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La responsabilitÀ penale e civile delle r.s.a. A seguito dell’emergenza da covid-19

Scritto da: Walter Massara - Pubblicato su IUSTLAB




Pubblicazione legale:

1. Nozione.
Le residenze sanitarie assistenziali sono strutture sanitarie residenziali gestite da soggetti pubblici o privati, organizzate per nuclei e finalizzate a fornire ospitalità, prestazioni sanitarie, assistenziali, di recupero funzionale e di inserimento sociale nonché di prevenzione dell’aggravamento del danno funzionale per patologie croniche nei confronti di persone non autosufficienti, non assistibili a domicilio e che non necessitano di ricovero in strutture di tipo ospedaliero o nei centri di riabilitazione.
Nelle R.S.A., che vengono gestite dalle aziende sanitarie locali o dalle unità di cura con esse convenzionate, sono ospitate:
a) persone non più in età evolutiva portatrici di alterazioni morbose stabilizzate o morfo-funzionali, che hanno superato la fase acuta della malattia e per le quali è stato compiuto un adeguato trattamento terapeutico o di riabilitazione di tipo intensivo, ma che abbisognano di trattamenti terapeutici e riabilitativi protratti nel tempo;
b) soggetti anziani che presentano patologie cronico-degenerative, ma che non necessitano di assistenza ospedaliera, ivi compresi i soggetti affetti da patologie psico-geriatriche (demenza senile);
c) persone adulte colpite da handicap di natura fisica, psichica o sensoriale in condizioni di non autosufficienza o affette da malattie croniche;
d) soggetti adulti portatori di disturbi psichiatrici in condizione di non autosufficienza o affetti da malattie croniche, per le quali sia stata esclusa la possibilità di utilizzare altre soluzioni terapeutico-assistenziali.Le R.S.A., al fine di assicurare alle persone ospiti le prestazioni più adeguate in rapporto alle loro condizioni di disabilità e di dipendenza, sono generalmente strutturate, in termini organizzativi e di dotazione di personale, in funzione delle seguenti aree di intervento, corrispondenti alle diverse aree problematiche e di bisogno:
a) area della senescenza, riferita a persone anziane con temporanea, totale o prevalente limitazione della propria autosufficienza, con particolare riguardo alle persone affette da malattie croniche;
b) area della disabilità, riferita a persone portatrici di handicap funzionale, io condizioni di notevole dipendenza, anche affette da malattie croniche;
c) area del disagio mentale riferita a soggetti portatori di disturbi psichici, in condizioni di notevole dipendenza, anche affette da malattie croniche.
2. Inquadramento della questione nel quadro dell’emergenza da Covid-19.
Le strutture residenziali per anziani rappresentano contesti particolarmente esposti al rischio di infezione da coronavirus SARS-Cov-2, poiché gli anziani ospiti sono generalmente più vulnerabili alle malattie infettive rispetto alla popolazione generale per la concomitante presenza di fattori di rischio rappresentate dall’età e dalla probabile comorbilità pregressa.
Gli ospiti delle Rsa sono vulnerabili all’infezione Covid-19 perché, oltre a presentare patologie di base, acute o croniche, spesso multiple, hanno stretti contatti con altre persone (i loro caregiver) e gli altri ospiti e trascorrono pressochè integralmente il loro tempo in un ambiente chiuso con pazienti parimenti vulnerabili. Inoltre, la presenza di ospiti con deterioramento cognitivo può rendere difficile ai sanitari l’applicazione delle precauzioni di contatto e di isolamento.
Ed ancora, la facilità di trasmissione agli operatori (e dal personale agli stessi ospiti) nelle strutture residenziali per anziani è esacerbata dalla necessità di uno stretto contatto fisico con gli ospiti durante le attività di igiene personale, mobilizzazione, aiuto nell’alimentazione. Infine, per i familiari i gesti di affetto e la consueta vicinanza fisica possono favorire la trasmissione dell’infezione dagli uni agli altri; per i volontari le attività abitualmente loro affidate quali fare compagnia, aiutare nella somministrazione dei pasti possono ugualmente favorire la trasmissione dell’infezione interpersonale.
Già dal mese di Febbraio 2020, le strutture anzidette avrebbero dovuto approntare le dovute misure preventive; più specificamente, preparare uno specifico piano d’azione onde evitare o quantomeno attenuare la trasmissione del Covid dagli infetti, garantendo la protezione dei pazienti e degli operatori sanitari ivi operanti. In altri termini, un piano volto a prevenire e controllare l’infezione, a formare ed addestrare il personale ed ovviamente a proteggere operatori ed ospiti (ad esempio, tracciando ed isolando i contagiati, sanificando frequentemente le strutture e suddividendole in aree operative separate - un nucleo o reparto, un piano, utilizzando anche barriere fisiche mobili - per evitare che gli ospiti si spostassero al di fuori dell’area ad essi riservata).
Va valutato se tale piano preventivo sia stato redatto ed osservato, alla luce del fatto che nelle Rsa italiane, dall’inizio dell’epidemia sono deceduti oltre settemila pazienti, il 10% circa con tampone positivo, ma la metà dei quali con sintomi riconducibili all’infezione da SARS-Cov-2.
3. Le fattispecie di reato astrattamente configurabili.
Qualsiasi valutazione prognostica in ordine alla natura delle responsabilità che potrebbero essere configurate pecca inevitabilmente di astrattezza, in quanto svincolata dal confronto con il caso concreto e le sue specificità. A valle di questa doverosa precisazione, si può ragionevolmente confidare nel fatto che i terreni d’elezione delle possibili responsabilità in discorso siano quelli del titolo colposo e della causalità omissiva. Provando a semplificare, nei casi di decesso o lesioni da Covid-19, l’infezione agirà come causa primaria dell’evento, a fronte del quale eventuali responsabilità potrebbero essere ipotizzate con riferimento all’omissione di condotte adeguate a prevenirlo; omissione caratterizzata da imprudenza, negligenza o imperizia (colpa generica), ovvero dalla violazione di specifici codici comportamentali o norme cautelari. Si tratta, in altre parole, del terreno tipico della colpa medica che trova nell’omicidio colposo e nelle lesioni colpose, e dunque nel vigente art. 590 sexies c.p., le proprie fattispecie di riferimento.
In questa prospettiva qualche dubbio può sorgere rispetto all’individuazione dell’evento nel caso di lesioni, ovvero nel caso in cui il decorso dell’infezione non conduca ad esiti infausti. Questo perché, a seconda della prospettiva, l’evento lesioni potrebbe essere identificato alternativamente:
- col periodo di degenza procurato dalla malattia (lesione consistente nella malattia per tutta la durata della degenza, grave o lieve a seconda della medesima);
- con le conseguenze post-infezione senza esito infausto (conseguenze queste ultime che scontano, al momento, un importante e forse decisivo deficit di informazioni disponibili, nel senso che non si conosce se e quali effetti negativi sulla salute del paziente possano residuare in seguito all’infezione da COVID-19 superata);
- con la contrazione stessa dell’infezione da parte della persona offesa, sempre che in ipotesi sia dipesa da una qualche condotta omissiva, come – ad esempio – la mancata predisposizione o il mancato utilizzo di dispositivi di protezione individuale.
In quest’ultimo caso – lesione consistente nella contrazione stessa dell’infezione, in ipotesi dovuta al mancato utilizzo di presidi adeguati – occorre tuttavia osservare che il confine con la diversa e più grave fattispecie di epidemia colposa di cui all’art. 452 c.p. appare fin troppo labile, a meno che non si proietti su un terreno meramente quantitativo, ovvero del numero delle infezioni causate dalla negligenza nell’utilizzo di strumenti di protezione: la trasmissione individuale come lesione colposa; la trasmissione ad un numero più ampio di persone come equivalente della diffusione colposa di agenti patogeni rilevante alla stregua dell’epidemia colposa ex art. 452 c.p. Chiaramente l’interazione tra queste diverse fattispecie, ed in particolare la possibilità di un concorso materiale tra le stesse, è tutta da verificare tramite il confronto con la casistica e con gli eventuali arresti giurisprudenziali che verranno. Quello che si può ragionevolmente prevedere, in questa specifica area giuridica come in altre, è la probabile cesura tra la giurisprudenza pre-COVID-19 e quella post-COVID-19.
La fattispecie di cui all’art. 452 c.p. sembra poi essere alla base delle inchieste, tuttora attivate con particolare riferimento alla situazione drammatica delle Residenze Sanitarie Assistenziali. Alcune di queste vedono già le prime indagini nei confronti delle Direzioni Generali. Non è chiaro (né potrebbe essere altrimenti in ragione del segreto istruttorio) su quali basi fattuali si fondi l’ipotesi e la fattispecie di reato per cui si procede. Nel tentativo di formulare delle congetture plausibili, si fa fatica a non pensare che l’epidemia colposa sia configurata in relazione alla mancata adozione di presidi (di qualunque genere, ma primi tra tutti i dispositivi di protezione individuali per operatori e pazienti) idonei ad impedire, limitare o contenere la diffusione dell’agente patogeno. Se così fosse, il dato si scontrerebbe con gli arresti più recenti della giurisprudenza di legittimità in materia, secondo la quale il concetto giuridico di epidemia è ben più ristretto dell’omologo scientifico e – soprattutto – il reato in questione non sarebbe configurabile in caso di condotta omissiva (così da ultimo Cass., Pen. Sez. IV°, 12.12.2017, n. 9133). Proprio il tema della disponibilità e dell’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale è quello maggiormente agli onori delle cronache, ed è prevedibile diventi un tema da considerare in rapporto alle ipotetiche responsabilità delle quali si promuoverà l’accertamento. Inevitabile infatti pensare a future contestazioni che contemplino la violazione del Decreto Legislativo n. 81 del 2008, aprendosi quindi alla cerchia dei datori di lavoro (evidentemente anche sulla base di questa previsione si parla di “scudo normativo” esteso al personale amministrativo e dirigenziale delle strutture sanitarie), con riferimento a decessi e lesioni dei pazienti nelle strutture sanitarie, ma anche di medici e infermieri operanti all’interno delle medesime. Questa previsione è resa ancor più plausibile dal fatto che la relativa contestazione formulata a corredo dei reati di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime, aprirebbe alla responsabilità amministrativa degli enti alla stregua dell’art. 25 septies D. Lgs. 231 del 2001 (purché siano enti privati, come nel caso di alcune RSA); responsabilità altrimenti preclusa dalla circostanza che le fattispecie di reato di cui si è detto non figurano nel catalogo dei reati previsti dal decreto sulla responsabilità amministrativa degli enti.
4. La responsabilità civile
Sul piano strettamente civilistico, il giurista dovrà focalizzare i propri sforzi sull’individuazione del nesso di causalità volto a dimostrare l’esistenza o meno di un collegamento tra l’infezione da coronavirus e i decessi, collegamento dovuto ad eventuale imperizia, negligenza o mancata applicazione di norme da parte del personale delle Rsa e della loro amministrazione.
In materia di responsabilità sanitaria da colpa medica e per consolidata giurisprudenza, la previsione dell’art. 1218 cod. civ. solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma inadempiuta (nella fattispecie i pazienti dei deceduti e dei familiari stessi) dall’onere di provare la colpa del debitore (nel caso, le Rsa e il personale che in esse opera), ma non dall’onere di dimostrare il nesso eziologico tra la condotta del debitore e il danno di cui si domanda il risarcimento (ex plurimis, Cass. Civ. n. 6593/2019).
Come noto, la L. n. 24/2017 (c.d. Legge “Gelli - Bianco”) all’art. 7 pone a carico delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private, una responsabilità di natura contrattuale in forza del contratto c.d. “di spedalità” per le condotte dolose o colpose di coloro che al loro interno esercitano la professione sanitaria; per gli operatori sanitari persone fisiche è invece prevista una responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ.
Le suddette strutture (quindi anche le Rsa) rispondono altresì ai sensi dell’art. 1218 cod. civ. in proprio (e non solo per il fatto altrui) dei danni subiti dai pazienti a causa della violazione di obblighi ad esse imposti.
In tema di suddivisione dell’onere probatorio, il paziente è tenuto a dimostrare l’esistenza del rapporto di spedalità con la struttura e l’insorgenza della patologia infettiva da Covid ovvero il suo aggravamento ed allegare l’inadempimento del debitore quale causa o concausa della produzione del danno; specularmente, la casa di cura dovrà invece dimostrare la diligenza della propria prestazione, il mancato inadempimento, ovvero la sua scarsa rilevanza ai fini dell’insorgenza dell’infezione.
La colpa del debitore è presunta. Per superare detta presunzione, la struttura – debitrice dovrà dimostrare la non imputabilità del suo inadempimento con la prova, piena e completa, della mancanza di colpa, ossia di aver fatto tutto il possibile per adempiere la prestazione dovuta; in mancanza di detta prova liberatoria, si dovrà presumere la sussistenza dell’elemento soggettivo e quindi la responsabilità per inadempimento.
Più concretamente, le case di cura interessate dovranno dimostrare di non aver potuto adempiere la propria prestazione in favore dei pazienti (molti dei quali deceduti a causa del Coronavirus o anche semplicemente infettati nel corso dell’epidemia e poi guariti) in assenza di una loro condotta negligente o imprudente perché, a titolo di esempio: a) avevano seguito esattamente i loro protocolli interni; b) non erano state fornite, loro dalle amministrazioni sanitarie competenti, precise indicazioni sul trattamento dei malati da Covid 19 ospitati da altri nosocomi dopo la fase acuta; c) non erano stati forniti loro, in maniera sufficiente, dei presidi medici (come mascherine e guanti) per far immediato fronte all'emergenza epidemica, pur avendo tempestivamente e documentalmente avvisato le amministrazioni competenti di tale carenza.
5. I danni risarcibili
A seguito del decesso da Covid-19 nelle RSA e di dimostrazione della responsabilità della struttura, è risarcibile il danno tanatologico, tipico degli eventi lesivi mortali, che si verifica quando tra l’evento lesivo e la morte del danneggiato intercorre un periodo di tempo tale da comportare, per lo stesso soggetto, sofferenze e patema.
In quest’ultimo caso, quando cioè all’evento lesivo consegue la morte del danneggiato, il risarcimento dei danni non patrimoniali spetta agli eredi della persona deceduta, i quali possono agire nei confronti della residenza sanitaria assistenziale responsabile.
I danni risarcibili agli eredi possono essere domandati “iure proprio” e “iure hereditatis”: la differenza sta nel fatto che nel primo caso viene risarcito il danno morale patito dagli eredi per la perdita del proprio congiunto, nel secondo caso il danno è quello subito dalla vittima e che, a seguito della morte, si trasferisce agli eredi.
Sulla trasmissibilità del danno non patrimoniale agli eredi, in particolare del danno tanatologico, la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 22451 del 27.09.2017 ha affermato che il danno biologico trasmissibile iure hereditatis, consistente nei postumi invalidanti che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del danneggiato dal momento della lesione fino al decesso, presuppone che gli effetti pregiudizievoli si siano effettivamente prodotti.
A tal fine è necessario che tra l’evento lesivo ed il momento del decesso sia intercorso un apprezzabile lasso temporale; con riferimento al danno tanatologico, pertanto, se la morte è subentrata subito dopo l’evento dannoso, o dopo brevissimo tempo, gli Ermellini ne escludono la risarcibilità; ciò in ragione dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il credito risarcitorio, ovvero nel caso del decesso dopo un esiguo lasso temporale, della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo.
In queste ipotesi, dunque, agli eredi spetterà unicamente il danno non patrimoniale “iure proprio”, cioè quello derivante dalla sofferenza per la perdita di un prossimo congiunto; si tratta di un danno quantificabile dal giudice in via equitativa, ricorrendo a parametri e tabelle sviluppati dai Tribunali nel corso degli anni – a partire dalle Tabelle del Tribunale di Roma del 2009 e fino a quelle elaborate dal Tribunale di Milano nel 2018 -, in grado di fornire indici di valutazione per la liquidazione del risarcimento.
6. Scenari immediati
Qualunque prospettiva si tenti di delineare in relazione a futuri scenari giudiziari o para-giudiziari, sconta l’inevitabile confronto con le caratteristiche eccezionali del fenomeno che stiamo vivendo, molte delle quali attengono in via diretta o mediata alla sostanziale carenza – su scala globale – di informazioni a disposizione. Se si tiene a mente la progressione cronologica delle informative e dei provvedimenti emanati da istituzioni internazionali e nazionali in relazione all’emergenza in corso, risulta molto difficile collocare – su qualunque operatore, a qualunque livello – una sufficiente consapevolezza della pericolosità, della pervasività e dell’incombenza dell’epidemia da COVID-19 prima dell’8 marzo 2020, data di emissione del primo d.p.c.m., contenente, tra l’altro, una serie di indicazioni pratiche fornite alla popolazione e descritte come utili a prevenire la diffusione del contagio. Tra l’altro va osservato che le stesse indicazioni sono al centro di un costante e progressivo dibattito, anche scientifico, che ne valuta (e in qualche caso ne mette in dubbio) quotidianamente l’adeguatezza.
Se si dibatte di misure idonee a prevenire il contagio, non può non rilevarsi come le modalità effettive di trasmissione del virus (ad esempio la circolazione e la permanenza nell’aria, così come anche l’eventuale resistenza sulle diverse superfici) non siano ad oggi totalmente conosciute. Sicuramente, in quest’area di possibile responsabilità, il benchmark informativo è costituito dalle raccomandazioni emanate dall’Istituto Superiore di Sanità, ed è prevedibile che nel delineare le future responsabilità legate all’emergenza da COVID-19, si esigerà dall’operatore sanitario, inteso in senso lato (non solo medici e infermieri, ma anche personale amministrativo e dirigenziale delle strutture sanitarie), di aver operato conformemente alle misure di volta in volta diramate.
Sempre nell’area della prevenzione, un ruolo centrale è rivestito dai dispositivi di protezione individuale, la cui mancata adozione è suscettibile di favorire (nel senso di non impedire) la diffusione. Anche qui, tuttavia, va osservato che il dibattito scientifico (e conseguentemente anche quello politico) sull’adeguatezza di alcuni dispositivi è ancora aperto: ad oggi l’OMS ritiene che l’uso di mascherine da parte di soggetti sani (diversi dagli operatori che lavorano nella prima linea di lotta all’emergenza) sia superfluo, se non addirittura controproducente, in quanto contribuirebbe a generare un falso senso di sicurezza che potrebbe disincentivare il rispetto delle ulteriori misure di distanziamento sociale. Va aggiunto che tuttora esiste una netta sproporzione quantitativa tra la disponibilità effettiva di questi strumenti e le esigenze che emergono a livello territoriale; una sproporzione che si sta cercando di colmare, ma che resta ad oggi molto elevata.
Se le informazioni disponibili sugli strumenti adeguati a prevenire il contagio (a prescindere dalla scarsa reperibilità degli stessi) sono assai poche, mancano totalmente quelle relative a trattamenti clinici adeguati. Analoga sproporzione si rinviene nell’area diagnostica. Se si pensa ad ipotesi di responsabilità per omessa diagnosi di un’infezione da COVID-19, non può che venire in mente lo scarso numero dei tamponi disponibili (ad esempio per carenza, a livello mondiale, dei reagenti necessari ad eseguirli).
Insomma, ancorché le ricerche scientifiche da anni ammoniscano circa il rischio di gravi pandemie, sembra fin troppo evidente che l’intero sistema Paese sia stato colto impreparato dalla natura e dalle proporzioni dell’emergenza in corso, considerazione che potrebbe riflettersi nella valutazione delle eventuali responsabilità individuali che in futuro saranno oggetto di accertamento, ciò nell’esigenza imprescindibile di assicurare giustizia alle vittime senza cedere alla tentazione di trovare meri capri espiatori.
WR Milano Avvocati



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Walter Massara

Avvocato - diritto condominiale , malpractice medica