Avvocato Alessio Tranfa a Roma

Alessio Tranfa

Avvocato Penalista, Civilista e Tributarista


Informazioni generali

L'Avv. Alessio Tranfa opera nel settore legale dal 2000, è avvocato dal 2003 ed è abilitato al patrocinio innanzi alle Magistrature Superiori dal 2016. Ha sempre improntato la propria attività ad un rapporto diretto con l'Assistito. Accetta incarichi in materia di Diritto Penale, Diritto Civile e Contenzioso Tributario.

Esperienza


Diritto penale

Lo Studio Legale Tranfa opera da sempre nel settore penale nell'ambito del quale accetta incarichi in difesa di tutte le parti processuali (imputato, parte civile, responsabile civile, ecc.). Le materie da egli trattate vanno dai reati contro la persona ai reati contro il patrimonio, dai reati contro la pubblica amministrazione ai reati contro la fede pubblica ai reati in materia tributaria, fallimentare, edilizia, disciplina delle armi e degli stupefacenti.


Violenza

Specializzato in procedimenti penali riguardanti violenza e reati sessuali


Stalking e molestie

Procedimenti penali riguardanti atti persecutori e violenza sessuale


Altre categorie:

Reati contro il patrimonio, Omicidio, Sostanze stupefacenti, Diritto penitenziario, Incidenti stradali, Mediazione, Gratuito patrocinio, Cassazione, Domiciliazioni, Risarcimento danni, Diritto civile, Malasanità e responsabilità medica, Eredità e successioni, Separazione, Divorzio, Matrimonio, Recupero crediti, Pignoramento, Contratti, Diritto tributario, Diritto immobiliare, Locazioni, Sfratto, Diritto di famiglia, Diritto del lavoro, Diritto assicurativo, Licenziamento.


Referenze

Pubblicazione legale

Presupposti per la sospensione della pena facoltativa ai sensi degli artt.147 c.p. e 684 c.p.p.

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Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, sentenza n.16937/2018 del 16.2.2018 I presupposti per la sospensione della pena facoltativa ai sensi degli artt.147 c.p. e 684 c.p.p. ben possono consistere anche nelle condizioni di salute psichica del condannato che siano in grado di incidere negativamente sulle condizioni di salute fisica e quando, alla luce di esse, il trattamento penitenziario risulti eccessivamente afflittivo e contrario al senso di umanità. Il Tribunale di Sorveglianza di Campobasso con ordinanza del 16 maggio 2017 rigettava « l'istanza di sospensione della pena ex art. 147 c.p. o in subordine di ricovero del condannato in un ospedale civile ai sensi dell'art.11 legge n.354/1975 » proposta dal difensore nell’interesse di persona condannata ristretta in carcere che aveva fatto richiesta di differimento provvisorio ai sensi degli artt.147 c.p. e 684 c.p.p. o, in subordine, di trasferimento in un ospedale civile o un luogo esterno di cura ai sensi dell’art.11 legge n.354/1975 (Ordinamento Penitenziario) in considerazione delle sue gravissime condizioni di salute psichiatrica. Il Magistrato di Sorveglianza in sede, con provvedimento del 30 marzo 2017, aveva disposto in via provvisoria la detenzione domiciliare del condannato in via provvisoria ai sensi dell’art.47 ter Ord. Pen. alla luce della relazione sanitaria della Casa Circondariale in data 20.2.2017 presente in atti e delle condizioni legittimanti l'applicazione dell'invocato beneficio. Successivamente il Tribunale di Sorveglianza di Campobasso in composizione collegiale, con ordinanza del 16.5.2017, non ratificava il precedente provvedimento del Magistrato di Sorveglianza e rigettava l'istanza di sospensione della pena ai sensi degli artt.147 c.p. e 684 c.p.p., disponendo nei confronti del condannato istante la prosecuzione dell’esecuzione della pena nelle forme ordinarie e mandando al Magistrato di Sorveglianza territorialmente competente per le opportune valutazioni circa l’eventuale osservazione dell'istante in O.P.G. (ora REMS) ai sensi dell’art.112 D.P.R. n.230 del 2000. L’ordinanza di rigetto rilevava, in particolare, che le patologie dalle quali era affetto l'istante risultavano essere di natura esclusivamente psichiatrica e come tali non avevano prodotto alcun danno di natura fisica, non integrando pertanto gli elementi richiesti dall'alt.147 c.p. per il differimento della esecuzione della pena, nonché quelli previsti per la detenzione domiciliare sanitaria parimenti oggetto della richiesta. Tale diversa valutazione del Tribunale di Sorveglianza in composizione collegiale veniva svolta nonostante vi fosse in atti la relazione sanitaria della suddetta Casa Circondariale del 20 febbraio 2017 dalla quale risultava che il condannato istante era affetto da «grave disturbo antisociale di personalità caratterizzato da tratti oppositivi, rifiuto di terapia, comportamento discontrollato con facile tendenza ad agire con gesta auto ed etero lesionistici ... lo stato psichiatrico del detenuto è così grave da comportare una prognosi infausta quoad vitam e da rendere il trattamento carcerario contrario al senso di umanità e da esigere terapie e controllo non praticabili in alcun modo in regime detentivo neanche mediante ricoveri ospedalieri», tenendo conto anche delle informative di pubblica sicurezza della P.G. (dichiaratasi contraria alla concessione dei benefici invocati) nonché alla luce di un nuovo episodio di rapina che lo stesso aveva commesso circa un mese prima nel corso della sospensione provvisoria della pena in regime di detenzione domiciliare concessa dal Magistrato di Sorveglianza con la suddetta ordinanza del 30.2.2017. Col primo motivo di ricorso il difensore condannato denunciava, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) c.p.p., l’inosservanza ed erronea applicazione dell'art.147 n.2 c.p. poiché il Tribunale di Sorveglianza aveva ritenuto concedibile il rinvio facoltativo della pena solo per motivi di salute fisica e non psichiatrica che pure fossero in grado di incidere gravemente sulla salute fisica. Con il secondo motivo di ricorso il difensore del condannato ricorrente denunciava la contraddittorietà della motivazione, ai sensi dell'art.606, comma 1, lettera e) c.p.p., poiché il Tribunale aveva affermato come le patologie dalle quali era affetto il condannato erano state ritenute compatibili con il regime detentivo nonostante fosse in atti la relazione sanitaria, richiamata con la stessa ordinanza proveniente dalla stessa Casa Circondariale, che affermava come i gesti autolesivi, consistiti soprattutto in gravi tagli al collo, erano tali da mettere a continuo repentaglio la sua salute fisica e la sua stessa vita. Con il terzo motivo di ricorso il difensore del condannato denunciava la nullità dell'ordinanza per l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, ai sensi dell'art.606, comma 1, lettera c) c.p.p. e per l'omessa pronuncia sulla istanza subordinata di trasferimento in un ospedale civile o in altro luogo esterno di cura ai sensi dell'art.1, comma 2, Ord. Pen.. Con l'ultimo motivo di ricorso, infine, il difensore del condannato deduceva la mancanza di motivazione, ai sensi dell'art.606, comma 1, lettera e) c.p.p., in relazione all'istanza subordinata finalizzata a ottenere il suo ricovero ai sensi del citato art.11 Ord. Pen., avuto riguardo alla mancanza di qualsivoglia riferimento alla stessa nella motivazione dell’ordinanza. Il 15 gennaio 2018 il difensore del ricorrente presentava motivi nuovi ai sensi dell’art.585 comma 4 c.p.p. con i quali, insistendo nell'accoglimento del ricorso e dei motivi nello stesso articolati, evidenziava la relazione sanitaria del Presidio Sanitario Penitenziario. Con ulteriori motivi nuovi depositati il 30 gennaio 2018 il difensore produceva, ad integrazione, documenti costituenti uno stralcio del diario clinico carcerario del condannato ricorrente. La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, accoglieva il ricorso annullando la gravata ordinanza del Tribunale di Sorveglianza in data 16.5.2017 con rinvio per nuovo esame. Infatti, come ritenevano i giudici di Piazza Cavour, lo stesso Tribunale di Sorveglianza aveva evidenziato i gravi atti autolesionistici già posti in essere dal ricorrente e il grave ed attuale rischio di suicidio evincibili dalla suddetta relazione sanitaria della Casa Circondariale del 20.2.2017, adducendo così una motivazione del tutto contraddittoria e contrastante con i princìpi di diritto più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità, arrivando a disattendere le richieste del condannato pur a fronte della estrema gravità delle sue condizioni di salute psichica. Il punto essenziale affrontato dalla Suprema Corte attiene alle possibili ricadute fisiche, passate, presenti e future della grave situazione patologica di tipo psichiatrico da cui era affetto il condannato ricorrente, avendo tale patologia già portato lo stesso a gesti autolesivi la cui gravità faceva e continuava a far temere seriamente per la sua vita e che pertanto erano in grado di incidere sulla sua salute fisica quale presupposto per la concessione del differimento della pena. Come aveva già chiarito la giurisprudenza di legittimità il differimento della pena, alla luce della disciplina di cui agli artt.146 e 147 cod. pen., può essere obbligatorio ovvero facoltativo sulla base della ricorrenza o meno di determinati requisiti, affermando ripetutamente che il giudice di merito, investito della richiesta di rinvio della esecuzione della pena (ove facoltativa) deve tenere conto non solo della compatibilità dell'infermità con le possibilità di assistenza e cura offerte dal sistema carcerario, ma anche (e soprattutto) dell'esigenza di non ledere in ogni caso il fondamentale diritto alla salute e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità previsti dagli artt.32 e 27 Cost.. Tale circostanza ricorre, ad esempio, quando, nonostante la fruibilità di adeguate cure anche in stato di detenzione, le deteriorate condizioni di salute del detenuto danno luogo ad una sofferenza aggiuntiva derivante proprio dalla privazione dello stato di libertà in sé e per sé considerata e in conseguenza della quale l'esecuzione della pena risulti incompatibile con i richiamarti princìpi costituzionali (tra le altre Sez. 1, n. 5949 del 28/10/1999, Ira, Rv. 214590; Sez. 1, n. 36856 del 28/09/2005, La Rosa, Rv. 232511; Sez. 1, n. 52979 del 13/07/2016, Di Giacomo Rv. 268653). Ciò fermo restando che tale sofferenza aggiuntiva è inevitabile quando la pena deve essere eseguita nei confronti di un soggetto in non perfette condizioni di salute, sicché essa può assumere rilievo solo quando si appalesi, presumibilmente, di entità tale - in rapporto alla particolare gravità di tali condizioni - da superare i limiti dell’umana tollerabilità. In ogni caso l'applicazione della indicata disciplina presuppone che sia stata diagnosticata una grave infermit à fisica e ricorra un serio e conclamato pericolo quoad vitam del detenuto (si vedano, tra le altre, Sez. 1, n. 45758 del 14/11/2007, De Witt, Rv. 238140; sez. 1, n. 27313 del 24/06/2008, Commisso, Rv. 240877; sez. 1, n.4750 del 14/01/2011, Tinelli, Rv. 249794; Sez. 1, n. 5732 del 8/1/2013, Rossodivita, Rv. 254509). In tal senso la Suprema Corte ha anche affermato che non è ammesso il rinvio dell’esecuzione della pena facoltativo nei confronti di chi sia affetto esclusivamente da sofferenza psichica o anche da patologia psichiatrica (tra le altre, Sez. 1, n. 41542 del 10/11/2010, Giordano, Rv. 248470; Sez. 1, n. 37615 del 28/01/2015, Pileri, Rv. 264876), salvo che si tratti – come accertato nel caso di specie - di sofferenza di tale gravit à da produrre un’infermit à fisica non fronteggiabile in ambiente carcerario o da rendere l’espiazione della pena contraria, per le eccessive sofferenze, al senso di umanit à (tra le altre, Sez. 1, n. 41986 del 04/10/2005, Veneruso, Rv. 232887; Sez. 1, n. 35826 del 11/05/2016, Di Silvio Rv. 268004). Nel caso in esame la Corte di Cassazione ha dunque affermato che il Tribunale di Sorveglianza aveva considerato in termini palesemente riduttivi le patologie a carico del ricorrente, dedotte a sostegno della richiesta ed emergenti dalla relazione sanitaria, limitandosi a escludere a priori l'applicazione degli invocati istituti per la ritenuta natura psichiatrica delle stesse senza apprezzare, alla luce dei richiamati principi di legittimit à e costituzionali e delle emergenze in atti, la gravit à delle stesse patologie e l’idoneit à delle stesse a integrare un quadro clinico rilevante ai fini dell'applicazione della disciplina pertinente al rinvio della esecuzione della pena e di concessione della detenzione domiciliare sanitaria. La Suprema Corte ha ritenuto, dunque, come sarebbe stato onere del giudice di merito approfondire l’effettivo stato di salute del ricorrente e valutare in modo prudente se le conclamate patologie psichiatriche di cui il condannato soffriva avessero o avrebbero potuto cagionare situazioni patologiche lesive sul piano fisico e biologico (costituenti gi à di per s é i presupposti per la concessione dei richiesti provvedimenti), annullando così l’ordinanza del giudice territoriale con rinvio per nuovo esame. Nel giudizio di rinvio celebrato a seguito della sentenza di annullamento in esame il Tribunale di Sorveglianza di Campobasso, in nuova composizione, accoglieva, in applicazione dei princìpi di diritto enucleato dalla sentenza di annullamento della Suprema Corte, l’originaria istanza del condannato ordinando che l’esecuzione della pena proseguisse in regime di detenzione domiciliare ex art.47 ter Ord. Pen. presso il Servizio Psichiatrico Ospedaliero Civile. Avv. Alessio Tranfa

Pubblicazione legale

Munizioni e armi da guerra – Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, sentenza n.11172 dell'11.11.2014

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Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, sentenza n.11172 dell’11.11.2014, depositata il 17.3.2015 Armi e munizioni comuni e da guerra – Distinzione a fini penali – Le cartucce calibro 9x19 e le pistole camerate 9x19 non possono essere considerate a fini penali come munizioni e armi da guerra nonostante le stesse siano in dotazione alle Forze Armate e alle Forze dell’Ordine. Ciò che a fini penali determina il carattere bellico di una munizione non è il suo mero utilizzo da parte delle Forze Armate o delle Forze dell’Ordine, bensì il possesso di una spiccata potenzialità offensiva rispetto a quella destinata ad arma comune da sparo. Lo stesso principio si applica in materia di armi. Questo è quanto ha ribadito la Corte di Cassazione sulla scia di un orientamento pressoché costante che tuttavia viene spesso non condiviso o addirittura ignorato dalla giurisprudenza di merito. In tal senso la Prima Sezione Penale dei giudici di Piazza Cavour, con la sentenza numero 11172/2015 dell’11 novembre 2014 (depositata il 17 marzo 2015), ha annullato senza rinvio la sentenza della Corte di Appello di Roma, Sezione 3^ Penale, pronunciata in data 25.10.2013 limitatamente alla qualificazione giuridica delle munizioni calibro 9x19 sequestrate all’imputato, rinviando ad altra sezione della Corte di Appello di Roma ai soli fini della rideterminazione della pena. La particolarità della suddetta sentenza di legittimità risiede nel fatto che la Corte ha ritenuto come le munizioni calibro 9x19 non possano essere ritenute armi da guerra. Infatti la destinazione, per quanto esclusiva, ad armamento delle Forze Armate e dei corpi armati dello Stato non può assumere nel caso della pistola semiautomatica calibro 9x19 parabellum , oltre che delle relative munizioni, alcun ruolo decisivo ai fini della sua classificazione e qualificazione giuridica come arma da guerra. La vicenda processuale può essere ricostruita nei termini che seguono. In data 26.11.2102 l’imputato veniva tratto in arresto perché trovato in possesso di 9 munizioni calibro 9x19 e 4 munizioni calibro 9x21, tutte debitamente sequestrate dai Carabinieri nel corso di una perquisizione domiciliare. Il capo d’imputazione formulato dalla Procura procedente era il seguente: “[omissis] imputato del reato p. e p. dell’art. 2 della L. 859/67 perché deteneva, illegalmente all’interno della propria abitazione n. nove (9) munizioni da guerra calibro 9x19 con sigla G.F.L. sul fondello, in uso alle Forze Armate, e n. quattro (4) munizioni calibro 9x21, con sigla IMI sul fondello. Con recidiva specifica infraquinquennale ex art. 99 c.p. ”. A seguito della convalida dell’arresto l’imputato chiedeva e otteneva di essere giudicato con rito abbreviato condizionato all’escussione del Consulente Tecnico balistico di parte che affermava che sia le munizioni di calibro 9x21 che quelle di calibro 9x19 (tra l’altro entrambe reperibili presso le sezioni del Tiro a Segno Nazionale e quindi destinate anche ai civili) non potevano considerarsi munizioni di guerra. Il consulente di parte precisava che seppure in dotazione alle Forze Armate e alle Forze dell’Ordine, tale mera destinazione non ne determinava il carattere bellico e che anzi le munizioni calibro 9x19 hanno una potenzialità offensiva minore rispetto a quelle calibro 9x21 sia a causa della minor carica presente nel bossolo (di due millimetri più corto), sia perché la blindatura della palla la rende non deformabile e quindi meno devastante e letale. Con sentenza in data 11/2/2013 il Tribunale condannava l’imputato alla pena di 1 anno e 4 mesi di reclusione ritenendo perfezionato il delitto di detenzione di munizioni da guerra di cui all’art.2 della legge n.895/1967 in relazione a tutte le cartucce sequestrate, e cioè sia quelle calibro 9x21 che quelle calibro 9x19. Ciò nonostante il capo d’imputazione avesse contestato, con riferimento alle munizioni calibro 9x21, la violazione dell’art.697 c.p. anziché quella ben più grave di cui all’art.2 della Legge n.895/1967. Il difensore proponeva appello contro detta sentenza deducendo, tra l’altro, alla luce degli atti a disposizione del giudice di primo grado (tra cui il verbale di sequestro dei Carabinieri, la testimonianza e l’elaborato scritto del consulente tecnico balistico della difesa), l’errata qualificazione giuridica che meglio doveva essere circoscritta nella fattispecie contravvenzionale di cui all’art.697 c.p. (in relazione a tutte le munizioni sequestrate o quantomeno in relazione alle munizioni calibro 9x21) anziché a quella delittuosa di cui all’art.2 legge n.895/1967. Di conseguenza l’imputato andava rimesso in termini, ai sensi dell’art.141 bis disp. att. c.p.p., dalla facoltà di chiedere di essere ammesso all’oblazione. Con sentenza del 25.10.2013 la Corte di Appello, in parziale accoglimento del gravame di merito, derubricava (con riferimento alle munizioni calibro 9x21) il reato di detenzione di munizioni da guerra (art.2 legge n.895/1967) in quello di detenzione di munizioni per arma comune da sparo (art. 697 c.p.), riducendo conseguentemente la pena irrogata a 10 mesi di reclusione. Confermava dunque la sussistenza del delitto di cui all’art.2 legge n.895/1967 in relazione alle cartucce calibro 9x19. La Corte di Appello motivava tale decisione affermando che le munizioni calibro 9x21 non erano da considerarsi armi da guerra pertanto, come indicato nel capo di accusa il reato pertanto andava derubricato all’ipotesi contravvenzionale di cui all’art 697 c.p., mentre per quanto concerne le munizioni calibro 9x19 veniva affermata la loro caratteristica di armi da guerra, ribadendo come a dizione dell’art. 2 della L. 110/75, come modificata dal D.L.gs. 204/2010, fosse necessario rilevare come sia vietata l’introduzione nel territorio dello stato e la loro vendita, salvo che siano destinate al munizionamento delle Forze Armate o dei corpi armati dello Stato o all’esportazione. Il difensore proponeva ricorso per cassazione contro detta sentenza denunciando, tra l’altro, l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale ai sensi dell’art.606 lettera c) c.p.p. e l’illogicità e contraddittorietà della motivazione ai sensi dell’art.606 lettera e) c.p.p. in relazione a quanto accertato mediante la consulenza tecnica balistica e la testimonianza del consulente tecnico balistico e al verbale di sequestro in atti, acquisiti agli atti a disposizione del giudice di primo grado. Con sentenza in data 11.11.2014 la Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, accoglieva parzialmente il ricorso pronunciando l’annullamento senza rinvio della sentenza di appello e rinviando ad altra sezione della Corte territoriale esclusivamente ai fini della rideterminazione della pena. La Corte di legittimità, tornando nuovamente sul tema posto col ricorso (si vedano le sentenze n.12737 del 20.3.2012, rv 252560; n.52170 del 2014 e n.52526 del 2014), ribadiva (anche mediante riferimenti in materia tecnico-balistica di notevole rilievo e competenza) che le munizioni calibro 9x19 non possono essere qualificate, a fini penali, come munizioni da guerra. La motivazione articolata dai giudici di Piazza Cavour può essere riassunta come segue. Il criterio legale che caratterizza le munizioni e le armi da guerra è il possesso del requisito della spiccata potenzialità offensiva contenuto nell’art.1, commi 1 e 3, della legge n.110 del 1975. In tema di armi il requisito tipico e individualizzante dell’appartenenza del modello di pistola calibro 9x19 alla categoria delle armi da guerra (o tipo guerra) è contraddetto e messo in crisi dalla pacifica qualificazione normativa di arma comune da sparo della pistola semiautomatica calibro 9x21 destinata al mercato civile e liberamente vendibile ai privati in possesso dell’apposita licenza rilasciata dall’Autorità di P.S., comunemente detto “ porto d’armi ” (per uso sportivo o per uso difesa personale esso sia). La pistola semiautomatica calibro 9x21, tipica arma corta comune da sparo, possiede caratteristiche tecniche e capacità balistiche pressoché identiche (anzi a dire il vero superiori) a quelle con munizionamento 9x19 in dotazione alle Forze Armate e alle Forze dell’Ordine. L’unica differenza tra questi due modelli è il fatto che la pistola semiautomatica 9x21 è camerata per le cartucce calibro 9x21 dotate di un bossolo più lungo di 2 mm e di una potenza di sparo certamente non inferiore (anzi superiore) a quella della cartuccia 9 parabellum che costituisce, in genere, una delle cartucce per pistola più diffuse e utilizzate al mondo (anche al di fuori dell’impiego militare e da parte delle forze di polizia) perché unisce una traiettoria piatta a un moderato contraccolpo, oltre che a un discreto “potere d’arresto”. L’esclusione dell’intrinseca spiccata potenzialità offensiva, tipica invece del munizionamento per armi da guerra (o tipo guerra, secondo la definizione contenuta nell’art.1 comma 2 della legge n. 110 del 1975), della cartuccia calibro 9 parabellum è confermata (come del resto aveva affermato il Consulente Tecnico balistico della difesa sentito nel giudizio di primo grado) dall’esistenza e dalla sua commerciabilità, sul mercato italiano, di munizioni per arma comune da sparo dotate di una capacità di offesa alla persona superiore (come ad esempio il calibro 9x33), liberamente e legittimamente detenute da soggetti privati (naturalmente purché muniti di licenza) nonché - soprattutto - dalla circostanza che armi lunghe da fuoco camerate per cartucce del medesimo calibro 9 parabellum , come la carabina Thureon Defense di fabbricazione USA, hanno recentemente ottenuto dal Banco nazionale di prova di Gardone Valtrompia (BS), la certificazione di armi comuni da sparo importabili e commerciabili anche in Italia. La conclusione che ne consegue è che la qualificazione in termini di arma da guerra della pistola semiautomatica camerata per l’utilizzo di munizioni 9 parabellum non può discendere da un – inesistente – carattere intrinseco della stessa come arma destinata, in forza di una naturale potenzialità offensiva, all’impiego bellico. Questo trova riscontro – prosegue la Corte – sul piano normativo/sistematico poiché la relativa disciplina é contenuta non già nell’art.1 della legge n.110 dei 1975 (che definisce, come si é visto, le armi da guerra, le armi tipo guerra e le munizioni da guerra), ma nel successivo art.2, che definisce le munizioni comuni da sparo, prevedendo – al comma 2 – il divieto di fabbricazione, di introduzione nel territorio dello Stato e di vendita del relativo modello di armi corte da fuoco “ salvo che siano destinate alle forze armate o ai corpi armati dello Stato, ovvero all’esportazione ” cosi presupponendo che, in mancanza di tale divieto, le armi stesse sono commerciabili nello Stato secondo la disciplina delle armi comuni da sparo posto che, se si trattasse di armi da guerra rientranti nella definizione dell’art.1, l’importazione in Italia e la vendita ai soggetti privati sarebbe di per sé proibita dalla relativa qualità, senza la necessita di stabilire un apposito divieto al riguardo. Paradossalmente, dunque, il suddetto inciso della Corte ( “salvo che siano destinate alle forze armate o ai corpi armati dello Stato, ovvero all’esportazione”) fa sì che la destinazione della munizione 9x19 parabellum ad armi destinate alle Forze dell’Ordine e alle Forze Armate concorra ad escluderne il carattere bellico. II divieto assoluto, stabilito dalla normativa nazionale per i soggetti privati, di acquistare, detenere e portare (ovviamente con le debite autorizzazioni) il modello di pistola calibro 9x19 parabellum è dunque funzionale ad assicurarne la destinazione esclusiva della stessa ed alla dotazione delle forze armate e dei corpi di polizia, a prescindere da una presunta qualità e natura intrinseca dell’arma da guerra dovuta ad una inesistente maggiore potenzialità offensiva delle cartucce 9x19 parabellum il cui impiego sarebbe altrimenti – indifferentemente – proibito anche per le armi da fuoco lunghe. Pertanto la relativa disciplina assolve la funzione non già di tutelare la sicurezza pubblica – inibendo la disponibilità ai soggetti privati di un’arma (e di un munizionamento) dotata di una spiccata pericolosità e azione lesiva tipica delle armi da guerra (che la pistola calibro 9x19 parabellum si é visto non possedere) – bensì di consentire – o per converso di escludere – l’immediata riferibilità, in termini di tendenziale certezza, all’azione delle Forze Armate o di Polizia, in caso di sparo o di conflitto a fuoco, dei bossoli dei colpi esplosi da armi corte il cui calibro corrisponda (o viceversa non corrisponda) allo specifico modello della pistola di servizio in dotazione esclusiva ai Corpi Armati dello Stato, posto che la similare cartuccia calibro 9x21, proprio a causa della maggiore lunghezza del bossolo di 2 millimetri, non può essere camerata nelle pistole munite di una camera di scoppio lunga solo 19 millimetri, come appunto quelle in dotazione ai corpi di polizia o armati. La destinazione, per quanto esclusiva, dell’armamento delle Forze Armate e dei Corpi Armati dello Stato non può pertanto assumere, nel caso della pistola semiautomatica calibro 9x19 parabellum , alcun ruolo decisivo ai fini della sua classificazione e qualificazione giuridica come arma da guerra, che – a seguito dell’abrogazione dell’art.7 della legge n.110 dei 1975 e per effetto della novella di cui all’art.14 della legge n.183 del 2011, con conseguente soppressione, con decorrenza dall’1 gennaio 2012, del catalogo ivi previsto – non é più possibile ricavare, per esclusione, neppure dalla mancata iscrizione nel catalogo nazionale delle armi comuni da sparo. Un’importanza fondamentale rivestono invece, per quanto concerne gli effetti della risoluzione della questione di diritto inerente la corretta qualificazione che deve attualmente riconoscersi alla pistola calibro 9x19, la sopravvenienza della norma di cui all’art.23, comma 12 sexiesdecies , della legge 7 agosto 2012 n.135 (di conversione in legge, con modificazioni, dei D.L. 6 luglio 2012 n. 95) che, a seguito dell’abolizione del catalogo previsto dall’art.7 della legge n.110 del 1975, ha attribuito al Banco nazionale di prova di cui all’art.11 comma 2 della medesima legge, la competenza di verificare, per ogni arma da sparo prodotta, importata o commercializzata in Italia, la qualità di arma comune da sparo nonché le conseguenti determinazioni che sono state adottate dal suddetto Banco nazionale, in attuazione dei nuovi compiti assegnati dalla legge nella procedura per la classificazione e il riconoscimento delle armi comuni da sparo. In particolare, per quanto qui interessa, deve essere richiamata la deliberazione, pubblicata sul sito internet ufficiale del Banco Nazionale di Prova di Gardone Valtrompia (BS), adottata all’esito della riunione del consiglio di amministrazione dell’1 marzo 2013 e approvata dal Ministero dello Sviluppo Economico in data 19 aprile 2013. Questa, con specifico riguardo alle armi da fuoco corte semi automatiche calibro 9x19 parabellum , dopo aver dato atto che la normativa nazionale di cui all’art.5 D. Lgs. n.204/2010 ne consente “ la fabbricazione e l’esportazione secondo la normativa delle armi comuni ”, ma tuttavia ne vieta la commercializzazione in Italia ai soggetti privati, precisa che “ per evitare equivoci ” (come testualmente recita la risoluzione) le armi stesse non saranno inserite nell’elenco delle armi classificate, ma che sul certificato di prova rilasciato al produttore/importatore, il Banco dichiarerà che si tratta di arma comune non commercializzabile in Italia. Alla stregua di tale ultima determinazione proveniente dall‘Ente istituzionalmente deputato a verificare la qualità di arma comune da sparo delle armi da fuoco prodotte o importate in Italia, non è dunque possibile dubitare della qualità di arma comune da sparo che deve riconoscersi, sul piano normativo, alla pistola semi automatica calibro 9x19, camerata per le munizioni calibro 9x19 parabellum , il cui inserimento nell’elenco delle armi commercializzabili in Italia ai soggetti privati è inibito soltanto dal divieto normativo – contenuto nell’art.2 comma 2 della Legge n.110/1975 – che ne riserva la destinazione d’uso alle Forze Armate e ai Corpi Armati dello Stato, e non dalla natura e qualità intrinseca del modello di pistola in oggetto che è e resta quella di un’arma comune da sparo. Tale conclusione, coerente e consequenziale a tutte le considerazioni che precedono, è condivisa e recepita dalla Suprema Corte di Cassazione. Pertanto dovrà essere affermata la natura di arma comune da sparo della pistola Beretta calibro 9x19 parabellum e la conseguente natura di munizioni per arma comune da sparo delle relative cartucce calibro 9x19 costituenti la naturale dotazione dell’arma da fuoco in questione; munizioni, queste, si ribadisce, prive delle caratteristiche di micidialità e della forza dirompente che costituiscono il discrimine per poterle qualificare come munizionamento da guerra (v. sentenza Cassazione Sezione 1^ Penale, n.9068 del 3.2.2011, Rv. 249874 ) . Dalle considerazioni sopra esposte consegue che – in accoglimento del primo motivo di ricorso – la detenzione delle cartucce è stata riqualificata ai sensi dell’art.697 c.p. anche per quanto riguarda le munizioni calibro 9x19 parabellum (trattandosi di condotta che rientra nell’ambito applicativo di detta norma incriminatrice, come da ultimo ribadito per le munizioni per arma comune da sparo dalla Cassazione Sezione 1^ Penale n.51450 del 15.7.2014, rv 261583), con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma ai soli fini della conseguente rideterminazione della pena. In conclusione la Corte di Cassazione, investita del gravame della sentenza della Corte di Appello, accoglieva il primo motivo di ricorso statuendo come “ la detenzione delle cartucce dovesse essere riqualificata nella violazione dall’art.697, anche per quanto riguarda le munizioni calibro 9x19”(trattandosi di condotta che rientra nell’ambito applicativo di detta norma incriminatrice, come da ultimo ribadito per le munizioni per arma comune da sparo da Sez. I n. 51450 del 15.7.2014, rv 261583)” e rinviando alla Corte di Appello ai soli fini della rideterminazione della pena. CONSIDERAZIONI Alla luce di quanto statuito con la suddetta di legittimità numero 11172 del 2015 , non appare più possibile dubitare della qualità di arma comune da sparo che deve riconoscersi, sul piano normativo, alla pistola semiautomatica calibro 9×19, camerata per le munizioni calibro 9 parabellum e di conseguenza sulla natura di munizioni per arma comune da sparo delle relative cartucce calibro 9×19, che nel caso in esame avevano determinato notevoli problematiche circa la corretta qualificazione giuridica delle stesse. Il notevole cambiamento di prospettiva operato dalla Corte di Cassazione deriva dal fatto che il fondamentale criterio della spiccata potenzialità offensiva (che caratterizza la definizione normativa di arma da guerra e delle munizioni destinate al loro caricamento) è stato contraddetto dalla pacifica qualificazione normativa di arma comune da sparo della pistola semiautomatica calibro 9x21 liberamente commerciabile nel mercato interno e che costituisce ad oggi un modello di arma corta da fuoco con caratteristiche pressoché identiche (ed anzi superiori) a quelle del modello 9x19 rispetto alla quale, l'unica differenza è rappresentata dal fatto di essere camerata per le cartucce calibro 9x21 IMI, dotate di bossolo più lungo di 2 mm e di una potenza di sparo anche superiore a quella della cartuccia 9 parabellum. In tal senso, l'esclusione del criterio della spiccata potenzialità offensiva (tipico del munizionamento per armi da guerra) è confermato dal fatto che in commercio, nel mercato italiano, si trovano anche munizioni per arma comune da sparo dotate di una superiore capacità di offesa alla persona (es: calibro 357 magnum 9x33 mm R) che sono liberamente detenibili da privati, ovviamente nel rispetto della normativa di P.S. in materia di armi e munizioni. In estrema analisi, pertanto, si può quindi che la destinazione (per quanto esclusiva) ad armamento delle Forze Armate o alla Forze dell’Ordine non può assumere (come nel caso della semiautomatica calibro 9x19) alcun ruolo decisivo ai fini della classificazione della stessa come arma da guerra, di conseguenza, il porto di munizioni calibro 9x19, non può essere fatto rientrare nella fattispecie di reato di detenzione di armi da guerra. La classificazione della pistola calibro 9 parabellum come arma con spiccata potenzialità offensiva e, pertanto, in dotazione alle sole Forze Armate o alle Forze dell’Ordine, non è pertanto rivolta a tutelare la sicurezza pubblica, ma pare esclusivamente volta a delineare un ambito entro il quale può esserne fatto uso e nel quale sia facilmente individuabile il soggetto agente e il munizionamento usato. Pertanto, se mancasse tale divieto queste armi sarebbero commerciabili all’interno dello Stato secondo la disciplina delle armi comuni da sparo e, posto che se si tratti di armi da guerra secondo l’art.1 della L. 110/75, sarebbe proibita la vendita ai privati senza la necessità di un apposito divieto. Vale pertanto la pena di sottolineare come la destinazione all’armamento delle Forze Armate della pistola semiautomatica 9 parabellum non può ergersi, secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione, ad elemento atto a classificarla come arma da guerra, così come detta destinazione non può ergersi nemmeno ad elemento atto a classificare la cartuccia 9 parabellum come munizione da guerra.

Pubblicazione legale

Tribunale di Roma – Adozione tra maggiorenni anche in assenza del requisito della differenza di età di 18 anni tra adottante e adottando – Lettura costituzionalmente orientata dell’art.291 c.c. alla luce dell’art.30 Costituzione e dell’art.8 della CEDU.

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Il Tribunale di Roma, con sentenza del 16 novembre 2022, ha confermato l’orientamento della Corte di Cassazione che tiene conto dell’art.8 della CEDU e dell’art.30 della Costituzione chiarendo, secondo una lettura costituzionalmente orientata dell’art.291 del Codice Civile, che l’adozione tra maggiorenni può essere dichiarata anche in assenza del requisito oggettivo della differenza di diciotto anni di età tra adottante e adottando. Può certamente dirsi che in materia di adozione tra maggiorenni il mero dato anagrafico rappresentato dalla differenza minima di età tra adottante e adottando di 18 anni costituisce ormai un elemento agevolmente superabile in presenza di determinati requisiti in base a un orientamento della Corte di Cassazione al quale il Tribunale di Roma ha ugualmente pronunciato l’adozione. Nel caso di specie tra l’adottante (ultratrentacinquenne e quindi conforme al dettato dell’art.291 comma 1 c.c.) e l’adottanda vi era una differenza di età inferiore a 18 anni nonché un particolare legame affettivo e solidaristico perfettamente assimilabile al rapporto padre - figlia. In particolare la madre dell’adottanda aveva molti anni prima contratto matrimonio con l’adottante ed era successivamente deceduta, cosicché l’adottante e l’adottanda (tra l’altro entrambi gravati da serie patologie) avevano continuato a vivere in un rapporto profondamente simbiotico sostenendosi l’uno con l’altra. Come noto, il mero dato letterale dell’art.291 c.c. esclude la possibilità di pronunciare l’adozione tra due persone maggiorenni che abbiano una differenza di età inferiore a 18 anni. Ma, come già affermato dalla Corte di Cassazione (da ultimo con la sentenza numero 7667 del 3.4.2020), tale norma va letta in senso costituzionalmente orientato alla luce dell’art.30 della Costituzione e dell’articolo 8 della Convenzione Europea per la Protezione dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali. Più precisamente, il limite posto dal Legislatore, nel contesto sociale odierno, secondo la Corte, costituisce un ingiustificato ostacolo che costituisce un’indebita ingerenza dello Stato nell’assetto familiare che si pone in contrasto col citato art.8 della CEDU. Infatti, secondo quanto previsto da tale articolo “ ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza” . La nozione di “vita privata” elaborata dalla Giurisprudenza della Corte di Strasburgo è per di più una nozione ampia e non soggetta ad una definizione esaustiva che comprenda l’integrità fisica e morale della persona che dunque può includere numerosi aspetti dell’identità di un individuo. Il diritto al rispetto della “vita privata” implica che ciascuno possa stabilire, in sostanza, la propria identità. Elemento dell’identità di ciascuno, attinente, dunque, all’ambito della “vita privata” è stato ritenuto anche l’accertamento, nel diritto interno, del legame di filiazione rispetto al genitore biologico. L’articolo 8 della CEDU impone, infatti, allo Stato obblighi positivi di tutela effettiva delle “ vita privata e familiare ”, secondo la nozione ampia elaborata dalla Giurisprudenza delle Corti sovranazionali, comprensiva di ogni espressione della personalità e dignità della persona, rispetto alla quale il limite della differenza di età rappresenta “ un’indebita anacronistica ingerenza dello Stato nell’assetto familiare” . Alla luce di tali principi maturati “ nel mutato contesto sociale ” che imponeva una “rivisitazione storico-sistematica dell’istituto” in maniera tale da consentire la ragionevole riduzione del divario di età “ al fine di tutelare le situazioni familiari consolidatesi da lungo tempo e fondate su una comprovata affectio familiaris ” e preso atto che era stata documentato che tra l’adottante e l’adottanda vi era un “ fortissimo legame affettivo, quasi genitoriale, oggi maggiormente rafforzato in ragione delle precarie condizioni di salute di entrambi ”, il Tribunale, inserendosi nella scia giurisprudenziale descritta, ha accolto la richiesta di pronuncia dell’adozione. Avv. Alessio Tranfa

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