Pubblicazione legale:
L’idea di famiglia ha acquisito nel nostro ordinamento, con il passare del tempo, un’accezione sempre più ampia.
Se, nel 1948, la nostra carta costituzionale
definiva la famiglia come “società naturale
fondata sul matrimonio” (art. 29 Cost.), legando quindi il concetto di
famiglia all’esistenza del vincolo coniugale, la stessa Costituzione conteneva
e contiene in sé il germe per estendere il concetto di famiglia a formazioni
non generate dal matrimonio, ma derivanti dalla semplice relazione affettiva e stabile tra due persone.
L’art. 2 della Costituzione, infatti,
riconosce e legittima tutte le formazioni sociali in cui si può sviluppare la
personalità dell’individuo, al quale garantisce diritti inviolabili, tra i
quali è da annoverare senza alcun dubbio il diritto a crescere in una famiglia,
ancorché non fondata su un legame giuridico quale il matrimonio, ma suggellata
dall’esistenza di un legame affettivo significativo.
In questo senso è famiglia anche il nucleo nel
quale non sono presenti entrambi i genitori, la c.d. famiglia mono-genitoriale,
o la famiglia senza prole. Ciascun tipo di formazione sociale fondata su legami
affettivi stabili è quindi definibile famiglia.
Tuttavia, fino al 2016, il nostro sistema
legislativo ha accordato riconoscimento e tutela solo alla “famiglia
matrimoniale”.
Peraltro il giudice delle leggi, nel 2014, ha
sottolineato l’interesse dello Stato italiano a non modificare il paradigma
eterosessuale del matrimonio ed ha ricondotto pertanto la tutela matrimoniale esclusivamente
delle coppie eterosessuali, ritenendo non modificabili i caratteri fondamentali
del matrimonio, quale istituzione di un legame giuridico tra uomo e donna.
Pertanto, da una parte il riconoscimento
giuridico della coppia era previsto solo rispetto alla coppia coniugata e,
dall’altra, per essere una coppia coniugata occorreva essere di sesso diverso.
In altre parole, nessun diritto era previsto
per le coppie eterosessuali di fatto, né tanto meno alle coppie omosessuali di
fatto.
Ciò fino alla legge n. 76 del 20 maggio 2016,
nota come Legge Cirinnà, che
ha delineato la nozione di convivenza di fatto e disciplinato, in un unico
articolo, sia i contratti di convivenza che le unioni civili.
In questo articolo parlerò di convivenza di
fatto, lasciando al prossimo la trattazione delle unioni civili.
IL PERCORSO CHE HA PORTATO AL
RICONOSCIMENTO NORMATIVO DELLA COPPIA DI FATTO
Il percorso di diversificazione dall’unico
modello di famiglia, quella fondata sul matrimonio, è in realtà in corso da
tempo, nonostante la legge sulle convivenze di fatto (e sulle unioni civili)
sia del 2016. La legge n. 898 del 1970, sullo scioglimento degli effetti civili
del matrimonio, ne è l’indicazione più risalente nel tempo.
Peraltro, già prima della Legge Cirinnà,
troviamo in varie normative il
riferimento alla convivenza di fatto (o convivenza more uxorio): ad esempio nella legge sui consultori familiari del
1975, come pure nella legge sulle locazioni del 1978, aggiornata a seguito
della sentenza della Corte costituzionale del 1988 che ha annoverato, tra i
successibili nel contratto di locazione, il convivente del conduttore deceduto;
nella legge n. 40 del 2004 che ha consentito l’accesso alla procreazione
medicalmente assistita ai conviventi di fatto; nella legge di riforma delle
adozioni (L. 149/2001) che consente l’adozione anche a persone che convivono
stabilmente da almeno tre anni; infine nella legge sull’affido condiviso dei
figli dove si fa riferimento a figli non nati da persone coniugate (l. 54/2006).
Giungiamo quindi nel 2016 ad una normativa che
ha recepito istanze giurisprudenziali e indicazioni già presenti anche nella normativa
sovranazionale, come la Convenzione europea sui diritti dell’uomo che all’art.
8 sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Nel sancire
il diritto al rispetto della vita
familiare la Corte di Strasburgo ha affermato che essa non si intende
sussistente soltanto in presenza di coppia formalmente coniugata, ma anche in
presenza di relazioni che, pur non ufficializzate, si alimentano nella
consuetudine di vita e nell’affettività, siano esse relazioni tra partner di sesso diverso o dello stesso
sesso o tra partner e i figli
dell’altro.
LA SCELTA DI CONVIVERE, LA SCELTA DI
ESSERE (E RESTARE) UNA COPPIA DI FATTO.
I
DIRITTI DI CHI NON CONVOLA A NOZZE
La Legge Cirinnà definisce la convivenza di
fatto come il legame tra due persone
maggiorenni unite stabilmente dal punto di vista affettivo e che si prestano
vicendevolmente assistenza materiale e morale.
La legge quindi ravvisa la convivenza di fatto
(detta anche convivenza more uxorio) in
presenza di un comportamento, protratto nel tempo, che ingeneri la sostanza di
una relazione affettivamente significativa.
Pertanto il dato anagrafico, ovvero
l’accertamento anagrafico di un nucleo di persone che convivono presso lo
stesso indirizzo, non prova di per sé la convivenza di fatto in assenza del
requisito fattuale (la relazione stabile affettiva), anche se può essere un
indice probatorio importante, come si vedrà in seguito.
Dal punto di vista giuridico, inoltre, per
potersi parlare di convivenza (o coppia) di fatto, non deve intercorrere tra le
stesse persone un rapporto di parentela, affinità, adozione, matrimonio o
unione civile.
In sostanza il legislatore decide finalmente,
nel 2016, di dare una definizione al concetto, socialmente rilevante, di coppia
o convivenza di fatto, in modo da legittimare, una volta appuratane la
presenza, una serie di situazioni soggettive di vantaggio in favore del
convivente di fatto, allo stesso modo in cui sono state riconosciute al
coniuge.
Ed infatti sempre al coniuge si fa riferimento
per dare il contenuto a tali diritti: il comma 38 dell’unico articolo della
legge Cirinnà riconosce al convivente di fatto gli stessi diritti garantiti al coniuge dall’ordinamento penitenziario; il
comma 39 riconosce al convivente di fatto, per il caso di malattia e di
ricovero, il diritto di visita, di
assistenza e di accesso alle informazioni personali; il comma 40 specifica
le facoltà correlate allo stato di malattia del partner nel designare l’altro come suo rappresentante, con
pieni o limitati poteri per decidere su questioni di salute se questi sia
incapace di intendere e di volere nonché, per il caso di morte, il potere di decidere in ordine alla
donazione degli organi, al trattamento del corpo e alle celebrazioni funerarie.
La designazione del partner con tali
poteri deve rispettare la forma scritta e autografa o, in caso di impossibilità
del partner di redigerla, alla
presenza di un testimone.
Allo stesso proposito, il comma 48 estende al
convivente di fatto la cerchia dei soggetti che possono essere nominati tutori, curatori o amministratori di
sostegno del partner che si trovi
in condizioni di fragilità tale da richiedere la nomina di un rappresentante
legale.
CESSAZIONE DELLA CONVIVENZA PER MORTE
DEL COMPAGNO O PER CRISI DELLA COPPIA DI FATTO: QUALI DIRITTI HA L’EX
CONVIVENTE?
MORTE
DEL CONVIVENTE
In tale ipotesi il legislatore del 2016 garantisce
al partner superstite che non sia
proprietario della casa familiare nel quale tuttavia ha e ha avuto la residenza
(la legge parla di casa di residenza comune) il diritto di continuare ad
abitarvi per un periodo che è commisurato alla durata della relazione, dando
una base minima di due anni e indicando una durata massima di cinque anni per
convivenze protrattesi per oltre due anni.
Tale diritto risponde all’interesse del partner superstite di adattarsi
gradualmente alla nuova situazione, concedendo un tempo minimo per trovare una
soluzione abitativa diversa, comprimendo temporaneamente il diritto di
proprietà di eventuali eredi (e in generale di chi vanta diritti sull’immobile)
e riconoscendo pertanto, attraverso questa tutela giuridica, un valore concreto
alla relazione affettiva intercorsa con il partner
deceduto. Il legislatore ha rafforzato tale tutela in presenza di figli minori
o disabile del convivente superstite, prolungando la durata della permanenza
nella casa familiare (di proprietà del convivente deceduto) per un periodo non
inferiore a tre anni.
Questa disciplina rappresenta un grande
progresso nella tutela del convivente di fatto se si considera che la
giurisprudenza di metà Novecento equiparava il convivente di fatto, in assenza
di vincolo coniugale, ad un mero ospite della casa familiare del partner deceduto, pur in presenza di una
relazione duratura, ed in quanto considerato tale non era destinatario di
alcuna tutela possessoria.
Successivamente e con l’evoluzione sociale la
giurisprudenza ha assunto un orientamento diametralmente opposto, riconoscendo
tutela possessoria al convivente di fatto, privato della casa familiare, sulla
base del fatto che lo stesso è da ritenersi portatore di un interesse proprio a
mantenere il potere di fatto sull’immobile, ben diverso da ragioni di mera
ospitalità. Tale orientamento è stato quindi recepito dalla legge Cirinnà che
oggi garantisce al convivente di fatto superstite la possibilità di continuare
a vivere, sia pure per un tempo determinato e commisurato alla durata della
relazione, nella casa di residenza comune.
L’accertamento anagrafico della convivenza è
determinante per stabilire la durata del diritto del convivente a continuare a
vivere nell’immobile di residenza comune.
Tale diritto viene meno quando il partner superstite, di fatto, cessa di
abitare nell’immobile di residenza comune o nel caso in cui inizi una nuova
convivenza, contragga matrimonio o un’unione civile.
Altro diritto del partner superstite riguarda il passaggio di titolarità
dell’immobile condotto in locazione in forza di contratto già intestato al
convivente deceduto. La Legge Cirinnà ha perfettamente recepito la pronuncia
della Corte Costituzionale del 1988, già fatta propria dalla Legge sull’equo
canone, a dimostrazione dell’intenzione del legislatore di fornire un corpus unico di norme in cui il
convivente possa trovare garanzie e tutele.
Chiaramente queste norme rispondono alla
necessità di garantire il bisogno abitativo, come pure il comma 45 dell’art. 1
che, con riferimento agli alloggi in edilizia popolare, stabilisce che
l’appartenenza ad un nucleo familiare rappresenta un requisito soddisfatto
anche in presenza di una convivenza di fatto.
Da ultimo preme rilevare come, tuttavia, la
Legge Cirinnà non abbia previsto alcuna modifica in relazione alla disciplina
della successione ereditaria e, nello specifico, alcun diritto successorio in
favore del convivente di fatto superstite. Pertanto, in caso di morte del
convivente di fatto ed in assenza di disposizioni testamentarie a favore del
convivente di fatto (nel rispetto delle norme in favore dei legittimari), il
convivente superstite non potrà vantare alcun diritto sul patrimonio del
convivente deceduto. Né il convivente di fatto superstite avrà diritto alle prestazioni
previdenziali previste in caso di morte (c.d. pensione di reversibilità).
La Legge Cirinnà invece ha recepito
l’orientamento giurisprudenziale che riconosce il risarcimento del danno in
favore del convivente di soggetto deceduto a causa di fatto illecito del terzo:
il comma 49 dell’art. 1 della Legge, infatti, estende al convivente superstite
l’applicazione dei criteri per la quantificazione del danno risarcibile
previsti per il coniuge superstite.
CRISI
DELLA COPPIA DI FATTO: LA ROTTURA DELLA RELAZIONE
In presenza di una relazione di fatto, la
cessazione della stessa può avvenire, naturalmente, in maniera libera ed
informale senza che sia necessario alcun accertamento giudiziario.
In merito agli oneri economici conseguenti a
tale rottura, ci si è interrogati nel tempo sia con riferimento alla
possibilità di un contributo economico in favore del convivente economicamente
debole, sia con riferimento ad eventuali profili risarcitori derivanti dalla
rottura della relazione.
La giurisprudenza che si è pronunciata su tali
questioni era determinata ad escludere sia il primo che il secondo tipo di
spettanza in favore dell’ex convivente poiché la relazione di convivenza si
caratterizza per essere fondata sulla libertà e sulla spontaneità dei
comportamenti ed è avulsa da qualsiasi obbligo giuridico (Trib. Roma,
10.10.1985; Trib. Foggia, 9.08.1982, Cass. 9505/1996). Naturalmente tale affermazione
è da riferirsi unicamente al cessato rapporto tra i conviventi e non ai figli
della coppia, poiché il rapporto di filiazione genera in capo al genitore
obblighi distinti, fondati sulla procreazione, del tutto autonomi rispetto alla
relazione intercorsa tra i genitori.
Va comunque dato atto delle incrinature che
tale orientamento giurisprudenziale sta subendo anche alla luce della influenza
della Corte Europea dei diritti umani, la quale afferma che la violazione dei
diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una
unione di fatto che abbia caratteristiche di stabilità e serietà (Cass. n. 4184/2012).
Su questa linea è avanzata la giurisprudenza,
anche costituzionale (Corte cost. n. 237/1986) e sovranazionale (Corte europea
dei diritti dell’uomo 24.06.2010) fino al recepimento normativo nel comma 65
dell’art. 1 della Legge Cirinnà il quale oggi statuisce che “In caso di
cessazione della convivenza di fatto il giudice stabilisce il diritto del
convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti qualora versi in
stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento”.
Sebbene tale norma riconosca al convivente di
fatto, che si trovi in stato di bisogno, la titolarità di un diritto mai
previsto finora in suo favore, in realtà questa disposizione non riveste la
portata innovativa che l’evoluzione sociale della materia si sarebbe aspettata,
sottolineando anzi ancora una volta la distinzione tra i diritti del convivente
di fatto dai diritti del coniuge separato.
Poiché, come noto, il diritto al mantenimento
del coniuge separato ha un contenuto modulato non solo sul bisogno economico
del coniuge, ma anche sul tenore di vita avuto in costanza di rapporto e
perdura fino alla cessazione del vincolo coniugale (salva la revisione in
presenza di circostanze sopravvenute da accertarsi), è evidente come il diritto
riconosciuto al convivente di fatto a seguito della rottura della relazione non
è un diritto al mantenimento, avendo un contenuto più limitato, sia in senso
temporale che oggettivo.
Infatti, sebbene la norma, in maniera ambigua
e comunque impropria, richiami l’incapacità del convivente di mantenersi, il
diritto in questione si compendia nel diritto ad avere un sostegno economico
correlato ad un mero stato di bisogno
dipendente dall’incapacità di provvedere a sé stesso e commisurato alla durata
della relazione e non alla durata dello stato di bisogno.
Pertanto il diritto agli alimenti previsto in
favore del convivente dalla legge Cirinnà ha un contenuto diverso anche
rispetto al diritto agli alimenti previsto dall’art. 433 e ss. del c.c. (il
quale nel caso in questione prevede che nell’ordine degli obbligati agli
alimenti sia annoverato il convivente di fatto prima dei fratelli e sorelle
dell’avente diritto agli alimenti).
In definitiva quindi la tutela del convivente
economicamente più debole si limita ad una prestazione assistenziale limitata
nel contenuto e destinata ad esaurirsi entro un certo termine, a prescindere
dal protrarsi dello stato di bisogno.
Altro tema che può porsi in occasione o a
causa della rottura della convivenza è la restituzione di beni, cespiti o
liquidità versata in corso di rapporto: essa, al pari di quanto succede
nell’ambito dei rapporti coniugali, è da escludersi in via generale, ma nella
misura in cui le contribuzioni economiche e le elargizioni siano state
rispondenti alle condizioni economiche e patrimoniali di chi le ha effettuate,
rappresentando l’adempimento di doveri morali e sociali giustificati dalla
relazione sentimentale e in quanto tali non restituibili.
Diverso è il caso in cui tali contribuzioni ed
elargizioni siano state sproporzionate rispetto alle effettive possibilità
economiche e alla posizione sociale del convivente e abbiano determinato un arricchimento
ingiustificato in favore dell’altro, circostanza che ne giustificherebbe il
risarcimento o la restituzione. In tal senso la Suprema Corte si è espressa con
riferimento al caso di un soggetto che aveva regalato alla compagna un quadro
di Picasso e un anello da tredici carati, pur non avendone le possibilità
(Cass. 18280/2016).
CRISI
DELLA RELAZIONE DI FATTO IN PRESENZA DI FIGLI
La trattazione sulla famiglia di fatto e,
nello specifico, della disciplina applicabile in caso di crisi e di rottura
della convivenza, in presenza di figli minori o maggiorenni non
economicamente sufficienti segue un percorso diverso e dettagliatamente delineato
dal codice civile e dal codice di procedura civile (quest’ultimo
particolarmente rinnovato dopo la Riforma Cartabia).
In tal caso infatti è prioritaria la tutela
della prole e pertanto anche la disciplina relativa alla permanenza del
convivente nella casa familiare (o di residenza comune) risponderà
all’interesse dei figli e si configurerà, in termini di assegnazione, nel caso
in cui il convivente non proprietario venga individuato, dal giudice, come
genitore collocatario dei figli.
Questo argomento non si potrà approfondire in
questo articolo nel quale tuttavia preme sottolineare come, in caso di crisi
della famiglia di fatto e della conseguente necessità di regolamentare
l’affidamento, il collocamento ed il mantenimento dei figli, si può ricorrere non
soltanto al giudice, ma anche a metodi di risoluzione alternativi al giudizio,
come la negoziazione assistita,
che con la Riforma Cartabia è stata estesa anche alle ipotesi di figli nati da
relazioni di fatto.
Infine, non si può non sottolineare l’importanza,
anche in questa materia e forse più che mai in questi casi dove il ricorso al
giudice può essere evitato proprio per l’assenza di un vincolo coniugale, dello
strumento della mediazione familiare
che può efficacemente aiutare le coppie di fatto in crisi a trovare gli
accordi più funzionali a gestire l’organizzazione familiare dopo la cessazione
della convivenza.
IL
CONTRATTO DI CONVIVENZA
Arriviamo infine a trattare del contratto di
convivenza.
Preliminarmente si deve precisare che la
stipula di un contratto di convivenza non determina di per sé la convivenza di
fatto poiché questa dipende dall’esistenza di una relazione affettiva stabile
comprovata da un comportamento concludente. Come si è premesso, neanche il dato
anagrafico (ovvero l’appartenenza anagrafica allo stesso nucleo familiare) è
determinante ai fini della prova della convivenza, in mancanza del dato
fattuale.
Ciò precisato il contratto di convivenza
rappresenta il programma economico a
cui la coppia di fatto ha manifestato, per iscritto e con specifiche formalità,
di volersi attenere.
Il comma 50 dell’art. 1 della Legge Cirinnà
stabilisce infatti che i conviventi di
fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in
comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza.
Tale programma economico deve rivestire la
forma scritta (come anche le sue modifiche e la risoluzione), dovendo
trasfondersi in un atto notarile o in una scrittura autenticata dal notaio o dall’avvocato
che ne certificano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.
In entrambi i casi, il professionista, ai fini dell’opponibilità a terzi del
contratto, dovrà trasmetterlo entro dieci giorni al Comune di residenza dei partners per l’iscrizione anagrafica.
Stessi oneri avrà nel caso di risoluzione o recesso unilaterale dal contratto.
Il contratto di convivenza è una sorta di
“contenitore” delle regole economiche che le parti pongono a presidio dei loro
rapporti economici e che possono riguardare, nello specifico ed essenzialmente,
le modalità di contribuzione alle
necessità della vita in comune nonché il
regime patrimoniale della comunione dei beni.
Questa opportunità normativa poggia sul
principio generale dell’autonomia contrattuale, tipico del nostro sistema
giuridico che consente alle parti di liberamente
determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge
purché siano diretti a realizzare
interessi meritevoli di tutela (art. 1322 c.c.).
Orbene è evidente la meritevolezza degli
interessi in questione, sebbene il vincolo affettivo che lega i conviventi di
fatto non abbia lo stesso contenuto giuridico del vincolo coniugale, non
contemplando ad esempio l’obbligo di fedeltà al partner.
Ciononostante l’esistenza di una relazione
affettiva stabile, consustanziandosi nel dovere vicendevole, solo morale, di
prestare assistenza morale e materiale al partner
legittima l’interesse a formalizzare un tale dovere e, conseguentemente,
anche a dargli un contenuto specifico, nei limiti della legge.
In questo senso il contratto di convivenza
deve confrontarsi con le norme imperative del nostro sistema giuridico, onde
evitare la sanzione della nullità, come può accadere ad esempio nel caso di
statuizioni di natura personale.
Innanzitutto il contratto di convivenza è
nullo in presenza di altro contratto di convivenza, di matrimonio o di unione
civile, ma anche nel caso in cui uno dei due conviventi sia minore, interdetto
o condannato per omicidio o tentato omicidio del coniuge dell’altro convivente
oppure nel caso in cui non si sia in presenza di una convivenza di fatto come
definita dalla legge Cirinnà.
Inoltre tra le clausole che rendono nullo il
contratto totalmente, nel caso in cui abbiano rappresentato il motivo
determinante per la sua conclusione, vi sono quelle che impongono l’impegno a
sposarsi o a non sposarsi, quelle che limitano il periodo di convivenza ad una
certa durata, quelle relative alla regolazione dei rapporti sessuali o quelle
che determinano le modalità di esercizio della convivenza o ancora clausole
penali a carico di chi interrompe la convivenza.
Sono invece ammissibili le disposizioni
contrattuali che pongono l’impegno reciproco a contribuire economicamente alle
necessità della convivenza e che stabiliscono anche in termini quantitativi e
qualitativi il contenuto di tale impegno, parametrandolo in base alle capacità
reddituali, patrimoniale e domestiche dei partners.
Con i contratti di convivenza è possibile
anche stabilire l’impegno alla costituzione di un patrimonio comune (ad esempio
l’impegno ad includervi tutti o parte dei beni personali dei partners o soltanto i beni acquisiti
durante la convivenza) e le sue modalità di amministrazione.
Tale impegno, che si traduce in un vero e
proprio obbligo giuridico a contrarre, dovrà essere poi attuato attraverso un atto
notarile o, in caso di inadempimento, potrà essere fatto valere in giudizio al
fine di ottenere una sentenza costitutiva in adempimento dell’obbligo assunto
dal convivente inadempiente.
Rispetto alle convenzioni matrimoniali tipiche
(come la separazione dei beni o il fondo patrimoniale) si registra un’ampia
autonomia negoziale delle parti che possono ad esempio anche costituire un trust, con l’espresso scopo di far
fronte alle necessità della convivenza.
È inoltre possibile correlare la durata del
contratto di convivenza alla durata della relazione o stabilirne una durata
determinata.
Come qualsiasi contratto, anche il contratto
di convivenza può risolversi. Tra le cause di risoluzione vi è l’accordo delle
parti, il recesso unilaterale, il matrimonio o l’unione civile tra i conviventi
o tra un convivente ed un terzo ed infine la morte di uno dei conviventi.
Merita nota la norma che prevede che in caso
di recesso unilaterale, da farsi in forma scritta e da comunicarsi all’altro
convivente a cura del professionista che riceve e autentica la dichiarazione,
se il convivente recedente ha anche la disponibilità esclusiva della casa
familiare dovrà altresì indicare, a pena di nullità del recesso, un termine non
inferiore a novanta giorni entro il quale l’altro convivente dovrà lasciare
l’abitazione. Anche questa norma è evidentemente segno del valore che viene
riconosciuto al rapporto di fatto (pregresso) e alla necessità di tutela del
bisogno abitativo del convivente non recedente.
Infine, è importante rilevare che la
risoluzione del contratto di convivenza determina, in caso di costituzione di
un patrimonio comune, anche lo scioglimento del regime di comunione con la
conseguente necessità di procedere con la divisione dello stesso attraverso
appositi atti notarili.
Il portale giuridico al servizio del cittadino ed in linea con il codice deontologico forense.
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