta in volta, insieme all'oggetto, tenendo conto del fatto che
tanto più è ampio l'oggetto del patto, tanto più sarebbe opportuno delimitare
l'operatività solo ad alcune zone, o, quantomeno, prevedere un compenso più
elevato, per proporzionarlo al maggior sacrificio del lavoratore. In altri
termini deve essere trovato sempre un bilanciamento tra il corrispettivo del
lavoratore e le limitazioni imposte allo stesso.
Unico limite
all'estensione del patto de quo è, tuttavia, come detto, quello di
consentire, al lavoratore di svolgere un'attività coerente con la propria
esperienza e la propria professionalità.
La congruità del
corrispettivo
Il sacrificio richiesto al
lavoratore in caso di cessazione del rapporto di lavoro deve essere remunerato
da un corrispettivo che dovrà essere congruo in relazione alla retribuzione del
dipendente, alla sua professionalità ed al suo inquadramento, alle sue mansioni
e più in generale ai vincoli di oggetto, territorio e durata contenuti nel
patto di non concorrenza.
Sul quantum e sul quomodo
del versamento del corrispettivo il Legislatore ha lasciato alle parti
ampia autonomia contrattuale: in ogni caso il corrispettivo non può consistere
in compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati al sacrificio
richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno (Cass.
n. 23418/2021; Cass. n. 9790/2020).
La modalità del pagamento
In assenza di precise
previsioni normative sul punto, il corrispettivo del patto di non concorrenza
viene talvolta pagato mediante:
- corresponsione
periodica;
- in misura fissa;
- durante il rapporto di
lavoro; o
- con corresponsione
dell'importo pattuito in una o più soluzioni dopo la cessazione del rapporto di
lavoro.
Strumenti di tutela del
datore di lavoro in caso di violazione del patto
In merito agli strumenti di tutela per il datore di
lavoro, contro il proprio ex dipendente che
violi il patto di non concorrenza regolarmente stipulato e retribuito, si
rileva quanto segue:
a) disinteresse del datore di lavoro
all'adempimento del patto.
Il datore di lavoro dovrà valutare la
situazione e, qualora ritenesse di non essere più interessato ad ottenere
l'adempimento del patto di non concorrenza, potrà risolvere il patto stesso per
inadempimento dell'altra parte contraente e chiedere la restituzione del
corrispettivo pagato, oltre al risarcimento dei danni provocati dall'attività
svolta dall'ex dipendente (in tal caso nel contratto può essere anche stabilita
un'apposita penale diretta a predeterminare l'ammontare dei danni).
b) interesse del datore di lavoro
all'adempimento del patto.
In alternativa, qualora vi
fosse un concreto e vivo interesse al rispetto del patto, il datore di lavoro
potrebbe chiedere l'adempimento del detto patto, anche con una procedura di
urgenza ex art. 700 c.p.c., al fine di ottenere dal giudice
un'inibitoria che vieti al lavoratore di continuare a svolgere l'attività
concorrenziale (potendo poi il datore chiedere nel giudizio ordinario il
ristoro dei danni patiti). Nel caso venga provata la violazione del patto di
non concorrenza il giudice concedere la tutela inibitoria e ordinare al
lavoratore di cessare la condotta illecita, eventualmente anche ordinando di
porre fine al rapporto di lavoro in essere.
Il portale giuridico al servizio del cittadino ed in linea con il codice deontologico forense.
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