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Responsabilità da prodotto difetto c.d. “product liability” ed il mondo delle lobby farmaceutiche

Scritto da: Stefano Parma - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

Di Stefano Parma, Avvocato

Cass. Civ., Sez. III, sent., 13 marzo 2015, n. 15851 (Presidente, Dott. Roberta Vivaldi)

Responsabilità per danni da prodotto difettoso

MASSIMA:

La responsabilità da prodotto difettoso ha natura presunta, e non oggettiva, prescindendo infatti tale accertamento dalla prova della colpevolezza del produttore (elemento soggettivo), ma non anche dalla dimostrazione dell'esistenza di un difetto del prodotto (elemento oggettivo).

Incombe, pertanto, sul soggetto danneggiato - ai sensi dell'art. 8 d.P.R. 24 maggio 1988 n. 224 (trasfuso nell'art. 120 del cd. "Codice del consumo") - la prova del collegamento causale non già tra prodotto e danno, bensì tra difetto e danno, salva comunque la prova liberatoria del produttore, il quale andrà esente dalla responsabilità per danni da prodotto difettoso ove lo stesso provi il verificarsi di una delle cause di esclusione previste ex lege (v. ex art. 6 d.P.R. 24 maggio 1988 n. 224 (trasfuso nell'art. 118 del cd. "codice del consumo")

IL CASO:

La presente pronuncia trae il proprio principio di diritto dal seguente caso concreto:

il Tribunale di Pescara veniva investito della difficile questione circa la risarcibilità del danno, patrimoniale e non, che l’attrice, la sig.ra B. M., riteneva di aver subito a seguito dell’assunzione di un preciso farmaco, il G., convenendo perciò in giudizio una nota casa farmaceutica, la società M.F. Spa, in qualità di produttrice e distributrice dello stesso.

Alle richieste di accertamento della responsabilità per danno da prodotto difettoso e del relativo risarcimento dei danni patiti avanzati dall’attrice, si opponeva fermamente in giudizio la società convenuta, eccependo l’esclusione delle propria responsabilità ai sensi dell'art. 6 D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224, precisamente “per l’opacità del difetto dello stato delle conoscenze scientifiche del tempo nonché il difetto di prova circa l’imputabilità a sé del farmaco assunto dall’attrice, non avendo questa specificato il relativo lotto di produzione verosimilmente ancora riferibile a B.”.

In primo grado, la società farmaceutica veniva però condannata al risarcimento dei danni in favore dell’attrice.

A seguito della soccombenza, la società M.F. Spa promuoveva avverso siffatta pronuncia il relativo giudizio d’impugnazione innanzi alla Corte di Appello dell’Aquila.

Il giudice del gravame riformava la sentenza di primo grado accogliendo l’appello come presentato dalla società farmaceutica e rigettando le domande della sig.ra B.M.

Avverso tale riforma, quest’ultima proponeva ricorso per Cassazione deducendo, oltre a questioni preliminari di rito, nel merito, la violazione e falsa applicazione dell’art. 6 D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224 adducendo a sostegno di ciò che la società appellata, una volta acquistati i diritti e brevetti dalla B. relativi al principio attivo niperotidina e ritirate le scorte del farmaco G. presso la venditrice, aveva iniziato, in proprio, a produrre il G. acquistando la niperotidina presso un nuovo fornitore (società spagnola U), così producendo e commercializzando un farmaco del tutto diverso da quello venduto dalla B, senza però preoccuparsi di effettuare i dovuti accertamenti circa la qualità dei materiali forniti da U.

Non solo l’appellante sottolineava come la società farmaceutica, responsabile, non si fosse neppure preoccupata di dimostrare la sua impossibilità a conoscere il difetto del prodotto in base alla ripartizione dell’onere probatorio di cui all’art. 8 D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224.

In secondo luogo, la sig.ra B.M. contravveniva all’interpretazione del giudice del gravame, il quale aveva valutato il ritiro del farmaco dal mercato quale esimente della responsabilità, assumendo al contrario l’appellante che tale circostanza fosse da considerarsi invero “comportamento responsabile”, precisamente da addebitarsi quale colpa grave a carico della società farmaceutica per il “comportamento omissivo e intempestivo” avendo la stessa contezza degli effetti collaterali del farmaco già da un anno prima dal ritiro cautelativo dal mercato del suo prodotto.

La Suprema Corte esaminati congiuntamente i motivi, dichiarava l’infondatezza di entrambi per carenza probatoria.

Una volta ribadita, infatti, la natura “presunta” della responsabilità da prodotto difettoso, la Corte evidenziava le carenze probatorie addebitabili alla ricorrente non avendo la stessa soddisfatto l’onere di cui all’art. 8 D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224 precisamente di aver mancato di provare il “collegamento causale” tra “difetto e danno” e non già tra “prodotto e danno” mentre escludeva la responsabilità della società resistente ai sensi dell’art. 6 lett. e) D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224, ovvero, in quanto “lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso

Queste le premesse alla questione giuridica oggetto della pronuncia.

LA QUESTIONE:

Alla luce della trasposizione nel Codice del Consumo (art 114-127 Dlgs. n. 206 del 2005) della disciplina della responsabilità del produttore originariamente dettata dal D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224 è necessario domandarsi:

“se possa registrarsi continuità circa la natura presunta della responsabilità da prodotto difettoso e il relativo riparto dell’onere probatorio tra danneggiato e produttore e, pertanto, quando possa configurarsi a carico di quest’ultimo l’obbligo di risarcimento del danno, sia patrimoniale sia non patrimoniale, ad esso conseguente, alla luce anche dell’eventuale prova della sussistenza di una delle cause di esclusione di tale responsabilità previste ex lege (dell’art. 6 D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224, ora art. 118 cod. cons.).

 Il tutto con particolare riferimento, nel caso che ci compete, all’ipotesi di ristoro dei danni derivati dall’assunzione di un farmaco in commercio, successivamente ritirato in via cautelativa”.

LE SOLUZIONI GIURIDICHE:

La soluzione del caso prospettato necessita preliminarmente una breve disamina dell’espressione “responsabilità del produttore per i danni da prodotto difettoso” la cui normativa di riferimento originariamente dettata dal D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224 è oggi confluita nel D.lgs. n. 206 del 2005, altrimenti noto come Codice del Consumo, precisamente nel Titolo II rubricato “Responsabilità per danno da prodotti difettosi”, Parte IV, agli artt. 114-127.

Ebbene, tale disamina non può che trarre origine proprio dal dettato dell’art.  114 cod. cons. a tenore del quale:  “Il produttore e' responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto”.

Ciò detto è da premettere come sia la normativa stessa a fornirci le definizioni basilari prodromiche all’individuazione di una siffatta responsabilità, precisamente l’art. 115 cod. cons. definisce il produttore, come colui che “e' il fabbricante del prodotto finito o di una sua componente, il produttore della materia prima, nonché', per i prodotti agricoli del suolo e per quelli dell'allevamento, della pesca e della caccia, rispettivamente l'agricoltore, l'allevatore, il pescatore ed il cacciatore” consentendoci così tale disposto d’individuare i soggetti passivi di tale responsabilità (salva la responsabilità del fornitore in caso di non individuazione del produttore).

Ancora la stessa norma definisce anche la fonte materiale di una siffatta responsabilità, ovvero, il prodotto intendendosi tale “ogni bene mobile, anche se incorporato in altro bene mobile o immobile (compresa l’elettricità)”.

Tale ultima definizione però merita una precisazione ai fini dell’individuazione dei soggetti c.d. legittimati attivi dell’azione di risarcimento dei danni quando il prodotto possa qualificarsi come “difettoso” e pertanto possa costituire fonte della pretesa risarcitoria del danneggiato.

Sul punto, l’art. 117 cod. cons. viene a conforto prevedendo che “un prodotto e' difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze” norma dalla quale è possibile evincere ben tre tipologie distinte di vizi precisamente quelli di fabbricazione (comma 3), di progettazione (comma secondo) ed, infine, quelli d’informazione derivanti da carenza d’istruzioni circa l’utilizzo del prodotto (comma primo, lett. a).

In altre parole, in via generale, il prodotto è difettoso quando non è sicuro.

Corrolario di ciò, è l’utilizzo da parte del legislatore di un “concetto di difetto” che Autorevole dottrina (Garofoli) definisce “relazionale” risultando, invero, pacifica la consapevolezza  circa l’impossibilità di creare un prodotto da immettere sul mercato che in assoluto non presenti alcun pericolo per il consumatore.

Da ciò consegue naturalmente la necessità di correlare il giudizio di pericolosità ad alcune variabili così riassumibili:

-        le informazione e istruzioni divulgate circa le modalità di utilizzo del prodotto

-        il comportamento prevedibile dei consumatori che acquistano lo stesso

-        ed, infine, all’evoluzione e ai traguardi tecnologici di un preciso momento storico (cfr. art. 117 cod. cons.).

A fronte di quanto sin qui esposto è pertanto possibile individuare anche i soggetti legittimati attivi alla domanda di risarcimento, ovvero, coloro che hanno subito un danno, patrimoniale o non, dall’uso di un prodotto risultato, a seguito della relativa indagine, difettoso.

Fatte così le necessarie premesse è doveroso ora focalizzarci sulla pronuncia oggetto della disamina ovvero precisamente sulla natura “presuntiva” e non oggettiva della responsabilità del produttore per danni da prodotto difettoso ed il relativo regime probatorio.

Ebbene individuato il produttore quale soggetto passivo, il danneggiato potrà avanzare nei suoi confronti domanda di risarcimento danni, patrimoniali e non, occorsigli dall’utilizzo del prodotto difettoso solo ove riesca a dar prova di tre elementi: 1) il difetto del prodotto, 2) il danno patito e 3) il relativo nesso causale (tra difetto e danno) (ex art. 120 cod. cons.), concentrando in sé quest’ultimo  articolo due aspetti, ovvero, 3.1) la causalità tra l’utilizzo del prodotto che si assume essere difettoso e il danno più propriamente detto e 3.2) la connessione causale tra il difetto e il danno.

In altre parole, il consumatore sarà chiamato ex lege una volta dimostrato - anche mediante il ricorso a presunzioni - il difetto del prodotto, che deve manifestarsi all’esterno (esplosione, effetti collaterali ecc.), che tali conseguenze negative siano occorse seppur vi sia stato un utilizzo normale ed attento del prodotto difettoso costituendo esso la causa del danno patito.

Ciò detto, la sentenza in commento ribadisce, in un’ottica di completa adesione all’orientamento giurisprudenziale precedente la natura presuntiva della responsabilità del produttore per danni da prodotto difettoso, in luogo, di quella oggettiva, proprio in quanto tale addebitabilità al produttore prescinde dal vaglio dell’elemento soggettivo della colpa di quest’ultimo focalizzandosi diversamente sull’esistenza di un difetto e sul nesso causale tra esso ed il danno lamentato.

Contro, si evidenzia la pronuncia della Cass. Sez. III, del 15 marzo 2007, n. 6007, quale unico e isolato tentativo di ricondurre la responsabilità del produttore per danni da prodotto difettoso nell’alveo della responsabilità per colpa.

Ebbene per la normativa vigente e la giurisprudenza prevalente, impone al produttore per andare esente da responsabilità di provare almeno uno dei fatti esimenti, ovvero, il verificarsi di una delle ipotesi liberatorie previste all'articolo 118 cod. cons.

La norma è infatti proprio rubricata “Esclusione della responsabilità” individuando la stessa, mediante un’elencazione per lettere (dalla A alla F), le cause che esimono il produttore  dalla responsabilità per i danni da prodotto difettoso.

Alle quali va inoltre aggiunta quella prevista dall’art. 122, comma 2, cod. cons. che esclude il risarcimento, anche nell’ipotesi aggiuntiva rispetto a quelle previste dall’art. 118 cod. cons., in cui il danneggiato sia stato consapevole del difetto e del pericolo che poteva derivare dal prodotto e ad esso si sia volontariamente esposto (Cass. Sez. III, 14 giugno 2005, n. 12750).

Orbene, tornando alla variegata casistica delle cause di esclusione della responsabilità di cui all’art. 118 cod. cons. quella che ha dettato maggiori difficoltà interpretative, e richiamata nella sentenza in oggetto, è proprio la lettera e) a tenore della quale “La responsabilità è esclusa: se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso”, c.d. “rischio da sviluppo”.

Esimente questa di natura “relativa”, in quanto, ad essa può attribuirsi una portata più o meno severa.

A quest’ultima e più stringente lettura sembra aver aderito la Corte di Giustizia Europea, che chiamata ad esprimersi sul punto ha affermato che il parametro da considerare, ai fini dell’esclusione della responsabilità, debba essere proprio lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche comprensivo del livello più avanzato esistente al momento della commercializzazione del prodotto e non, invece, i soli standard di sicurezza in uso nel settore in cui opera il produttore (la direttiva comunitaria di riferimento in materia è la 85/374/CE).

Ebbene, quanto sin qui esposto circa la natura presunta e non oggettiva della responsabilità per danni da prodotto difettoso merita una precisazione onde evitare d’ingenerare dubbi nel lettore: il sopra richiamato art. 122 cod. cons. rinviando espressamente al dettato dell’art. 1227 c.c. in materia di concorso colposo del danneggiato non tradisce quanto sin qui affermando evocando il principio della responsabilità per colpa, in quanto essa afferisce esclusivamente alla sfera del consumatore, non certo scalfisce la natura della responsabilità del produttore come sopra esposta.

Infine, per completezza espositiva, si richiamano inoltre il dettato normativo di cui all’art. 123 cod. cons. che consente l’individuazione del danno risarcibile, rispettivamente quello fisico e quello materiale, presupponendone l’uso privato ed in caso di danno a cose una limitazione imposta dalla franchigia prevista al comma secondo dell’articolo citato; nonché, il richiamo all’art. 125 e 126  cod. cons. che disciplinano i termini di prescrizione triennale e decadenza decennale del diritto al risarcimento.

OSSERVAZIONI:

La ratio sottesa al regime della responsabilità del produttore per danni da prodotti difettosi è regolata dal nostro legislatore, alla luce delle considerazioni suesposte, secondo una visione relativista e non prettamente severa la quale supportata dalla natura presunta di una siffatta responsabilità, come sostenuta in giurisprudenza, fa chiaramente emergere un duplice versante di interessi che non possono essere sacrificati uno a discapito dell’altro imponendosi pertanto la necessità di controbilanciare queste due esigenze che constano rispettivamente, da un lato nel garantire la tutela del consumatore, quale soggetto debole del rapporto e dall’altra, di non veder sacrificato e conseguentemente bloccato il progresso tecnologico del settore produttivo per eccessivo accanimento nei confronti dei produttori.

Si consideri, in tal senso, come sia assolutamente pacifica la natura extracontrattuale della responsabilità del produttore in quanto tale prescindente da qualsiasi rapporto negoziale tra produttore e consumatore.

 Approfondimenti dottrinali:

-        In ambito sovranazionale: “La sicurezza dei prodotti e la responsabilità del produttore” di Enrico Al Mureden, p. 141 ss.

-        In ambito nazionale: “La responsabilità per danno da prodotto difettoso”  di Graziuso Emilio, pag. 26 ss.

-        Manuale di diritto civile” di Giuseppe Chinè, Marco Frantini e Andrea Zoppini, p. 2330 ss.

Approfondimenti giurisprudenziali:

-        Cass. Civ., Sez. III, del 29 maggio 2013, n. 13458, Giustizia Civile 2013, 10, I, 1979;

-        In senso conforme: Cass. civ. n. 12665 del 2013, Cass. civ., sez. III, 15 marzo 2007 n. 6007;

-        Giudici di merito: sulla responsabilità extracontrattuale: Tribunale Sassari, 12 luglio 2012.


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Referenze

Pubblicazione legale

I profili di responsabilità del direttore lavori

Pubblicato su IUSTLAB

Di Stefano Parma, Avvocato Cassazione Civile, Sez. II, 3 maggio 2016 Appalto – Responsabilità – Direttore e direzione dei lavori MASSIMA: In materia di appalto, il principio dell’esclusione di responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero esecutore di ordini (“ nudus minister ”) non si applica al direttore dei lavori che, per le sue peculiari capacità tecniche, assume nei confronti del committente precisi doveri di vigilanza, correlati alla particolare diligenza richiestagli, gravando su di lui l’obbligazione di accertare la conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera appaltata al progetto sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, sicché non è esclusa la sua responsabilità nel caso ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente. IL CASO: Il Condominio R. Q. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Mantova l’impresa costruttrice-venditrice E. M. & C. sas al fine di ottenere il risarcimento dei danni provocati da infiltrazioni d’acqua ed umidità in varie parti degli edifici. L’impresa appaltatrice si costitutiva in giudizio contestando la pretesa risarcitoria, rilevando che i danni ove sussistenti erano ascrivibili all’esclusiva responsabilità del progettista-direttore dei lavori, l’Ing. M. F. chiedendone pertanto la chiamata in causa, a manleva. A seguito di autorizzazione della chiamata del terzo si costituiva altresì in giudizio l’Ing. M. F. il quale a sua volta negava ogni responsabilità. Il Tribunale di Mantova, dopo aver disposto consulenza tecnica, con sentenza condannava in solido l’impresa appaltatrice e l’Ing. M.F. al risarcimento dei danni in favore del Condominio nella misura di Euro 80.110,26. I soccombenti impugnavano siffatta sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Brescia che integralmente riformava la pronuncia di primo grado rigettando tutte le domande ed osservando che il diritto al risarcimento dei danni nei confronti dell’impresa si era prescritto e altresì dichiarando l’assenza di responsabilità di natura extracontrattuale del progettista-direttore dei lavori nominato dall’impresa. Avverso tale sentenza, il Condominio R. Q. proponeva ricorso per Cassazione a cui resisteva la E. M. sas con controricorso contenente ricorso incidentale, resistendo altresì con separati ricorsi l’Ing. M. F. QUESTIONE: In tema di appalto, il principio dell’esclusione della responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero esecutore si applica anche alla figura del direttore lavori? LE SOLUZIONI GIURIDICHE: La Suprema Corte in totale riforma del dictum della Corte territoriale riteneva erronea “ in diritto l’affermazione della Corte d’Appello laddove ritiene una minore incisività dell’attività di controllo del direttore dei lavori sull’andamento degli stessi sol perché vi erano ditte appaltatrici e, soprattutto laddove – sulla base dell’esistenza dell’appaltatore e di un responsabile di cantiere, tale R. (di cui neppure ha verificato le specifiche mansioni o il titolo professionale) – ha di fatto spogliato il direttore dei lavori di ogni responsabilità nella verifica della corretta esecuzione dell’opera […] ”. Ebbene, la Suprema Corte definisce la decisione della Corte di Appello erronea giuridicamente oltre che consistente in un vero e proprio salto logico, mostrando, a riprova di ciò il ragionamento giuridico sotteso e la giurisprudenza espressasi sul punto che, diversamente dal ragionamento della Corte territoriale, conducevano all’accertamento della responsabilità del direttore lavori e non del progettista. Preliminarmente è importante distinguere la figura del progettista da quella del direttore dei lavori, seppur le stesse possano essere ricoperte da un medesimo soggetto, come nel caso di specie. Per progettista s’intende la figura professionale che redige un progetto, spesso di carattere architettonico o tecnico progettuale, attraverso un’attività di progettazione vera e propria, mentre il direttore dei lavori si occupa della fase esecutiva dell’intervento edilizio ed, in tale veste, egli deve verificare che l’opera venga realizzata in conformità al permesso di costruire e secondo le modalità in esso indicate. Nel caso de quo sulla scorta dei fatti e della consolidata giurisprudenza che qualifica l’art. 1669 c.c. quale responsabilità extracontrattuale, analoga a quella aquiliana, si può affermare che in siffatta responsabilità possano incorrere, a titolo di concorso con l’appaltatore, anche tutti quei soggetti che prestando a vario titolo la propria opera nella realizzazione dell’attività abbiano comunque contribuito per colpa professionale alla determinazione dell’evento dannoso, della specie dell’insorgenza di vizi. A differenza di quanto avviene per il progettista, il direttore dei lavori al conferimento dell’incarico contrae un’obbligazione di mezzi che consiste nell’impegno del professionista nell’assolvere le mansioni assegnate con la diligenza necessaria con riguardo all’attività esercitata (art. 1176 c.c.) e richiesta per garantire la corretta esecuzione dell’opera, ovvero, dovrà riferirsi a quella particolare diligenza richiesta dalle caratteristiche dei lavori da dirigere. Per meglio comprendere la portata di una siffatta diligenza è illuminante il richiamo alla giurisprudenza oramai consolidata nell’ambito della direzione lavori, a tenore della quale nel novero delle competenze del direttore dei lavori e pertanto delle obbligazioni a suo carico sono da ricomprendersi (a fronte delle proprie capacità tecniche), precisi doveri quali quello di vigilanza dei lavori, di controllo della conformità dell’opera al progetto, anche nelle fasi progressive, il rispetto delle modalità di esecuzione dell’opera rispetto al capitolato ed altresì il vagli circa l’adozione delle regole della tecnica nel rispetto della normativa vigente. In particolare, l’attività del direttore dei lavori si concreta nell’alta sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento delle operazioni di natura elementare, comporta il controllo della realizzazione dell’opera nelle sue varie fasi (Cass. Civ. Sez. II, del 24 aprile 2008, n. 10728). Grava pertanto sul professionista l’obbligo di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell’arte e la corrispondenza dei materiali impiegati (Cassazione civile, sez. II, 21/05/2012, n. 8014). Secondo la Corte di Cassazione: “il direttore dei lavori è la persona di fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite dall’appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga intervenendo per tempo anche solo a fermarne l’esecuzione, qualora questa manifesti vizi o difetti ” (Cassazione civile, sez. II, 29/08/2013, n. 19895). In applicazione di questo principio di diritto, si è quindi sostenuto che anche “ il geometra direttore dei lavori, sebbene non competente per l’esecuzione dei calcoli in cemento armato, dovesse essere competente a valutare in corso d’opera come l’appaltatore ed i suoi ausiliari (ivi incluso l’ingegnere progettista delle strutture) eseguissero il loro lavoro, sì da rilevare per tempo i gravi difetti delle opere, prima che esse venissero completate ” (Cfr. Cassazione civile, sez. III, 13/04/2015, n. 7370). Proprio a fronte di tali competenze tecniche, che presuppongono un’applicazione di risorse intellettive e operative da parte del direttore lavori nell’esecuzione del proprio operato, s’impone quella giurisprudenza di legittimità che afferma l’impossibilità di applicazione del principio di esclusione della responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero esecutore di ordini, il c.d. “nudus minister” (Cass. Civ. Cassazione Civile, Sez. II, 3 maggio 2016 n. 8700). Ciò detto, risultando la responsabilità del DL di natura contrattuale , il professionista non può affatto esimersi dall’espletare le competenze e i controlli che la diligenza del suo incarico richiedono ex art 1176, 2 comma, neppure invocando l’eventuale presenza in cantiere di altre figure affini (quali altri subappaltatori, per esempio). Sul punto si consideri altresì alla luce dei principi generali della responsabilità aquiliana e della causalità civile (Cassazione civile sez. III 02 febbraio 2010 n. 2360), come la responsabilità del DL possa concorrere, nella causazione di un fatto lesivo di terzi soggetti occorso nell’esecuzione dei lavori, con gli ulteriori fattori causali, precisamente condotte attive od omissive di altri collaboratori, ove tali condotte costituiscano autonomi fatti illeciti che abbiano contribuito causalmente alla produzione dell’evento. Responsabilità che rileva ove il direttore dei lavori abbia omesso gli obblighi e la diligenza derivanti dal proprio incarico (precisamente, omessa impartizione delle direttive volte ad evitare l’evento dannoso, la mancanza di garanzia circa la loro osservanza, od omessa manifestazione del dissenso circa la prosecuzione dei lavori astenendosi dal dirigerli in mancanza delle cautele necessarie) (Cass. Civ. Sez. 22.10.2003, n. 15789). OSSERVAZIONI: Dalle considerazioni suesposte e dalla giurisprudenza richiamata ciò che si evince è che seppur gli oneri gravanti in capo al direttore dei lavori siano da qualificarsi tra le obbligazioni di mezzi e non di risultato ciò non esclude che tutti gli obblighi che ne discendono a fronte della diligenza professionale richiesta, non debbano essere dallo stesso espletati non essendo sufficiente che il direttore lavori effettui un mero controllo della conformità dell’opera al progetto quanto invero anche tutte quelle obbligazioni di vigilanza e rispetto delle normative che ne afferiscono (cfr. Cassazione civile, sez. II, 24/04/2008, n. 10728, v. anche Cassazione civile 03 maggio 2016 n. 8700 sez. II Cassazione civile 30 settembre 2014 n. 20557 sez. III). Si comprende altresì che ove la figura di progettista e quella di direttore dei lavori convergano in un’unica persona la stessa sarà chiamata a rispondere per le responsabilità solo accertate, precisamente nel caso di specie veniva infatti esclusa la responsabilità del tecnico nella sua veste anche di progettista non essendo in tale ambito riscontrati illecito alcuno. Ciò che rileva pertanto in relazione al direttore dei lavori è che egli è chiamato a rispondere del danno derivato al terzo se ha omesso di impartire le opportune direttive per evitarlo e di assicurarsi della loro osservanza, ovvero di manifestare l’eventuale dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi astenendosi dal continuare a dirigerli in mancanza di adozione delle cautele disposte (Cassazione civile, sez. III, 22/10/2003, n. 15789). Il consiglio pratico è pertanto il seguente: il direttore dei lavori deve svolgere la propria attività ovviamente nel rispetto della diligenza professionale richiesta alla luce delle peculiari competenze tecniche, precisamente, nel rispetto delle obbligazioni che l’orientamento consolidato della Suprema Corte ha puntualizzato in varie sentenze avendo ben in considerazione che ove il caso concreto invero non consentisse per contingenze di varia natura ciò, il DL potrebbe comunque andare esente da qualsivoglia addebito di responsabilità ove manifestasse il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi, decidendo persino di astenersi dal continuare la propria opera di direttore nel caso in cui non venissero adottate le cautele disposte. Precisamente le obbligazioni, in via generale, poste a carico del direttore dei lavori, differenziandole da affini figure professionali sono: 1) l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica; 2) l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera, e la segnalazione all’appaltatore di tutte le situazioni anomale e gli inconvenienti che si verificano in corso d’opera, oltre sul punto a garantire il rispetto della normativa vigente in materia, in alternativa di manifestare il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori astenendosi dal continuare a dirigerli in mancanza di adozione delle necessarie cautele. Si consideri per completezza espositiva che il direttore dei lavori, anche se è chiamato in causa dall'impresa, può essere condannato al risarcimento del danno qualora non abbia supervisionato e controllato sulla corretta esecuzione dei lavori. Concludendo, il direttore dei lavori può andare esente da responsabilità, anche se chiamato a manleva, ove adempia ai propri obblighi di vigilare ed impartisca le opportune disposizioni al riguardo, preoccupandosi di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e di riferirne al committente. Approfondimenti giurisprudenziali: Puntualizzazione delle obbligazioni poste a carico del direttore dei lavori: Cassazione Civile, sez. II, 24/07/2007, n. 16361 Culpa in eligendo: Cassazione Civile, sez. II, 16/09/2014, n. 19485 La responsabilità del direttore dei lavori per i gravi vizi dell'opera: Cassazione Civile Sez. II 27 gennaio 2012 n. 1218 Direttore dei lavori: è responsabile del risarcimento danni anche se chiamato in causa: Cassazione Civile sentenza, 13 aprile 2015 n. 7370 Sulla responsabilità del direttore dei lavori cfr. Cass. 29 luglio 2005 n. 15255; Cass. 28 novembre 2001 n. 15124

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La suocera “impicciona” e la rottura del “fidanzamento ufficiale”: la frontiera al risarcimento del danno.

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Di Stefano Parma, Avvocato Tribunale di Roma, Sez. I, 12 gennaio 2015 Risarcimento del danno MASSIMA: La promessa “ semplice ” di matrimonio (qualificabile come mero fatto sociale e non produttiva di alcun effetto giuridico diretto) non costituisce fonte di risarcimento del danno in caso di rottura ingiustificata della stessa, in quanto la fonte di possibile responsabilità risarcitoria è solo quella derivante dalla c.d. promessa “solenne”, di cui all’art. 81 cod. civ., soggetta a determinati requisiti ovvero la vicendevolezza, la capacità di agire dei promittenti, la formazione di un atto pubblico o di una scrittura privata o la richiesta di pubblicazione di matrimonio. IL CASO: Dopo sedici anni di fidanzamento il sig. M.C. conveniva in giudizio la sua ex fidanzata, la sig.ra R.R. e i di lei genitori, il sig. U.R. e la sig.ra V.C., al fine di chiederne la condanna in solido per i danni, patrimoniali e non patrimoniali, allo stesso occorsi a seguito della rottura ingiustificata della promessa di matrimonio da parte della sig.ra R.R.. L’attore addebitava la fine del fidanzamento alle continue ingerenze della sig.ra V.C., futura suocera, nella vita di coppia dei due fidanzati mediante continue illecite intromissioni che andavano a generare avversione inducendo la figlia, R.R. a cambiare opinione sul progetto di vita comune dei due fidanzati ledendo così le aspettative matrimoniali dell’attore provocando allo stesso un profondo stato depressivo. I convenuti si costituivano dinnanzi al Giudice di Pace di Roma rilevando, preliminarmente, l’incompetenza del giudice adito e, nel merito, il rigetto delle domande, formulando domanda riconvenzionale di risarcimento del danno per gli atti persecutori posti in essere dall’ex fidanzato sig. M.C. nei suoi confronti, nonché, per le ingiurie e diffamazioni subite Il Giudice di Pace di Roma dichiarava la propria incompetenza a favore del Tribunale di Roma, assegnando alle parti termini per la riassunzione. La causa veniva poi riassunta dai convenuti nei termini previsti innanzi al Tribunale di Roma. Ammesse le prove come richieste dalle parti, disposto l’interrogatorio formale del sig. M.C. ed escussi i testi la causa veniva trattenuta in decisione. In motivazione: Il tribunale di Roma, respinta l’eccezione preliminare avanzata da M.C. d’incompetenza per valore, affermava nel merito: “ La promessa di matrimonio, contemplata dagli artt. 79-81 cod. civ., si identifica, alla stregua del costume sociale, nel cosiddetto fidanzamento ufficiale, e sussiste, cioè, quando ricorra una dichiarazione espressa o tacita, normalmente resa pubblica nell’ambito della parentela , delle amicizie e delle conoscenze, di volersi frequentare con il serio proposito di sposarsi, affinché ciascuno dei promessi possa acquisire la maturazione necessaria per celebrare responsabilmente il matrimonio, libero restando di verificare se questa venga poi conseguita in se stesso e nell’altro e di trarne le debite conseguenze. Nell’ambito di detta promessa, si distingue quella di tipo solenne, di cui all’art. 81 cod. civ., soggetta a determinati requisiti (vicendevolezza, capacità di agire dei promittenti, atto pubblico o scrittura privata o richiesta di pubblicazioni di matrimonio), e produttiva di una situazione di affidamento, fonte di possibile responsabilità risarcitoria, da quella di tipo semplice, non soggetta ad alcun requisito di capacità o di forma, qualificabile come mero fatto sociale, e non produttiva di alcun effetto giuridico diretto, tenuto conto che la restituzione dei doni, prevista dall’art. 80 cod. civ., non deriva dalla promessa, ma dal mancato seguito del matrimonio” Riportandosi alla giurisprudenza così richiamata il Tribunale di Roma rigettava le domande di risarcimento danni avanzate dal sig. M.C. nei confronti dei convenuti. In particolare nei confronti dell’ex fidanzata l’Organo giudicante riteneva non provata da parte dell’attore l’esistenza di una formale promessa di matrimonio, né di obbligazioni ad essa eventualmente correlate. Allo stesso modo riteneva non dimostrato il danno dallo stesso subito per la cessazione della breve convivenza more uxorio tra i fidanzati, non avendo il sig. M.C. provveduto ad allegare la presenza di comportamenti della sig.ra R.R. tali da integrare illecito endofamiliare. Parimenti, il Tribunale rigettava la domanda di condanna al risarcimento del danno a carico dei genitori della sig.ra R.R. per avere gli stessi provocato la frattura del vincolo sentimentale tra l’attore e la loro figlia per indeterminatezza delle condotte contestate, rimanendo tali addebiti sforniti di qualsivoglia sostegno probatorio. Diversamente veniva accolta la domanda riconvenzionale avanzata dall’ex fidanzata convenuta per i comportamenti vessatori e ingiuriosi del sig. M.C. successivi alla cessazione del fidanzamento con condanna dello stesso anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c. QUESTIONE: La questione in esame è la seguente: è giustificata la richiesta di risarcimento del danno, patrimoniale e non, avanzata nei confronti della propria ex fidanzata, per la rottura ingiustificata di un fidanzamento conclusosi anche per le continue ingerenze della futura suocera? LE SOLUZIONI GIURIDICHE: La disamina della sentenza in commento trae origine da un fondamento costituzionale qual è il matrimonio (art. 29 Cost.) dal quale l’ordinamento fa discendere in capo ai coniugi precisi doveri e relativi obblighi (art. 143 c.c.). Ebbene, data l’importanza del matrimonio e le conseguenze giuridiche che ne discendono il legislatore ha garantito alle parti la massima libertà di consenso sino al momento della celebrazione (art. 79 c.c.) prevedendo espressamente e tassativamente le eventuali conseguenze patrimoniali in caso di mancato adempimento di cui agli artt. 80 e 81 c.c. Orbene, prima di affrontare la questione giuridica sottesa alla pronuncia oggetto della presente disamina, è necessario preliminarmente dare contezza dei distinguo tra la promessa di matrimonio c.d. “semplice” e quella cosiddetta “solenne”. Per fidanzamento ufficiale, infatti, s’intende il mutamento di status tra due soggetti, i quali non ancora maturi per celebrare il matrimonio decidono di rendere ufficiale il proprio fidanzamento dinnanzi a parenti, amici e conoscenti rendendo una dichiarazione priva di formalità ed in assenza di precisi e peculiari requisiti con la quale dichiarano di volersi frequentare con il serio proposito di sposarsi una volta acquisita la maturazione necessaria per celebrare responsabilmente il matrimonio. In altre parole, il nostro ordinamento qualifica il fidanzamento ufficiale come mero fatto sociale, improduttivo di alcun effetto giuridico diretto. Tale qualificazione esclude, pertanto, che si possa parlare di un risarcimento del danno in senso proprio, in quanto la norma accorda al promesso esclusivamente la restituzione di eventuali doni dati in ragione della futura celebrazione del matrimonio al mancato seguito dello stesso per volontà dell’altro. In tal senso si pone il disposto di cui all’art. 80 c.c. che legittima, entro il termine decadenziale di un anno dal giorno del rifiuto di celebrare il matrimonio oppure dalla morte di uno dei promittenti, il diritto del promesso alla restituzioni dei doni ove l’altro interrompa il fidanzamento; intendendosi doni, quei beni che non potrebbero trovare altra giustificazione al di fuori del fidanzamento. Diversa dalla promessa di matrimonio semplice, è quella c.d. “solenne” intendendosi tale, ai sensi dell’art. 81 c.c., quella assoggettata a determinati requisiti e produttiva di una situazione di affidamento tra i promessi. Ebbene, i requisiti previsti ex lege attengono, prodromicamente alla capacità di agire dei promittenti, ciò presupposto, viene richiesta la reciprocità delle promesse dei nubendi ed, infine, non per importanza la formalità delle stesse, le quali devono essere fatte o per atto pubblico o per scrittura privata da persona maggiore d’età o dal minore su autorizzazione del Tribunale (art. 84 c.c. ove ricorrano gravi motivi e congiuntamente la maturità psico-fisica del minore) o ancora risultare dalla richiesta della pubblicazione del matrimonio. Orbene, la promessa che risponda a tali requisiti è considerata, ai sensi dell’art. 81 c.c. idonea ad ingenerare una situazione di affidamento nell’altro, pertanto ove uno dei nubendi, decidesse di rifiutare senza un giusto motivo le nozze, un siffatto contegno sarebbe lesivo della buona fede e pertanto fonte di possibile responsabilità risarcitoria limitatamente alle spese fatte ed alle obbligazioni contratte in vista della celebrazione. Pertanto, secondo le norme codicistiche solo l’ingiustificato rifiuto a contrarre matrimonio quando vi sia stata formale promessa di matrimonio giustifica il risarcimento, specificandone, però un regime restrittivo; lo stesso risarcimento è previsto anche nell’ipotesi in cui il giusto motivo del rifiuto trovi la propria giustificazione nella condotta colpevole di uno dei promessi. Si sottolinea inoltre che il dettato normativo prevede un termine di prescrizione del diritto risarcitorio in un solo anno a decorrere dal giorno del rifiuto della celebrazione del matrimonio. OSSERVAZIONI: La ratio sottesa al regime risarcitorio restrittivo e ai termini prescrizionali brevi di cui all’art. 81 c.c. è ravvisabile pertanto nella volontà del legislatore di garantire alle parti la completa libertà nel compimento di un atto personalissimo quale quello di contrarre il matrimonio. In tal senso la responsabilità risarcitoria si può configurare solo ove si sia ingenerato seriamente nell’altro promesso un’aspettativa di celebrazione del matrimonio, integrandosi in tale ipotesi la violazione di regole di correttezza e di auto responsabilità. Tale dettato normativo mostra, pertanto, un bilanciamento tra l’eccessiva pressione in cui sarebbe occorso il promittente ove in caso d’ingiustificato rifiuto lo stesso sarebbe chiamato a rispondere alla luce dei principi generali del sistema risarcitorio civilistico tipico (responsabilità contrattuale o extra-contrattuale) con la posizione del promittente che subisce il recesso ingiustificato il quale si troverebbe privo di qualsivoglia tutela se non gli venisse riconosciuto un risarcimento seppur limitato alle“ spese fatte e per le obbligazioni contratte a causa di quella promessa”. Si precisa che in tale previsione risarcitoria rientrano per giurisprudenza costante oltre alle spese strettamente connesse alla futura cerimonia vengono ricomprese anche tutte quelle assunte in ragione dell’instauranda comunione materiale e morale. Dal tenore letterale pertanto non sono invece risarcibili voci di danno patrimoniale diverse da queste e men che mai gli eventuali danni non patrimoniali andando la risarcibilità di tali diverse voci a ledere la stessa ratio dell’istituto. Un breve cenno deve essere speso anche alla luce di un’apertura progressiva del nostro sistema risarcitorio all’illecito endofamiliare, intendendosi tale la violazione di doveri familiari e genitoriali, ravvisabili a fronte di una condotta violativa di siffatti doveri (artt. 143 e 160 c.c.) ove non vi sia diversamente prevista una misura tipica dal diritto di famiglia; acquisizione recente e tuttora controversa nella giurisprudenza sia di merito che di legittimità ove in particolare si tratti di ipotesi di convivenza more uxorio. La questione attiene, pertanto, alla risarcibilità extracontrattuale nell’ambito dei rapporti familiari a fronte dell’ammissione in via generalizzata della tutela risarcitoria in ipotesi di lesione di diritti fondamentali della persona alla luce dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (Sezioni Unite Corte Suprema n. 26972 del 2008) Anche in ambito familiare, pertanto, si può parlare di risarcimento del danno non patrimoniale ove vengano poste in essere condotte che per la loro intrinseca gravità si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona (Cass. Sez I, 10 maggio 2005, n. 9801). Pertanto, l’interruzione della convivenza, quando come nella fattispecie considerata non sia accompagnata da condotte violente, ingiuriose, diffamatorie o che offendano beni costituzionalmente protetti, non è di per sé titolo per pretese risarcitorie. Approfondimenti giurisprudenziali: Sulla natura di obbligazione ex lege del dovere risarcitorio ex art. 81 c.c. : Cass., 15 aprile 2010, n. 9052; Trib. Bari, 28 settembre 2006. Sulla non risarcibilità del danno non patrimoniale : App. Milano, 25 giugno 1954; Trib. Milano, 29 marzo 1963; Trib. Roma, 27 luglio 1963; Trib. Bari, 28 settembre 2006; Trib. Torino, 29 gennaio 2009 .

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IL DANNO CATASTROFICO: la rivincita della personalizzazione del danno non patrimoniale sul metodo tabellare

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Di Stefano Parma, Avvocato Cass. Civ., Sez. III, sent., 26 giugno 2015, n. 13198. Criteri di liquidazione del danno non patrimoniale MASSIMA : In caso di incidente stradale che conduce alla morte non immediata della vittima, i Giudici, nella liquidazione del danno “ catastrofico ”, non possono rifarsi a meri criteri tabellari, ma devono prendere in considerazione ' l'enormità ' del pregiudizio subito dalla vittima deceduta , giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte. IL CASO : La presente pronuncia trae il proprio principio di diritto dal seguente caso concreto: il Sig. D.R.G. provocava alla guida dell’autovettura assicurata con l'assicurazione Abeille, un sinistro stradale, nel quale C.E. riportava lesioni personali gravissime alle quali, a distanza di tre giorni, seguiva la morte. Il C.A. e D.V.I. in qualità di genitori del defunto C.E. e le di lui nonne, convenivano in giudizio D.R.G. e la Abeille assicurazioni Spa al fine di ottenerne la condanna solidale al risarcimento dei danni, patrimoniali e non. La corte di Appello di Milano, quale giudice del rinvio chiamato a liquidare il danno biologico terminale maturato dalla vittima nei tre giorni di agonia precedenti al decesso, determinava il quantum in una somma “meramente simbolica”, ovvero, nella cifra di Euro 1.000 in luogo dei 100.000 richiesti dai ricorrenti a titolo di danno biologico terminale subito dal loro congiunto. A fronte dell ’esiguità della somma liquidata, gli eredi della vittima proponevano ricorso per Cassazione. La Suprema Corte, chiamata ad esprimersi sul punto, ribadiva in primis il principio di diritto portato dalla sentenza del 17 gennaio 2008, n. 870 (Presidente Preden Roberto, Relatore Durante Bruno) a tenore della quale: “ la lesione dell’integrità fisica con esito letale, intervenuta immediatamente o a breve distanza dall’evento lesivo, non è configurabile come danno biologico , giacché la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide su diverso bene giuridico della vita, a meno che non intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni subite dalla vittima del danno e la morte causata dalle stesse , nel qual caso, essendovi un’effettiva compromissione dell’integrità psico-fisica del soggetto che si protrae per la durata della vita, è configurabile un danno biologico risarcibile in capo al danneggiato, che si trasferisce agli eredi, i quali potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante “iure hereditatis ”. In altre parole, ove la morte segua immediatamente o quasi all’evento lesivo, la Corte esclude la configurabilità del danno biologico mancando il vulnus al bene giuridico salute, viceversa, ove intercorra un apprezzabile lasso di tempo, andandosi così a concretizzare la compromissione dell’integrità psico-fisica della vittima, è ammesso il diritto al risarcimento del danno e la conseguente trasmissibilità agli eredi (ex plurimis Cass. 21.7.2004, n. 13585; Cass. 21.2.2004, n. 3549). A fondamento di tale ragionamento si pone la considerazione, oramai consolidata in giurisprudenza, per la quale la salute e la vita rappresentano due beni giuridici distinti (cfr. Cass. 13.1.2006, n. 517). Queste le premesse alla questione giuridica oggetto della pronuncia. LA QUESTIONE : nel caso in cui al danno biologico terminale si possa sommare una componente di sofferenza psichica (ovvero il cd danno catastrofico), è possibile la sola meccanica applicazione dei criteri tabellari o è necessario fare una personalizzazione di tale danno vista l’enormità del pregiudizio che sebbene temporaneo, è massino nella sua entità ed intensità tanto da esitare nella morte? In motivazione, la sentenza oggetto della presente disamina stabilisce che: “in caso di sinistro mortale, che abbia determinato il decesso non immediato della vittima , al danno biologico terminale , consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell’evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi il danno catastrofico, ovvero una componente di sofferenza psichica , sicché, mentre nel primo caso la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea, nel secondo la natura peculiare del giudizio comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro , che tenga conto della “ enormità ” del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte (Cass. n. 23183/14; n. 18163/07; n. 1877/06)” LE SOLUZIONI GIURIDICHE : Prima di affrontare la tematica che ha costituito il fulcro della pronuncia oggetto della presente disamina è necessario, per completezza espositiva e alla luce del richiamo, in incipit , della sentenza Cassazione Civile del 17 gennaio 2008, n. 870, dare contezza del vivace e corposo dibattito che si è consumato attorno alla risarcibilità del danno da perdita della vita. Orbene, ad oggi, anche a seguito della recentissima sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 22 luglio 2015, n. 15350 sembra ormai granitico l’orientamento giurisprudenziale che nega la risarcibilità del c.d. danno tanatologico o da morte immediata, che proprio per l’istantaneità del decesso e il bene giuridico tutelato, ovvero la vita, ha comportato i necessari distinguo da tipologie che, prima facie affini, venivano diversamente tutelate dalla Suprema Corte e delle quali si ammette, oggi, la tutela risarcitoria: il danno biologico terminale e il danno catastrofico. Ebbene, per danno biologico terminale s’intende il pregiudizio alla salute patito dalla vittima di un illecito nel periodo che separa il momento della lesione da quello del decesso ponendo a fondamento della richiesta di ristoro per i danni subiti che la vittima sopravviva per un considerevole lasso si tempo, ad un evento poi rilevatosi mortale, in quanto poche ore o persino mezzora sono tempistiche talmente brevi da ritenersi inidonee a consentire una scissione logica tra il momento della lesione alla salute e il vulnus inferto al bene vita. In tale lasso “ considerevole ” di tempo, la vittima deve aver sofferto una lesione della propria integrità psicofisica medicalmente accertabile e pertanto liquidabile alla stregua dei criteri adottati per la liquidazione del danno biologico vero e proprio (in tal senso Cass. Sez. III, 13 dicembre 2012, n. 22896). La risarcibilità di tale pregiudizio, ormai pacificamente ammessa fa sorgere in capo al soggetto leso, poi defunto, un diritto al risarcimento trasmissibile agli eredi che, consistendo in un danno biologico da invalidità temporanea totale, è liquidabile sulla base delle relative tabelle. Tali parametri tabellari, essendo prefissati in astratto, hanno il vantaggio di garantire, da un lato, la prevedibilità della liquidazione del danno mentre dall’altro il difetto di fornire solo un’uguaglianza apparente in spregio al principio di diritto che fissa la necessaria tendenza ad una quantificazione del danno non patrimoniale che tenda al ristoro integrale del nocumento patito. Ciò detto, per evitare il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega (come sopra evidenziato mediante la recentissima sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite del 22 luglio 2015) la risarcibilità del danno tanatologico, ovvero, del pregiudizio al diritto alla vita sofferto dalla vittima nel caso di morte immediata, si ammette il ristoro del c.d. danno catastrofico , intendendosi tale il danno che, per via della peculiare intensità, è detto catastrofico, in quanto posto a carico della psiche della vittima che lucidamente attende in agonia la propria fine . In altre parole viene in rilievo ai fini risarcitori una sofferenza di elevata intensità, forza e drammaticità da involgere ed impattare sulla psiche della vittima. Ciò detto, entriamo nel cuore della questione avendo presenti due considerazioni, ovvero, l’impianto teorico elaborato in giurisprudenza in tema di danno biologico e l’impianto di tutela risarcitoria civile come accolto dal nostro ordinamento, consistente nella finalità prettamente riparatoria di un vulnus ingiusto, subito e non invece un portata punitiva-sanzionatoria di un comportamento colpevole. Ebbene, ove al danno biologico terminale si sommi il c.d. danno catastrofico, ovvero quella componente di sofferenza psichica (che è idonea ad incidere sulla psiche della vittima la quale lucidamente attende consapevolmente la propria morte), è massimo nella sua intensità ed entità, proprio per la sua natura, strettamente soggettiva e personale, non può, a parere della Suprema Corte, essere ricondotta alla meccanica applicazione dei criteri tabellari, i quali per quanto dettagliati, sono predisposti per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all’evento dannoso (Cass. Civ., Sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23183). Tale peculiare sofferenza impone, a parere della Suprema Corte, modalità di liquidazione del danno impossibili da ricondurre a dati ripetibili e costanti proprio in quanto investono la psiche della vittima e per loro natura inidonei ad essere imbrigliati in sistemi tabellari. Tali considerazioni impongono pertanto una personalizzazione del danno, elevatosi oggi dopo le Sentenze San Martino del 2008, a “ faro ” della quantificazione del danno non patrimoniale, a ciò aggiungendo la Suprema Corte, nella pronuncia in oggetto, la necessità di liquidare l’ulteriore danno catastrofico, per le sue peculiarità e soggettività, sulla base di un criterio equitativo puro la cui applicazione sia volta a cogliere e risarcire a dovere l’” enormità ” del nocumento patito dalla vittima che consapevole attende in agonia la propria morte. OSSERVAZIONI: Per una corretta liquidazione del danno catastrofico, ove accertato, la Suprema Corte individua, nella sentenza in commento, il c.d. criterio equitativo puro intendendosi tale un “non criterio”, in quanto, il giudice nel liquidare il danno sarà chiamato ad affidarsi al suo buon senso, in relazione alla valutazione delle peculiarità del caso concreto senza essere vincolato a parametri predeterminati. Siffatta metodologia, però, se da un lato presenta certamente dei lati positivi quali: a) la personalizzazione del danno nel modo più appropriato, b) la valutazione di tutte le particolarità del caso concreto non costringendo a calcoli o complesse operazioni, dall’altro, però, siffatta discrezionalità dell’organo giudicante potrebbe far temere in un arbitrio del giudice e nella mancanza di uniformità di trattamento. A bilanciare i pro e i contro di tale criterio si sottolinea però il potere-dovere del giudice di fornire in sentenza un’attenta e dettagliata motivazione in ordine ai criteri della scelta, ai criteri di personalizzazione, dell’iter logico seguito ai fini della determinazione del quantum . La ratio della pronuncia è, pertanto, ravvisabile nella particolare soggettività e personalità del danno subito dalla vittima, nonché, nella precisa volontà di garantire alla stessa (e ai suoi eredi), un risarcimento dell’effettivo nocumento patito che, se accertato, deve essere tutt’altro che irrisorio o meramente simbolico, esito quest’ultimo che certamente si verificherebbe ove ad essere applicato fosse esclusivamente il metodo tabellare. Orbene, la liquidazione del danno catastrofico che deve necessariamente tenere conto della “ enormità ” del pregiudizio subito dalla vittima con applicazione di un criterio cd “equitativo puro” che determini un giusto ed integrale ristoro dei panni patiti. GUIDA ALL’APPROFONDIMENTO: - Marco Rossetti, Il Danno non patrimoniale, Giuffrè, 2010, 244 ss. - Enrico Pedoja, Francesco Pravato, La sofferenza “psicofisica” nel danno alla persona, 2013, 73 ss.

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