Vincenzo De Crescenzo

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Il nuovo processo di separazione e divorzio a domanda congiunta dopo la riforma cartabia

Scritto da: Vincenzo De Crescenzo - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

IL NUOVO PROCESSO DI SEPARAZIONE E DIVORZIO A DOMANDA CONGIUNTA DOPO LA RIFORMA CARTABIA

 

Il processo di separazione personale e divorzio (cessazione degli effetti civili o scioglimento del matrimonio) è stato, recentemente, rivoluzionato dalla riforma del diritto di famiglia attuata dalla cosiddetta riforma Cartabia (D.lgs, n. 149/2022), con l'obiettivo principale di semplificare e snellire la procedura, eliminando la fase presidenziale e centralizzando la trattazione del giudizio nelle mani del giudice relatore. La riforma, infatti, prevede una nuova disciplina, non solo per il processo contenzioso di separazione e divorzio, ma anche per quello consensuale.

In particolare, ha introdotto una nuova disposizione (art. 473 bis 51 c.p.c.) che stabilisce una nuova disciplina processuale su domanda congiunta, riservata non solo alla separazione e al divorzio, bensì anche ad altre situazioni come lo scioglimento dell'unione civile, la regolamentazione dell'esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio e la modifica delle condizioni delle procedure precedenti.

La domanda congiunta deve essere presentata mediante ricorso (con l’assistenza, non più facoltativa, ma obbligatoria di uno o più avvocati), dinanzi al Tribunale  del luogo di residenza o domicilio di una delle due parti, indifferentemente, anche se sono coinvolti figli minori, in deroga alla regola generale per cui è sempre competente il tribunale del luogo in cui il minore ha la residenza abituale.

Un’altra rilevante novità introdotta dalla riforma Cartabia prevede che il ricorso congiunto debba essere sottoscritto, a conferma della loro volontà conciliativa, anche dalle parti che, invece, in precedenza, essendo sufficiente la sola firma dell'avvocato, si limitavano a sottoscrivere la procura alle liti e, successivamente, in udienza, le condizioni di separazione concordate. Comunque, considerato l’obbligo per gli avvocati del deposito telematico anche dell’atto introduttivo del giudizio (ex art. 196 quater delle disposizioni di attuazione del c.p.c., introdotto, anch’esso, dalla riforma Cartabia) e che, per lo più, i privati non dispongono di firma digitale, il ricorso da depositare, di fatto, potrà essere ugualmente sottoscritto (digitalmente) dal solo avvocato, allegando, quale documento e non come atto principale, una copia del ricorso stesso, con la firma anche cartacea delle parti.

L’art. 473 bis 51 c.p.c. stabilisce, inoltre, gli elementi obbligatori del ricorso, che deve contenere, in particolare, oltre alle informazioni sui dati personali delle parti, compresi i figli comuni se minori, le indicazioni sulle loro disponibilità reddituali e patrimoniali degli ultimi tre anni e sugli oneri a proprio carico (come il pagamento del mutuo o del canone di locazione), le condizioni riguardanti i figli e i rapporti economici (come il contributo al loro mantenimento). La norma prevede, ancora, la facoltà delle parti di regolmentare con il ricorso anche i reciproci rapporti patrimoniali.

In presenza di minori, il ricorso dovrebbe includere anche un piano genitoriale, come nei procedimenti giudiziali contenziosi (ex art. 473 bis 12, comma 3°), consistente in un documento che stabilisce, dettagliatamente, gli impegni e le attività quotidiane dei figli, inclusi aspetti come la scuola, l'educazione, le attività extrascolastiche, le amicizie e le vacanze. Il condizionale è ancora d’obbligo, poichè la normativa a riguardo non sembra del tutto chiara, in attesa delle prime pronunce giurisprudenziali, benchè l’orientamento prevalente sembri ormai favorevole all’obbligo del piano genitoriale non solo per separazioni e divorzi giudiziali, ma anche per le domande consensuali e congiunte.

La riforma Cartabia, inoltre, consente alle parti di sottrarsi all’obbligo di comparire fisicamente dinanzi il Tribunale, avvalendosi della facoltà di depositare delle note scritte (contenenti, ai sensi del nuovo art. 127-ter c.p.c., solo le istanze e le conclusioni delle parti), in sostituzuine dell’udienza di comparizione, fissata in seguito al deposito del ricorso congiunto, a cui devono rinunciare espressamente nel ricorso stesso e dichiarare di non volersi riconciliare. In ogni caso, se ritiene necessario modificare le condizioni proposte, poichè in contrasto con gli interessi dei figli, o se necessita di ulteriori chiarimenti, il giudice ha sempre la facoltà di convocare le parti, invitandole, eventualmente, ad integrare quanto allegato al ricorso introduttivo, depositando la documentazione di cui all’art. 473-bis 12, comma 3°, attestante la titolarità di diritti reali su beni immobili e beni mobili registrati, di eventuali quote sociali e gli estratti conto dei rapporti bancari e finanziari relativi agli ultimi tre anni.

Ricevuto, quindi, il parere favorevole del pubblico ministero (a cui sono stati trasmessi gli atti), sentite le parti e verificata, comunque, l’impossibilità di una riconciliazione, il giudice istruttore rimette la causa al collegio per la decisione. La procedura a domanda congiunta, infatti, si conclude con una sentenza di competenza del Tribunale in composizione collegiale, che può decidere di omologare o prendere atto degli accordi tra le parti, se siano li ritiene contrari agli interessi dei figli, oppure, convocare le parti per chiederne una modifica e, in mancanza di accordo, rigettare la domanda congiunta.

Accenniamo, brevemente, anche alla facoltà delle parti, introdotta dalla riforma, di proporre, contestualmente, nello stesso atto introduttivo, sia domanda di separazione che di divorzio, senza dover attendere che trascorrano, per lo meno, sei mesi tra l’una e l’altra, come previto dalla previgente disciplina. Tale facoltà (che prevede l’indicazione nel ricorso delle condizioni relative sia alla separazione che al divorzio e la definizione del processo con sentenza di divorzio successiva al passaggio in giudicato di quella sulla separazione e al decorso del termine a tal fine previsto dalla legge) è introdotta, invero, dall’art. 473-bis 49 c.p.c. (rubricato “Cumulo di domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio”), che prevede la possibilità del cumulo delle domande solo nel procedimento contenzioso di separazione personale dei coniugi, senza fare alcun riferimento espresso a quello su domanda congiunta di cui all’art. 473 bis 51 c.p.c.. Quest’ultimo, a sua volta, nulla disponendo in merito, neanche richiama il primo in alcun modo, pertanto, ad oggi, esistono ancora dubbi interpretrativi sulla possibilità o meno che il cumulo delle domande possa applicarsi anche per la separazione o il divorzio su procedura congiunta, che la dottrina e giurisprudenza in materia, ancora non univoca, dovranno, certamente, risolvere a breve.

Infine, smpre ai sensi dell’art. 473 bis 51 c.p.c., comma 6°, quando la domanda congiunta riguarda la modifica delle condizioni relative all'esercizio della responsabilità genitoriale e ai contributi economici per i figli o le parti, il Tribunale nomina un relatore che, ricevuto il parere del pubblico ministero, riferisce in camera di consiglio. Può, inoltre, convocare personalmente le parti, se lo richiedono o se sono necessari chiarimenti sulle nuove condizioni proposte.

San Salvo, 31 luglio 2023

Avv. Vincenzo de Crescenzo


Avv. Vincenzo De Crescenzo - Avvocato civilista

Mi chiamo Vincenzo de Crescenzo, lavoro come avvocato da oltre dieci anni e mi sono sempre occupato di diritto civile (obbligazioni e contratti, proprietà, famiglia e sucessioni), commerciale, lavoro e previdenza, conseguendo anche vari titoli accademici di specializzazione nel settore. I miei clienti sono sia privati che aziende. Professionalità e trasparenza sono i valori su cui baso un rapporto strettamente fiduciario con i miei assistiti, ricercando sempre soluzioni che garantiscano il miglior risultato, tempi rapidi ed un prezzo equo. Posso assicurare ampia tutela su tutto il territorio nazionale, anche in videochiamata.




Vincenzo De Crescenzo

Esperienza


Diritto del lavoro

Nel 2010 ho conseguito la Specializzazione Universitaria in “Discipline del lavoro, sindacali e della sicurezza sociale” e da vari anni collaboro con alcune organizazioni sindacali. Mi occupo di impiego pubblico e privato, procedimenti disciplinari, licenziamenti, demansionamento e/o mobbing, differenze retributive, trasferimenti e/o mobilità, malattie e infortuni, contratti di appalto e concorsi pubblici.


Diritto civile

Mi sono sempre occupato di diritto civile, sin dagli anni della formazione e collaborazione presso altri studi legali, trattando pratiche relative al recupero crediti, esecuzioni mobiliari ed immobiliari, sinistri stradali, locazioni, sfratti, proprietà, condominio, e molti altri casi tipici. Il diritto civile e privato, in genere, rappresenta, quindi, il settore in cui ho maggiormente lavorato, maturando una particolare conoscenza ed attitudine.


Diritto di famiglia

Nel corso degli anni, ho maturato una importante esperienza nel diritto di famiglia, che è quel ramo del diritto privato afferente ai rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi, ai rapporti di filiazione, parentela e more uxorio. In particolare, mi occupo di separazione e divorzio, obblighi alimentari e di mantenimento, modifica delle condizioni di separazione o divorzio, decadenza dalla responsabilità genitoriale, interdizione e inabilitazione. Le liti familiari sono, in genere, molto delicate e trovare la soluzione più adatta richiede particolare sensibilità ed attitudine che i miei assistiti spesso mi riconoscono.


Altre categorie:

Diritto commerciale e societario, Mediazione, Mobbing, Sicurezza ed infortuni sul lavoro, Licenziamento, Previdenza, Separazione, Divorzio, Matrimonio, Recupero crediti, Pignoramento, Contratti, Locazioni, Sfratto, Fallimento e proc. concorsuali, Malasanità e responsabilità medica, Eredità e successioni, Diritto immobiliare, Edilizia ed urbanistica, Diritto condominiale, Incidenti stradali, Arbitrato, Negoziazione assistita, Incapacità giuridica, Domiciliazioni, Risarcimento danni.


Referenze

Titolo professionale

Diploma di Master di II livello in “Discipline del lavoro, sindacali e della sicurezza sociale”,

Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” - 3/2010

Master Universitario di specializzazione sul diritto del lavoro e della previdenza, di durata annuale, con frequenza obbligatoria e prova conclusiva scritta e orale.

Pubblicazione legale

Cenni sull’obbligo del green pass per i lavoratori nel settore privato

Pubblicato su IUSTLAB

In ottemperanza a quanto disposto dal Decreto Legge del 21 settembre 2021 n. 127, che ha introdotto l’obbligo di Green Pass nei luoghi di lavoro, a decorrere dal 15 ottobre 2021 e fino al termine dello stato di emergenza, al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nel luogo di lavoro, prevenendo la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2, tutti i soggetti che svolgono, a qualsiasi titolo, un’attività lavorativa nel settore privato, anche se prestano la propria attività sulla base di contratti esterni, devono munirsi di Green Pass (la certificazione verde), con l’obbligo di esibirlo a semplice richiesta da parte del proprio datore di lavoro o del datore di lavoro nei cui confronti l’attività viene resa, che ha l’obbligo di accertarsi che le disposizioni sul Green Pass vengano effettivamente rispettate nei propri luoghi di lavoro. Per ottenere il Green Pass, con la possibilità, quindi, di accedere ai luoghi di lavoro, occorre provare di essersi vaccinati contro il SARS-COV2 o di essere guariti dall’infezione o di aver effettuato un test molecolare o antigenico rapido con risultato negativo al virus. L’obbligo di certificazione verde viene meno solo e quando il lavoratore è in possesso di apposita certificazione di esenzione alla vaccinazione anti SARS-COV-2, rilasciata in presenza di specifiche e documentate condizioni cliniche, per cui la vaccinazione risulti controindicata, anche solo temporaneamente. In conseguenza dell’obbligo di Green Pass nei luoghi di lavoro, il datore di lavoro ha, innanzitutto, il dovere, inderogabile, di predisporre, anche se con una certa libertà d’azione, le necessarie misure tecniche ed organizzative per effettuare i relativi controlli, delegando formalmente gli incaricati ai controlli stessi, possibilmente prima dell’ingresso nel luogo di lavoro, anche a campione, purché effettuati ogni giorno su almeno il 20% dei dipendenti. In merito, invece, al trattamento sanzionatorio, i lavoratori nel settore privato, nel caso in cui comunicassero di non essere in possesso della certificazione verde COVID-19 o risultassero privi della predetta certificazione al momento dell’accesso al luogo di lavoro, sarebbero considerati assenti ingiustificati fino alla presentazione della predetta certificazione. Non avrebbero conseguenze disciplinari, né sarebbero soggetti a sospensione e, soprattutto, avrebbero, comunque, diritto alla conservazione del rapporto di lavoro, ma senza retribuzione né altro compenso. I lavoratori in aziende con meno di 15 dipendenti, dopo il quinto giorno di assenza ingiustificata, in quanto sprovvisti di Green Pass, sarebbero sospesi e il datore di lavoro potrebbe sostituirli per tutta la durata del contratto di sostituzione che, tuttavia, non può essere superiore a 10 giorni, rinnovabili per una sola volta. In ogni caso, i lavoratori che, in elusione dei controlli, fossero trovati privi di Green Pass, sarebbero passibili di sanzione da 600 a 1.500 euro. I datori di lavoro, invece, qualora le autorità preposte riscontrassero nei luoghi di lavoro la presenza di lavoratori sprovvisti di Green Pass, rischierebbero una sanzione da 400 a 1000 euro, salvo dimostrare di aver effettuato i controlli, comunque, nel rispetto di adeguati modelli organizzativi come previsto dal decreto legge 127/2021. In ogni caso, si tratta di sanzioni amministrative di competenza del Prefetto, a cui il Decreto Green Pass affida il compito di accertare le violazioni di cui ha ricevuto comunicazione da parte del datore di lavoro o del suo delegato, tenuti a redigere una sorta di verbale di constatazione dell’illecito rilevato, con tutte le informazioni necessarie per consentire l’applicazione delle previste sanzioni. Il Prefetto, dunque, è l’autorità incaricata di contestare, mediante notifica, l’illecito rilevato dall’accertamento ad opera del datore di lavoro o del suo delegato, con irrogazione delle relative sanzioni. Il datore di Lavoro è, invece, responsabile della predisposizione e attuazione della procedura e della formale designazione dell’incaricato al controllo che, in quanto responsabile dell’attività di controllo, rilevata la violazione, deve comunicare al datore di lavoro l’inadempienza senza copiare, registrare o conservare alcun dato relativo al soggetto verificato, se non i soli dati anagrafici identificativi ai fini della trasmissione del verbale al Prefetto. Riguardo la privacy, infatti, il Garante ha opportunamente specificato che, sia in caso di controllo manuale (per mezzo di incaricato) che in caso di apparecchiatura elettronica (specifiche applicazioni), “l’attività di verifica non dovrà comportare la raccolta di dati dell’interessato in qualunque forma, ad eccezione di quelli strettamente necessari, in ambito lavorativo, all’applicazione delle misure derivanti dal mancato possesso della certificazione. Il sistema utilizzato per la verifica del green pass non dovrà conservare il QR code delle certificazioni verdi sottoposte a verifica, né estrarre, consultare registrare o comunque trattare per altre finalità le informazioni rilevate”. San Salvo, 8 novembre 2021. Avv. Vincenzo de Crescenzo

Pubblicazione legale

Assegnazione temporanea dipendenti pubblici

Pubblicato su IUSTLAB

ASSEGNAZIONE TEMPORANEA DEI DIPENDENTI PUBBLICI GENITORI DI UN BAMBINO FINO A TRE ANNI L’art. 42 bis della legge 26 marzo 2001 n. 151 (recante il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità), perseguendo l’esigenza di tutelare l’istituto della famiglia, nonché la tutela del fanciullo, alla stregua dei principi costituzionali e comunitari in materia, disciplina, in generale, il “riavvicinamento familiare” e cioè l’assegnazione temporanea (per un periodo non superiore a tre anni) dei lavoratori dipendenti dalle Amministrazioni Pubbliche ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa. Prevede, quindi, per i dipendenti pubblici, genitori di un bambino fino a tre anni, una particolare ed ulteriore forma di mobilità, volta a ricongiungere i genitori del bambino, favorendo concretamente la loro presenza durante i primi anni di vita del proprio figlio, che rappresentano la fase più delicata per la sua formazione. Vuole così predisporre una tutela forte a presidio di valori fondamentali e costituzionalmente garantiti inerenti la famiglia (art. 29, 30, 31 e 37 Cost.), ed in particolare la cura dei figli minori nei primi anni di vita. L’applicazione del beneficio presuppone, inoltre, sotto il profilo oggettivo, la vacanza e la disponibilità di posti di corrispondente posizione retributiva, nonché l’assenso delle amministrazioni di provenienza e di destinazione, allo scopo di contemperare i diritti su indicati, appartenenti al singolo, con le esigenze di buon andamento ed organizzazione della Pubblica Amministrazione, evitando, così, che i servizi e la funzionalità degli uffici possano risultare compromessi dalle richieste del dipendente, seppur legittime. La ratio della norma di cui all’art. 42-bis è, quindi, quella di intervenire in favore della famiglia e del fanciullo con un provvedimento di temporanea assegnazione del dipendente ad altra sede, salvaguardando, peraltro, contestualmente, le esigenze organizzative e funzionali dell’amministrazione pubblica, chiamata a verificare, in concreto, che la concessione del beneficio non rechi pregiudizio per la stessa, attraverso una valutazione comparativa delle situazioni organizzative sia della sede di servizio del dipendente che di quella richiesta con l’istanza di assegnazione. Tuttavia, considerati i valori fondamentali e costituzionalmente garantiti della famiglia e del fanciullo, il necessario assenso da parte delle amministrazioni di provenienza e di destinazione, non costituisce un mero potere discrezionale, svincolato dal controllo giurisdizionale e da qualsiasi sindacato, ma una facoltà che non può essere esercitata decidendo in modo arbitrario e strumentale a danno dei suddetti diritti costituzionali. Infatti, a tutela della posizione del dipendente contro provvedimenti, appunto, arbitrari e strumentali, la norma in questione prevede, espressamente, l’obbligo dell’Amministrazione di motivare adeguatamente l’eventuale diniego, in modo tale che, potendo valutare la congruenza e la consistenza delle ragioni addotte, il dipendente possa verificare e, eventualmente, contestare in sede giurisdizionale, la correttezza e la legittimità del provvedimento. Tale obbligo di motivazione consente il necessario equilibrio tra interesse e diritti (costituzionalmente garantiti) del richiedente da un lato e arbitraria discrezione amministrativa dall’altro. In sintonia con quanto precede, sia la giurisprudenza che la dottrina di riferimento hanno ormai chiarito che, qualora sussistano i requisiti oggettivi citati dalla legge, le amministrazioni coinvolte hanno l’obbligo di dare il proprio assenso all’istanza di assegnazione del dipendente (Tribunale Reggio Emilia, 09 novembre 2005: “La disciplina dell’art. 42 bis D. Lgs. n. 151/2001(…), in presenza degli specifici requisiti, configura un diritto soggettivo in capo allo stesso lavoratore richiedente e non una mera facoltà in capo all’amministrazione di concedere discrezionalmente il trasferimento di sede, alla luce del principio di completezza dell’ordinamento giuridico che non ammette vuoti normativi ne’ norme inutili o ridondanti. (…): la carenza di una congrua motivazione nel diniego al trasferimento temporaneo, consente quindi al giudice di disapplicare gli atti amministrativi posti in essere dall’amministrazione di destinazione, oltre che di ordinare l’invocata temporanea assegnazione”). Inoltre, è indiscusso l’obbligo dell’Amministrazione di accogliere, comunque, la richiesta di assegnazione provvisoria, salvo il caso concreto dell’effettivo ed immediato disagio per l’ufficio interessato, che deve essere riportato nella motivazione, indicando esattamente gli specifici ed oggettivi, nonché prevalenti, impedimenti alla richiesta di assegnazione (Trib. Novara, 29 giugno 2009: “(…) la norma impome all’amministrazione non solo di comunicare il proprio dissenso, ma anche, nell’utilizzo del suo potere discrezionale nell’esame della domanda del richiedente, di analizzare con particolare attenzione la situazione dell’ufficio di provenienza, dandone specificatamente conto nella motivazione, al fine di consentire la valutazione se ed in che termini l’accoglimento della domanda porterebbe all’ufficio di appartenenza un concreto, effettivo e irrimediabile disagio, tale da indurre a ritenere che esigenze di servizio debbano prevalere sulla tutela della maternità, costituzionalmente sancita, e dell’unità familiare, previste dalla norma di cui è invocata l’applicazione”). Considerata, infatti, la natura costituzionale dei valori fondamentali della famiglia e del fanciullo tutelati dal citato art. 42 bis, il diniego dell’istanza deve, necessariamente, ritenersi illegittimo in mancanza di un effettivo e irrimediabile disagio per l’amministrazione. Inoltre, deve sempre essere adeguatamente motivato e dimostrato in modo preciso e concreto, affinchè possa valutarsi l’esistenza di un concreto ed effettivo disagio per l’amministrazione, a causa dell’accoglimento della domanda, tale da indurre a ritenere che esigenze di servizio debbano prevalere sulla tutela dei diritti costituzionalmente garantiti della famiglia e del fanciullo. Anche la Suprema Corte ha confermato che il diniego da parte dell’Amministrazione può essere giustificato solo quando il distaccamento di un dipendente comporta una lesione consistente delle proprie esigenze economiche, produttive ed organizzative, tale che, nel contemperamento degli interessi in gioco, la tutela dell’integrità dei figli e della famiglia non risulti prioritaria e prevalente rispetto al contributo lavorativo fornito dal dipendente (Cass. Sez. Un.. sent. n. 16102 del 9.07.2009). Avv. Vincenzo de Crescenzo

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