Sono Agostino Cucuzza. L'attività forense mi ha spinto ad essere un avvocato difensore, tutelando i miei assistiti dento e fuori le aule dei tribunali. Il mio ambito di attività è il diritto penale. Presto assistenza e consulenza legale difendendo i diritti delle persone indagate o imputate in procedimenti penali o delle persone offese dal reato. Nelle procedure cautelari incidentali presto assistenza in caso di sottoposizione a misure ablative personali o reali. Organizzazione e cura del rapporto fiduciario con l’assistito costituiscono i punti fondamentali per un'assistenza legale chiara ed esaustiva. Opero in tutta Italia.
Ho patrocinato, anche grazie alle frequenti collaborazioni professionali, a processi penali di primaria importanza e di rilevanza nazionale (relativi ai reati di associazione mafiosa – omicidio - traffico di sostanze stupefacenti maturando un’ampia esperienza nel campo del diritto penale e del diritto processuale penale. Ho approfondito i temi relativi ai reati contro la persona, violenza domestica, reati contro il patrimonio, stalking, reati contro la P.A., costituzione di parte civile, reati ambientali, reati informatici, misure interdittive, misure cautelari personali e reali. Offro consulenza legale e assistenza agli Enti.
In tale delicato settore della violenza (domestica e familiare), mi sono occupato, in particolare, di casi relativi ai reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare e di maltrattamenti contro familiari e conviventi.
Ho curato casi riguardanti la fattispecie di reato di atti persecutori, cd. “stalking”, disciplinato dall’art. 612 bis del codice penale. Tali casi riguardavano sia soggetti "vittime" di stalking e sia soggetti accusati di essere gli autori delle condotte vessatorie.
Reati contro il patrimonio, Omicidio, Discriminazione, Sostanze stupefacenti, Diritto penitenziario, Domiciliazioni, Sicurezza ed infortuni sul lavoro, Gratuito patrocinio, Risarcimento danni.
Il caso riguardava un soggetto accusato del reato previsto di cui agli artt. 609-bis, 609 octies comma 3 c.p.. Quindi, violenza sessuale di gruppo si soggetto minorenne. A seguito della nomina, nell'ambito delle indagini preliminari, dopo opportuna consulenza sulle possibili conseguenze e sulle scelte difensive da intraprendere, si è proceduto alla nomina di un consulente di parte per procedere alla comparazione del DNA dell'indagato con il DNA del liquido biologico presente sugli indumenti indossati dalla "vittima" al momento dei fatti. Fortunatamente si è giunti ad escludere qualsiasi responsabilità in capo al mio assistito già nella fase delle indagini.
Il datore di lavoro che, minacciando il licenziamento, decurta lo stipendio ai dipendenti, facendosi restituire parte di esso in contanti, deve essere condannato per estorsione. Lo ha stabilito la sentenza n. 41985/2022 della Corte di Cassazione. Di fronte al ricorso di due imprenditori ritenuti responsabili del reato di estorsione a danno una dipendente, obbligata a restituire parte della retribuzione con il pericolo di essere licenziata in caso di rifiuto, i giudici hanno rilevato che tale comportamento costituisce reato. Non risulta nemmeno applicabile la condizione attenuante prevista dall’art. 62, comma 4, c.p., considerando gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona oggetto di minacce e dunque la pena inflitta ai datori è stata ritenuta proporzionata.
Corso dedicato all'approfondimento del diritto penale sostanziale e processuale mediante lo studio di casi e di sentenze.
Le molestie sono considerate come le discriminazioni. Sono quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di un individuo e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Vengono, inoltre, considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di un individuo e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Nel caso delle molestie semplici (dette anche molestie ambientali), di minore gravità, il sesso sembra essere il movente della condotta, mentre nel caso delle molestie sessuali , si riflette sulle modalità della stessa: queste ultime sono infatti comportamenti a connotazione sessuale espressi in forma fisica, verbale o non verbale. La molestia ambientale , priva di un intento coercitivo di carattere sessuale, si sostanzia solitamente in parole ingiuriose, epiteti sconvenienti, diretti all'offesa del genere femminile nella sua totalità, con l'effetto di rendere l'ambiente di lavoro sgradevole. Le molestie sessuali, invece, hanno solitamente lo scopo di ottenere delle prestazioni sessuali dalla vittima e possono essere realizzate con diverse modalità: alla categoria delle molestie fisiche appartiene ogni tipo di contatto fisico sgradito e indesiderato dal soggetto che lo riceve (toccamenti, sfregamenti, strusciamenti, pizzicotti, baci, colpetti, fino ad arrivare ad aggressioni vere e proprie, che assumono quindi rilevanza penale), mentre le molestie verbali comprendono le avances pesanti, i doppi sensi, gli apprezzamenti volgari, le telefonate oscene, le richieste di incontri ripetute nonostante i continui rifiuti del soggetto molestato. Per qualificare una condotta come molestia sessuale, è necessario tener conto della sensibilità della vittima , ma anche dei modelli di comportamento accettati e condivisi dalla società: un comportamento socialmente tollerato non può integrare una molestia solo sulla base dell' ipersensibilità del soggetto passivo . Considerare le molestie come discriminazioni permette di estendervi la disciplina e la tutela antidiscriminatoria: se il legislatore non le avesse esplicitamente qualificate come discriminazioni, le molestie non potrebbero essere tali, dal momento che manca l'elemento fondante delle prime, ovvero la realizzazione di un comportamento penalizzante. Le molestie sono illecite in quanto violano la dignità delle vittime e, per accertarne la sussistenza, non è necessario individuare un termine di paragone che metta alla luce la disparità di trattamento, ma solo evidenziare l'effetto lesivo, a prescindere dall'analisi dell'intenzione del soggetto agente.
Nei confronti di un soggetto, imputato del reato di Stalking, veniva disposta la custodia cautelare in carcere sulla base della condotta in atto, relativamente ad un ulteriore "parte" dell'agire delittuoso che aveva realizzato durante il dibattimento a suo carico. La Corte di Cassazione (sentenza 4-6-2020 n. 17000) nel disattendere la tesi della difesa, secondo cui il Tribunale non avrebbe potuto accogliere la richiesta del P.M., poiché le condotte nuove non potevano essere ricomprese nella contestazione già oggetto di giudizio, essendo necessaria una modifica dell'imputazione ovvero una nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato, ha stabilito che in tema di reato di Stalking, essendo questi un reato abituale di evento "per accumulo", si consuma al compimento dell'ultimo atto delle sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato .
L'art. 7 del decreto legge 11/2009 ha introdotto nel nostro codice penale il reato di atti persecutori, comunemente chiamato stalking . Commette tale reato chi “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita” , salvo che il fatto costituisca più grave reato. Quindi, sono richieste condotte reiterate che – pur senza arrivare ad integrare i reati di lesioni o maltrattamenti o altri reati in ogni caso più gravi di quello delineato dall'articolo in analisi – ingenerano nella vittima uno stato di continua paura o il fondato timore di dover subire un male più grave oppure la costringono a mutare il proprio stile di vita e le proprie abitudini per sfuggire alle continue ed insistenti “attenzioni” dello stalker. Ciò che viene tutelato è la tranquillità individuale e – per quanto riguarda l'ipotesi relativa al costringimento della vittima a cambiare abitudini di vita – la libertà di autodeterminazione . Per quanto attiene all'elemento oggettivo, questo consiste nella reiterazione delle condotte di minaccia e molestia. Per minaccia si intende unanimemente la prospettazione di un male ingiusto il cui verificarsi o meno dipende dalla volontà dell'agente; più problematica invece è la definizione di molestia: innanzitutto è da rilevare come, nonostante all'interno dell'art. 612 bis c.p. il termine parrebbe da intendersi come descrittivo della condotta – a differenza del reato ex art. 660 c.p. nel quale la molestia indica l'evento – sembrerebbe più corretto concepirlo come il risultato di un comportamento qualsiasi (telefonate notturne, pedinamenti, appostamenti, riprese fotografiche), che si concretizza in “un'intrusione nella sfera psichica altrui con conseguente compromissione della tranquillità personale e della libertà morale della vittima, senza però concretizzarsi in vere e proprie violenze sulla persona”. È stato a lungo oggetto di dibattito, poi, il requisito della reiterazione delle condotte, richiesto dalla norma: ci si chiedeva quale fosse il numero minimo di condotte necessario e il lasso di tempo che dovesse trascorrere tra le varie ripetizioni; di recente, la giurisprudenza ha affermato che possono ritenersi sufficienti anche solo due condotte . Per quanto riguarda l'evento, questo consiste alternativamente nel perdurante stato di ansia o paura – che secondo la Cassazione non deve necessariamente concretizzarsi in una situazione patologica – nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto oppure nell'alterazione delle abitudini di vita, evento che non si riterrà integrato in presenza di piccoli cambiamenti irrilevanti. Secondo un'interpretazione restrittiva della fattispecie, inoltre, il terzo evento non gode di autonomia, ma deve essere sempre connesso allo stato di paura o al timore per l'incolumità, poiché solo in questo modo si giustificherebbe la pena comminata, ben più severa di quella prevista dai reati di minaccia e molestia poiché tesa a “bloccare sul nascere l'escalation persecutoria che spesso passa dalle molestie all'aggressione fisica” .
Il reato di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) può essere realizzato da “chiunque con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali” . Integra il reato anche chi induce un soggetto a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima o traendola in inganno per essersi sostituito ad altra persona. Si tratta di una norma posta a tutela della libertà di autodeterminazione , in special modo protettiva della sfera attinente alla libertà sessuale , non a tutela del pudore o della morale. Per quanto riguarda la condotta , la nozione di atti sessuali comprende tutti quegli atti che “esprimono l'impulso sessuale dell'agente con invasione della sfera sessuale del soggetto passivo” , eliminando la distinzione esistente in precedenza nel codice penale tra violenza carnale, che richiedeva la presenza di una qualsiasi compenetrazione carnale, e atti di libidine violenti, che comprendevano tutti gli altri atti che fossero espressione di concupiscenza. È necessaria quindi la presenza di un requisito soggettivo , consistente nel fine di soddisfacimento dell'istinto sessuale, e di un requisito oggettivo , ovvero l'idoneità a compromettere la libertà di autodeterminazione della vittima. Devono includersi nella nozione di atti sessuali anche quegli atti che siano indirizzati verso zone erogene , mentre non integrano tale reato gli atti non idonei a intaccare la sfera della sessualità fisica della vittima, ledendo unicamente il suo pudore o la sua morale, come ad esempio atti voyeuristici o di autoerotismo. Un ulteriore requisito è che si costringa la vittima ad effettuare o a subire tali atti ricorrendo alla violenza o alla minaccia: ciò si realizza sia quando si utilizzi la violenza fisica, sia quando si ponga in essere un'intimidazione psicologica, sia infine quando l'atto sia così subdolo e repentino da non dare alla vittima la possibilità di difendersi. Il tentativo di violenza sessuale si configura quando, pur in mancanza di contatto fisico, la condotta denoti i due requisiti oggettivo e soggettivo e sia quindi diretta in modo non equivoco a porre in essere un abuso sessuale, nonché nel caso in cui l'atto fosse diretto a colpire una zona erogena ma, per reazione della vittima o per altri fattori diversi dalla volontà dell'agente, si sia manifestato in modo eccessivamente fugace o abbia colpito una parte diversa del corpo. Da ultimo, l' elemento soggettivo richiesto è il dolo , consistente nella coscienza e volontà di realizzare un atto sessuale e quindi di ledere la sfera di libertà sessuale della vittima non consenziente.
Il reato di diffamazione è disciplinato dall’articolo 595 del codice penale, in forza del quale "è punito chiunque, comunicando con più persone , offende la reputazione di uno o più soggetti non presenti". Oggetto di tutela del delitto di diffamazione è la reputazione, ossia, per la definisce la dottrina prevalente, l'opinione e valutazione dei consociati rispetto alla personalità morale e sociale di un individuo, in contrapposizione all’onore in senso soggettivo. Ogni persona ha diritto ad un "onore minimo", indipendentemente dalla categoria sociale di appartenenza, dal rango del suo lavoro. Quindi, anche le persone prive di particolari meriti o funzioni possono essere soggetti passivi del delitto di diffamazione. La reputazione è l'opinione o stima di cui l’individuo gode in seno alla collettività in cui vive per carattere, ingegno, abilità professionale, qualità fisiche o altri attributi personali (Cass. Pen. 05.12.1955, Calacoci; conformi: Cass. Pen. 12.10.2000, Maniracci; Cass. Pen. 28.02.1995, Lambertini Padovani; Cass. Pen. 12.11.1962, Della Torre). Per l’identificazione dei comportamenti offensivi occorre avere riguardo solo ai parametri oggettivi (Tribunale Milano13.06.1956, Teodorani; Cass. Pen. 28.02.1995, Lambertini Padovani; C. Appello Firenze 27.06.1957, Fiordelli. L’offesa alla reputazione viene cagionata dall'attribuire fatti contrari sia all’ordinamento giuridico sia al costume, o alla consuetudine sociale (Cass. Pen. 12.10.2000, Maniracci). Anche le persone giuridiche possono essere soggetto passivo del delitto di diffamazione e, pertanto, sono titolari del diritto di querela. Viene al contempo affermata la legittimazione ad agire per diffamazione anche dei singoli componenti degli enti collettivi, allorché le offese si riverberino direttamente su di essi offendendo la loro personale dignità (Cass. Pen. 24.01.1992, Bozzoli; Cass. Pen. 24.11.1987, Scalfari; Cass. Pen. 11.03.1980, Novi). Cioè, quando un’offesa è indirizzata ad una persona fisica, ma riguarda le funzioni da questa svolte all’interno di un ente collettivo, può sussistere una concorrente aggressione dell’onore sociale dell’ente (Cass. Pen. 26.10.2001, Scalfari; 30.01.1998, Sandri). Secondo la giurisprudenza, sul punto concorde con la dottrina, la diffamazione può sussistere solo nei confronti di un soggetto determinato, o che può essere individuato in maniera inequivocabile (Cass. Pen. 18.01.1993, Pendinelli; Cass. Pen. 07.06.1989, Panci). Il primo requisito della fattispecie in questione si ravvisa nell’assenza del soggetto passivo al momento della perpetrazione dell’azione criminosa. Ciò si deduce dall’inciso “ fuori dei casi indicati nell’articolo precedente ” con cui si apre il sopra indicato articolo.; L'assenza comporta l’impossibilità che la persona offesa percepisca direttamente l’addebito diffamatorio e possa, conseguentemente, difendersi o ritorcere l’offesa. L' altro requisito consiste nella comunicazione con più persone. E' necessario che l’agente renda partecipi dell’addebito diffamatorio almeno due persone, le quali siano state in grado di percepire l’offesa e di comprenderne il significato. Il terzo requisito dell’elemento materiale della diffamazione consiste nell’offesa alla reputazione di una persona. l'offesa va intesa quale aggressione, come mero pericolo, come probabilità o possibilità che l’uso di parole o atti destinati a ledere l’onore provochi una effettiva lesione . E' logico considerare che nell'ipotesi di diffamazione commessa con il mezzo televisivo, nella condotta del soggetto attivo potranno essere ravvisabili i tre requisiti appena descritti. nel contesto radiotelevisivo, tuttavia, va rappresentato dal diritto di cronaca, quale causa di giustificazione della diffamazione a mezzo stampa, che si potrebbe tentare di far valere a proprio vantaggio nel corso del processo. Il diritto di cronaca, invero, che ai sensi dell’articolo 51 c.p. è causa di giustificazione della diffamazione a mezzo stampa, trova per unanime dottrina il suo fondamento nell’articolo 21 della Costituzione, il quale riconosce e garantisce il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione. La libertà di manifestazione del pensiero non è tuttavia assoluta ed incondizionata, ma deve ritenersi limitata dall’esistenza di beni od interessi diversi che siano del pari garantiti o protetti dalla Costituzione. La Suprema Corte ha affermato che la libera manifestazione del pensiero non può mai sacrificare l’altrui diritto alla salvaguardia dell’onore, del decoro, della reputazione, del prestigio, beni, questi ultimi, tutelati come inviolabili da altre norme costituzionali (Cass. Pen. 16.02.1988, Artusi; Cass. Pen. 08.03.1974, Carnuccio; 28.11.1972, Martino). L’esercizio del diritto di cronaca è lecito in queste ipotesi: a) L’interesse che i fatti narrati rivestono per l’opinione pubblica secondo il principio della pertinenza; b) L a C orrettezza dell’esposizione di tali fatti in modo che siano evitate gratuite aggressioni all’altrui reputazione, secondo il principio della continenza; c) La corrispondenza tra i fatti accaduti e i fatti narrati secondo il principio della verità. (Cass. Pen. 16.12.2004, S.; Cass. Pen. 19.11.2001, Rodriguez; Cass. Pen. 26.05.2000, Graldi; Cass. Pen. 05.04.2000, Panigutti). La verità della notizia costituisce il limite logico del diritto di cronaca, ed essa viene considerata come condizione necessaria per la corretta formazione dell’opinione pubblica, e, quindi, per il soddisfacimento di quelle esigenze che giustificano la prevalenza del diritto di cronaca rispetto agli interessi di volta in volta contrapposti. Il cronista deve quindi riferire fatti oggettivamente veri “ ponendo ogni più oculata diligenza ed accortezza nella scelta delle fonti informative; esplicando ogni più attento vaglio in ordine all’attendibilità di quelle che, di volta in volta, vengono sottomesse alla sua attenzione; operando ogni più penetrante esame e controllo sulle notizie che, dalle stesse, vengano propalate ”. In linea generale, quindi, il giornalista è tenuto a verificare l’attendibilità della fonte e ad effettuare un accertamento sui fatti oggetto della notizia; in presenza di documenti ufficiali di una pubblica amministrazione o dell’autorità giudiziaria della cui veridicità non può dubitarsi, l’attendibilità della fonte sussiste ed è sufficiente a scriminare il giornalista (Cass. Civ., sez. III, 4 febbraio 2005, n. 2271). Negli altri casi, il giornalista è tenuto, invece, ad una particolare diligenza e ad esaminare, controllare e verificare il contenuto del suo articolo o servizio, al fine di vincere ogni ragionevole dubbio; in questo modo può non incorrere nella condanna per diffamazione a mezzo stampa, anche se poi i fatti non si rivelino veri (Cass. Pen., sez. V, 11 marzo 2005, n. 15643). Inoltre, la giurisprudenza consolidata ha stabilito che il requisito della verità non è rispettato qualora la ricostruzione degli avvenimenti avvenga in moda da travisare la consecuzione degli stessi, omettendo il riferimento a fatti rilevanti e, per contro, propone taluni in una luce artificiosamente emblematica, al di là della loro obiettiva rilevanza (Cass. Pen. 15.03.2002, Di Giovacchino; Cass. Civ. , sez. III, 04 luglio 2006, n. 15270; Cass. Pen., sez. V, 14 febbraio 2005, n. 12859). L’obbligo di rispettare la verità sostanziale dei fatti viene posto anche dall’art. 21 L. 03.02.1963, n. 69, che contiene le regole di deontologia professionale del giornalista; l’art. 2 – che viene richiamato dalla giurisprudenza della Suprema Corte quale norma che deve orientare la condotta del giornalista nell’esercizio del diritto di cronaca (Cass. S.U. 30.06.1984, Ansaloni) – afferma il diritto insopprimibile del giornalista alla libertà di informazione e di critica, limitato dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui, ed impone i doveri di rispetto della verità sostanziale dei fatti, di lealtà e buona fede, di rettifica delle notizie inesatte e di riparazione degli errori, il tutto nel rispetto del segreto professionale, dello spirito di colleganza e del dovere di promozione della fiducia tra la stampa e i lettori. La seconda condizione che legittima il diritto di cronaca è l’interesse pubblico della notizia, inteso come interesse della comunità a conoscere i fatti oggetto della pubblicazione, come esigenza che la notizia possegga una valenza ed una dimensione di interesse generale. L’interesse pubblico sussiste allorquando si tratti di avvenimenti interessanti la vita collettiva e le persone che ne sono protagoniste, la conoscenza dei quali è essenziale alla formazione e all’orientamento della pubblica opinione, in modo che ognuno possa fare le proprie scelte nel campo religioso, politico, della scienza e della cultura (Cass. Pen., sez. V, 09 ottobre 2007, n. 42067; Cass. Pen. 23.04.1986, Emiliani; 03.05.1985, Ruschini); l’utilità sociale dell’informazione è inseparabilmente legata alla verità dell’informazione medesima, poiché la propalazione di notizie non rispondenti al vero è non solo inutile, ma anche controindicata al formarsi di una retta opinione nel pubblico (Cass. Pen. 10.02.1989. Mulser; Cass. Pen. 08.10.1970, Rodari). L'attitudine della notizia a soddisfare una oggettiva esigenza di informazione pubblica non può essere confusa, comunque, con il mero interesse che il pubblico, per pura curiosità “voyeristica”, può avere alla conoscenza di particolari attinenti alla sfera della vita privata di un determinato soggetto, specie quando questo non sia persona investita di cariche pubbliche o comunque dotata di rilievo pubblico (Cass. Pen., sez. V, 04 ottobre 2007, n. 46295). Terza condizione che legittima l’esercizio del diritto di cronaca è la correttezza del linguaggio usato, la c.d. continenza, che riguarda i canoni di correttezza formale nell’esposizione delle notizie (Cass. Civ., sez. III, 13 febbraio 2002, n. 2066). La Cassazione ha affermato, inoltre, che risponde del delitto di diffamazione il soggetto delegato al controllo di una trasmissione televisiva che non impedisca che frasi oltraggiose alla dignità morale di un soggetto siano pronunciate dagli ospiti della sua trasmissione.
Quando parliamo di lavoro nero (o sommerso) facciamo riferimento a quelle attività lavorative svolte in modo “occulto”, ossia senza effettuare le comunicazioni (relative all’assunzione) agli uffici competenti. Le conseguenze e le sanzioni, quando viene accertato un rapporto di lavoro irregolare (che può svolgersi in ambito aziendale o autonomo – es. lavoro domestico), per il datore di lavoro e per il lavoratore possono essere di natura civile e penale. Le assunzioni “in nero” comportano oggi (a seguito del c.d. Jobs act), delle sanzioni proporzionate alla durata della violazione commessa. Gli importi della sanzione è stato aumentato con la recente legge di Bilancio 2020. Quindi, oggi le sanzioni previste per il lavoro nero sono: da 1800 € a 10.800€ per ogni lavoratore irregolare fino a 30 giorni di impego effettivo; da 3600€ a 24600 per ogni lavoratore irregolare con impiego effettivo compreso tra i 31 e 60 giorni; da 7200 € a 43200 per ogni lavoratore irregolare con impiego effettivo superiore ai 60 giorni. Tale sanzione viene aumentata della percentuale del 20% per ogni lavoratore in nero extracomunitario sprovvisto di permesso di soggiorno. È qui, in questo caso, scatta anche la sanzione penale in quanto viene violato l’art. 22 del T.U. in materia di immigrazione e il D.lgs 286/98. La pena prevista va dai 6 mesi ai 3 anni di reclusione oltre 5000 € di multa. Per quanto riguarda, invece, il lavoratore la situazione è questa: il solo fatto di essere scoperto non comporta alcuna sanzione, ma è passibile di sanzione se ha dichiarato alle autorità preposte il proprio stato di disoccupazione e percepisce la relativa indennità. La dichiarazione resa dal lavoratore in nero all’Inps, circa il suo stato di disoccupato, rischia di ritrovarsi imputato in un procedimento penale per il reato di Falso ideologico commesso da provato in atto pubblico (ax art. 483 c.p.). per tale tipologia di reato è prevista la reclusione fino a due anni. Se oltre ad aver dichiarato il proprio stato di disoccupazione, il lavoratore in nero ha percepito anche l’indennità di disoccupazione o altre indennità previste dallo Stato o da altri enti pubblici rischia altresì anche di essere imputato per il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (ex art. 316 ter c.p.) rischiando una pena che va da 6 mesi ai 3 anni di reclusione. Resta salvo, in questi casi, il diritto dell’Inps o dell’ente che ha erogato le somme indebitamente percepite dal lavoratore in nero, a richiedere la restituzione oltre al risarcimento del danno.
La riabilitazione è una causa di estinzione delle pene accessorie (es. interdizione dai pubblici uffici, interdizione legale, incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, estinzione del rapporto di impiego o di lavoro, decadenza o sospensione dall’esercizio della potestà genitoriale) e degli effetti penali della condanna . Difatti, la condanna è spesso di ostacolo per l’ammissione a concorsi pubblici oppure comporta la perdita del diritto elettorale (attivo e passivo), di gradi o dignità accademiche. La riabilitazione ha lo scopo di permettere al soggetto condannato (che provi di essersi ravveduto e dopo il decorso di un determinato lasso di tempo dall’espiazione della pena) il reinserimento sociale, restituendo alcune facoltà perse in conseguenza della condanna penale. La capacità giuridica del soggetto condannato viene “reintegrata” a prima della condanna. Scontata la pena inflittagli (con sentenza irrevocabile o decreto penale esecutivo) è possibile per il soggetto condannato (decorso un certo lasso di tempo e a certe condizioni) richiedere la riabilitazione. Anche quando si riferisca ad una condanna per la quale sia stata applicata la sospensione condizionale della pena e il reato si sia estinto per il decorso del tempo previsto la riabilitazione può essere richiesta. Per poter concedere la riabilitazione occorrono due presupposti: 1) il decorso di un lasso di tempo di almeno tre anni dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si sia in altro modo estinta Periodi di tempo più lunghi sono previsti se è stata dichiarata la recidiva ex art. 99 c.p. (almeno otto anni) nonché l’abitualità o la professionalità o la tendenza a delinquere (almeno dieci anni); Occorre sottolineare che quando si parla di espiazione della pena espiazione si deve fare riferimento anche al della pena pecuniaria (multa o ammenda) inflitta con la Sentenza; 2) Prova effettiva e costante buona condotta. il requisito della buona condotta non è di facile dimostrazione. Tale requisito non consiste solo nell’astenersi dal compiere fatti costituenti reato, ma comporta l’instaurazione di uno stile di vita basato sul rispetto delle regole comuni regole della convivenza sociale. La valutazione della “buona condotta” di cui si parla deve essere – giustamente – rapportata (e valutata) alla luce della gravità del reato per il quale si chiede la riabilitazione. Gravità che deve essere considerata nel suo aspetto più ampio ovvero circa la natura del bene giuridico leso, la permanenza di eventuali effetti negativi per la persona offesa (e/o gli altri consociati), la sussistenza di altre condotte criminali e quant’altro sia utile e necessario per misurare la violazione violazione del diritto a presidio del quale è posta la norma penale violata dall’istante. La corretta valutazione della gravità del reato è di fondamentale importanza nella determinazione della “buona condotta” tipica della riabilitazione poiché, ovviamente, maggiore sarà la gravità del reato connesso alla richiesta di riabilitazione e più intensa dovrà essere la condotta positiva addotta dall’istante. Ciò che è indispensabile è che il condannato abbia mostrato di essersi ravveduto, tenendo buona condotta ed astenendosi dal compiere atti deplorevoli. Denunce e condanne per fatti successivi alla sentenza a cui si riferisce l’istanza di riabilitazione anche se non sono automaticamente ostative alla concessione della stessa, sono valutate caso per caso dal Tribunale per trarre elementi di convincimento rispetto al giudizio globale, positivo o negativo, del requisito della buona condotta e del conseguimento del ravvedimento. In ogni caso, il Tribunale deve adeguatamente motivare. Influenzerà la decisione del Tribunale la tipologia del reato contestato o accertato, gli elementi raccolti, le circostanze dei fatti, l’intensità del dolo o della colpa. Quindi, con la presenza del decorso del tempo e buona condotta il condannato ha diritto ha diritto di ottenere la riabilitazione. Tuttavia, se il decorso del tempo è di facile accertamento, la buona condotta andrà argomentata ed illustrata in modo appropriato ai Giudici. La riabilitazione non può essere concessa se il condannato sia sottoposto a misure di sicurezza (ad esclusione dell’espulsione dello straniero e della confisca) o si sia reso inadempiente alle obbligazioni civili derivanti dal reato ( restituzione o risarcimento ). Se non sono adempiute le obbligazioni civili viene meno il requisito della buona condotta e, con esso, uno dei presupposti alla riabilitazione. Se è individuata una parte offesa, il ristoro della stessa è elemento imprescindibile per l’accoglimento dell’istanza, perché specificamente previsto dalla legge : il mancato ristoro costituisce un ostacolo insormontabile alla concessione. Deve essere il condannato ad attivarsi e proporre all’offeso un risarcimento adeguato, se non globale, mentre non può ritenersi che l’inerzia del danneggiato costituisca una rinuncia valida in sede di richiesta di riabilitazione. Tuttavia, se la proposta è adeguata, il mero rifiuto del danneggiato al risarcimento offerto, non impedisce di ritenere sussistente la condizione prevista dalla legge : sarà il Tribunale a svolgere le considerazioni del caso e a motivare nel senso dell’adeguatezza, qualora ritenga di accogliere l’istanza. Nessun potere di veto ha in questo senso l’offeso/danneggiato dal reato. In casi particolari, e cioè quando il danno sia di rilevante entità e non possa essere ristorato in toto, sarà onore del richiedente dimostrare l’avvenuto parziale risarcimento e l’impossibilità di adempiere il residuo . Benché un ruolo centrale abbia il richiamato risarcimento alla persona offesa, bisogna anche sottolineare che colui che chiede la riabilitazione può dimostrare l’impossibilità pratica di effettuare il risarcimento, non tanto per l’ingenza della somma, bensì poiché il decorso del tempo, la risalenza del reato, il difetto di qualsivoglia richiesta da parte della vittima rende di fatto impossibile ogni risarcimento. In caso di prova positiva della predetta impossibilità, il richiedente è liberato dall’obbligo di risarcimento e, eventualmente, potrà essere indicato dal Tribunale un destinatario “pubblico” (un ente benefico o altro) al quale versare una somma di denaro a guisa di risarcimento. La procedura per la richiesta di riabilitazione. La procedura volta ad ottenere la riabilitazione può essere attivata una volta che sia avvenuta l’espiazione della pena principale e sia decorso il lasso di tempo richiesto dalla Legge. La domanda di riabilitazione è proposta dall’interessato al Tribunale di Sorveglianza territorialmente competente in relazione al proprio luogo di residenza, indicando i presupposti richiesti dalla legge (il decorso del tempo, l’avvenuta buona condotta e l’avvenuto pagamento degli obblighi risarcitori nascenti da reato). Può essere presentata direttamente dal condannato, ma nel procedimento è indispensabile l’assistenza di un difensore. In ogni caso, è preferibile che il difensore assista il richiedente fin dalla proposizione della domanda per meglio documentare il percorso di buona condotta fino a quel momento effettuato dall’interessato. È opportuno, infatti, che il richiedente produca tutta la documentazione idonea a provare la sussistenza delle condizioni per la pronuncia della riabilitazione come ad esempio: – l’estratto della sentenza irrevocabile; – il certificato di espiata pena in caso di carcerazione; – il certificato dì avvenuto pagamento delle spese di giustizia; – il certificato del casellario giudiziale (tutti documenti, questi, che potranno anche essere acquisiti di ufficio); – la prova dell’avvenuto risarcimento del danno alla parte lesa o la dichiarazione liberatoria della parte lesa di non aver nulla a pretendere; – tutta la documentazione relativa ad un eventuale percorso lavorativo e di studio effettuato dal riabilitando dopo la condanna. È opportuno allegare all’istanza anche prova dell’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato (restituzioni, risarcimento del danno, pagamento spese processuali), perché ciò depone positivamente per l’inesistenza della causa ostativa di cui si è detto e, anzi, per la sussistenza di una condotta di rispetto della convivenza sociale. In ogni caso, il Tribunale di Sorveglianza acquisisce d’ufficio la documentazione ritenuta necessaria. Al termine dell’istruttoria – che è a cura del Tribunale di Sorveglianza – viene fissata udienza di trattazione , di cui viene dato avviso all’interessato e, laddove già nominato, al difensore; per l’udienza è obbligatoria l’assistenza del difensore (in assenza di quello di fiducia ne verrà nominato uno di ufficio). Il procedimento avviene in camera di consiglio sulla base della documentazione prodotta (fino a cinque giorni prima dell’udienza) ed acquisita e l’udienza avviene alla presenza del difensore, del Procuratore Generale (ovvero l’Accusa Pubblica) e del richiedente che, se lo desidera e lo ritiene opportuno, sarà sentito personalmente. In caso di esito sfavorevole, la decisione (ordinanza) può essere impugnata con ricorso in Cassazione. Nel caso in cui l’ordinanza sfavorevole – pronunciata per difetto di prova di buona condotta – diventi irrevocabile, è possibile presentare una nuova istanza, dopo due anni dalla decisione irrevocabile. Quando il Tribunale di Sorveglianza concede la riabilitazione, il provvedimento è annotato nella sentenza di condanna a cura della cancelleria del giudice che lo ha emesso e nel casellario giudiziale. Se con la condanna vi è stata sospensione del diritto elettorale, del provvedimento di riabilitazione deve essere data comunicazione all’ufficio elettorale del Comune nelle cui liste elettorali si trova iscritta la persona alla quale il provvedimento si riferisce e cioè al Comune di residenza o, ove il luogo di residenza non sia conosciuto, a quello di nascita. Il Tribunale di Sorveglianza revoca di diritto l’ordinanza che ha disposto la riabilitazione quando il condannato abbia commesso, entro sette anni dalla riabilitazione, un delitto non colposo per il quale è inflitta la pena della reclusione per un tempo non inferiore a due anni, o più grave. Effetto della revoca della riabilitazione è quello di fare rivivere le pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna. Il provvedimento che revoca la riabilitazione viene comunicato al casellario giudiziale per essere annotato.
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