Nella mia professione nutro una particolare predilezione per il mondo dell'impresa. Assisto le imprese sia in ambito civilistico (contenzioso fiscale, contrattualistica, recupero crediti, consulenza in ambito di rapporti tra soci e di management, contenzioso di diritto industriale, assistenza nella crisi di impresa, diritto del lavoro) sia in ambito di diritto penale (fallimentare, tributario, societario e responsabilità ex D.Lgs. 231/01). Mi avvalgo del costante confronto con professionisti esperti in ambito contabile, fiscale e di consulenza bancaria.
Ho maturato esperienza nell'assistenza alle imprese in tema di contenzioso societario, che riguarda sia i rapporti economico/patrimoniali tra soci e impresa, sia la tutela dell'impresa in caso di mala gestio degli amministratori.
Consulenza a società e imprese individuali in ambito di stesura e revisione di contratti commerciali, predisposizione di corrispondenza con clienti, fornitori, enti pubblici e privati. Assistenza nella gestione del contenzioso ordinario. Recupero crediti insoluti. Ricorso a procedure di mediazione e arbitrato.
Assisto le aziende sia nell'ambito del contenzioso amministrativo/tributario a seguito di atti impositivi emessi dall'Agenzia delle Entrate sia in sede penale, qualora vengano contestati reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000.
Diritto bancario e finanziario, Marchi, Fusioni e acquisizioni, Antitrust e concorrenza sleale, Fallimento e proc. concorsuali, Proprietà intellettuale, Brevetti, Franchising, Diritto assicurativo, Recupero crediti, Pignoramento, Contratti, Diritto del lavoro, Diritto penale, Privacy e GDPR, Sicurezza ed infortuni sul lavoro, Licenziamento, Omicidio, Sostanze stupefacenti, Aste giudiziarie, Incidenti stradali, Multe e contravvenzioni, Domiciliazioni, Risarcimento danni.
Si pone la questione circa la sorte del finanziamento alla società del socio cessionario della quota. Ci si chiede infatti se con la cessione della propria quota sociale il socio trasferisca automaticamente anche i propri diritti relativi ai versamenti di denaro effettuati alla società nel corso del tempo a titolo di finanziamento. Al fine di chiarire tale aspetto occorre innanzitutto chiarire la distinzione tra i diversi tipi di finanziamento che il socio può erogare a favore della società. Il socio può innanzitutto finanziare la società mediante versamenti in conto capitale o a fondo perduto. Tali forme di finanziamento non sono qualificabili come mutui, quindi il socio non consegue il diritto al relativo rimborso. Vengono iscritti nel passivo dello stato patrimoniale tra le riserve discrezionalmente utilizzabili dalla società per ripianare eventuali perdite o per aumentare gratuitamente il capitale sulla base dell'assunto per cui sono acquisiti definitivamente al patrimonio della società alla stregua di capitale di rischio. Il socio, inoltre, può finanziare la società a titolo di mutuo, al fine di conservare il diritto a vedersi rimborsare quanto versato. Tali rapporti, invero, sono iscritti al passivo dello stato patrimoniale come debiti verso soci. Il socio, quindi, può sempre pretendere il rimborso di quanto versato, salva la rigida applicazione della norma sulla postergazione nell'ambito delle società a responsabilità limitata (art. art. 2467 c.c.). Orbene, tornando alla questione di cui si discute, chiarita la duplice natura dei finanziamenti erogabili dal socio alla società, la cessione di una partecipazione al capitale sociale comporta il trasferimento della corrispondente parte del patrimonio sociale, comprese le riserve formate dai versamenti dei soci in conto capitale o a fondo perduto non vengono automaticamente trasferiti, invece, i crediti derivanti dai versamenti effettuati a titolo di mutuo o dal diritto al rimborso di versamenti effettuati in conto futuro aumento di capitale successivamente non deliberato dalla società Cedere la propria quota sociale a un soggetto terzo, quindi, non impica automaticamente anche la cessione del proprio credito per finanziamento socio nei confronti della società in assenza di una specifica pattuizione tra le parti. Come recentamente chiarito dal Tribunale di Milano, Sez. Specializzata Imprese n. 6042 del 09.07.2021 "costituisce principio di diritto comune che alla cessione di una partecipazione societaria se non disposto chiaramente dalle parti, non consegue quale naturale negotii il trasferimento ad opera del socio cedente dei crediti da questi vantati nei confronti della società , terza estranea al contratto, in quanto aventi fonte in un rapporto connesso ma distinto da quello sociale e quindi estranei al novero dei diritti patrimoniali inerenti alla partecipazione" . In sede di negoziazione della cessione delle quote societarie ad un terzo, quindi, è opportuno pattuire chiaramente la sorte dei crediti vantati nei confronti della società per finanziamenti erogati a titolo di mutuo. Avv. Marco Napolitano
Da quando decorre il termine di prescrizione della liquidazione della quota del socio uscente? Come noto la cessazione per morte, recesso, esclusione attribuisce al socio cessato o ai suoi eredi il diritto alla liquidazione della quota di una società in nome collettivo , a differenza dell'ipotesi in cui la cessazione avvenga per trasferimento a titolo oneroso o per donazione. I soci cessati (o i loro eredi), quindi, hanno diritto a ricevere una somma di denaro corrispondente al valore della quota entro sei mesi dalla cessazione del rapporto sociale. Unico soggetto obbligato a liquidare la quota è la società e non già i soci personalmente, come chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. 11/02/1998 n. 4103; Cass. 10/06/1998, n. 5757) sulla base del principio per cui la società, seppur priva di personalità giuridica e con autonomia patrimoniale imperfetta, è pur sempre soggetto di diritto titolare dei beni sociali e dotata di capacità giuridica sostanziale e processuale nei rapporti esterni. Ne consegue che la proposizione della domanda di liquidazione della quota va esperita esclusivamente nei confronti della società, senza necessità di chiamare in causa i soci che non sono litisconsorti necessari. Dal momento che la norma prevede che la società sia tenuta ad adempiere entro sei mesi dalla data di scioglimento del rapporto sociale, ciò implica che essa abbia la facoltà di eseguire la prestazione sino alla scadenza di detto termine e che, quindi, il socio non possa predetenere la prestazione prima di allora. Ne consegue che alla scadenza del termine ai sensi dell'art. 2289, comma 4 c.c., la società è costituita automaticamente in mora e sono dovuti gli interessi di mora e il risarcimento del danno per svalutazione monetaria. Alla luce di quanto sopra la Suprema Corte di Cassazione ha recentemente confermato l'orientamento per cui il termine di prescrizione del diritto a ricevere la liquidazione della quota inizi a decorrere da quando la prestazione dovuta al socio uscente diventi esigibile. Essendo di sei mesi il termine per l'adempimento posto a favore della società, come detto sopra, la prescrizione della liquidazione della quota del socio uscente cominicia a decorrere solo dopo la scadenza di tale termine, in quanto il creditore prima non può esigere la prestazion e (Cass. 13 gennaio 2022, n. 1200). Il termine prescrizionale può essere interrotto nelle forme e con le ordinarie modalità previste dall'ordinamento. E' significativo, peraltro, l'orientamento giurisprudenziale per cui l'onere di provare il valore della quota del socio uscente di una società di persona incomba sui soci superstiti e non sul socio uscente, in virtù del principio di prossimità della prova (Cass. 19.02.2020, n. 4260). Nel caso in cui si perfezioni la prescrizione della liquidazione della quota del socio uscente , la quota non liquidata viene automaticamente ripartita tra i soci superstiti in proporzione alle partecipazioni di ciascuno. Avv. Marco Napolitano
L’acquisto di partecipazioni societarie da parte di uno dei coniugi può comportare che anche all’altro coniuge sia attribuita la qualifica di socio? Occorre innanzitutto chiarire che se i coniugi, al momento dello scambio dei consensi, optano per il regime della separazione legale dei beni la risposta è negativa. Per i coniugi in regime di separazione legale dei beni l’acquisto di partecipazioni societarie da parte di uno non sortisce alcun effetto sull’altro. Le due posizioni restano nettamente separate e l’altro coniuge non acquisisce alcun diritto su quelle partecipazioni. La questione si pone, invece, per i coniugi che abbiano optato per il regime della comunione legale dei beni. La regola generale prevede che, salvo che non si sia optato per il regime di separazione, i beni acquistati durante il matrimonio, anche da uno solo dei coniugi, rientrano nella comunione legale (art. 177 c.c.) e sono in comproprietà indisponibile al 50% con l’altro coniuge. Ci si chiede, quindi, se questa regola si applichi anche alle partecipazioni societarie. Occorre distinguere due ipotesi che riguardano, rispettivamente, l’ipotesi di beni acquistati in regime di comunione legale che conservano l’esclusiva proprietà di uno dei coniugi e quelle che, al contrario, rientrano nella comunione legale: 1 – le partecipazioni societarie personali Gli acquisti di partecipazioni societarie (azioni e quote) effettuate da uno solo dei coniugi sono esclusi dalla comunione legale quando sono avvenute prima del matrimonio o durante il matrimonio per effetto di donazione, testamento o con il corrispettivo del trasferimento di beni personali a condizione ciò sia espressamente dichiarato nell’atto di acquisto. In questo caso, quindi, l’acquisto di partecipazioni societarie pagandola con un bene personale e ciò sia espressamente menzionato nell’atto, queste sono di proprietà unicamente del coniuge acquirente senza che l’altro possa vantare alcun diritto. 2 – le partecipazioni societarie in comunione Se non si verificano le condizioni di cui al punto precedente, invece, si ha l’ipotesi in cui l’acquisto della partecipazione sociale da parte di uno dei coniugi rientra nella comunione legale. In questo caso, tuttavia, occorre distinguere due ulteriori ipotesi: A) Nel caso in cui la partecipazione comporta la responsabilità illimitata del socio (s.n.c., accomandatario di s.a.s. e s.a.p.a.) oppure quando essa è acquistata come bene destinato all’esercizio dell’impresa, essa rientra solo nella comunione de residuo o “non immediata” (art. 178 c.c.) che comprende tutti quei beni che normalmente non cadono nella comunione legale ma ne fanno parte solo al momento del relativo scioglimento se ancora esistenti o non consumati. Anche gli aumenti della quota di partecipazione avvenuti durante il matrimonio con aumento di capitale nonché gli utili di esercizio rientrano nella predetta comunione “de residuo” . La qualifica di socio, pertanto, spetta solo al coniuge sottoscrittore della quota, ma l’altro, solo nel momento in cui la comunione legale si sciolga, può pretendere che le somme prelevate siano nuovamente versate in comunione. B) Se, invece, le partecipazioni comportano responsabilità limitata (s.p.a., s.r.l. o accomandante di s.a.s. o di s.a.p.a.) o se sono acquistate come investimento personale, esse entrano immediatamente in comunione. Gli aumenti della quota (mediante, ad esempio, aumento di capitale o offerte in opzione) rientrano anch’esse, immediatamente, nella comunione. Quanto alla qualifica di socio occorre distinguere: se la comunione legale dei beni è dichiarata al momento dell’acquisto, entrambi i coniugi sono automaticamente soci e possono esercitare i diritti sociali e gestire la partecipazione secondo le norme previste dalla comunione legge. Se un solo dei coniugi cede le quote, l’atto resta valido ma su richiesta dell’altro coniuge il primo può essere obbligato a ricostituire la comunione o se ciò non è possibile, a pagare l’equivalente; se la comunione non è dichiarata al momento dell’acquisto, nei confronti della società d iviene socio soltanto il coniuge sottoscrittore e, quindi, solo quest’ultimo può esercitare diritti ed è destinatario degli obblighi sociali, mentre la comunione rileva solo nei rapporti interni tra coniugi. In conclusione, quindi, un coniuge diventa automaticamente socio della società la cui partecipazione sia acquistata dall’altro coniuge nel caso in cui ciò riguardi una società di capitali, l’acquisto avvenga in regime di comunione legale dei beni e ne sia fatta espressa menzione nell’atto.
Oggi sempre più persone vengono inserite nel registro informatico dei protesti per aver saltato il pagamento di una rata del mutuo o del finanziamento per l’acquisto di un bene come l’automobile. Pertanto se queste persone volessero richiedere un nuovo prestito la domanda viene sicuramente respinta a causa della segnalazione come cattivo pagatore . Così come in caso di protesto viene revocata la carta di credito. Negli ultimi anni un eventuale cattivo pagatore non solo è segnalato nel registro informatico dei protesti, ma anche in banche dati come CTC, Experian, Crif e Banca d’Italia. Cos’è il protesto? Il protesto è un’atto con cui un Pubblico Ufficiale (notaio, ufficiale giudiziario, segretario comunale) autorizzato constata la mancata accettazione di una cambiale tratta o il mancato o il rifiuto del pagamento di una cambiale, di un vaglia cambiario o di un assegno. In caso di cambiale il protesto deve essere levato entro 2 giorni rispetto alla data di pagamento. In caso di assegno il protesto viene levato entro il termine di presentazione dell’incasso che è di 8 giorni se l’assegno è emesso nello stesso comune, 15 giorni in caso di emissione fuori dal comune, 20 giorni per l’assegno estero/europeo e 60 giorni per l’assegno extracomunitario. Il Pubblico Ufficiale quando constata il mancato pagamento entro il giorno successivo alla fine del mese ha l’onere di comunicare il nominativo alla Camera di Commercio competente per territorio l’elenco dei protesti verbalizzati che entro 10 giorni devono essere pubblicati nel registro dei protesti cosi da rendere la notizia accessibile e consultabile al pubblico al fine di tutelare chiunque abbia rapporti economici con il protestato; tale registro viene aggiornato mensilmente come predisposto dalla legge n. 235/2000, entrata in vigore il 27 dicembre 2000. Il registro dei protesti contiene tutte le informazioni relative al protesto contestato, compresi i dati anagrafici del protestato. Come si può cancellare il protesto? Ciascun protesto è conservato nel registro informatico per 5 anni dalla data di registrazione. Ciò significa che un eventuale mancato pagamento avvenuto nel 2021 sarà presente nel registro informatico dei protesti fino al 2026. La cancellazione prima di questo termine, dopo il pagamento del debito, è consentita in 3 casi: 1. Dopo il pagamento entro 12 mesi dalla notifica del protesto (con maggiorazione del 4/1000 dell’importo segnato su cambiale o assegno e rimborso spese). La cancellazione avviene pressoché in automatico; 2. Con l’emissione del decreto di riabilitazione da parte del Tribunale su istanza presentabile mediante patrocinio di un avvocato che è necessaria se l’assegno o la cambiale sono stati pagati oltre i 12 mesi dalla notifica del protesto. A tal fine è necessario presentare istanza di cancellazione affinché il Tribunale certifichi il possesso dei seguenti requisiti: aver effettivamente pagato l’assegno o la cambiale e il non aver altri protesti a carico. Tale decreto di riabilitazione deve poi essere presentato alla Camera di Commercio unitamente alla ricevuta di pagamento, che provvederà a cancellare il protesto dal registro; 3. In caso di errori riscontrati nella notifica del protesto. Dopo 5 anni il protesto viene automaticamente cancellato per legge senza fare alcuna domanda; naturalmente non si estingue il debito.
Ammissione al passivo e interruzione della prescrizione verso il coobligato. L'ammissione al passivo fallimentare determina l'interruzione della prescrizione nei confronti del corrensponsabile solidale ai sensi dell'art. 2055? Sul punto si è spressa la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sentenza 27 aprile 2022, n. 13143, affrontando un caso in cui i soci di due società fiduciarie sottoposte a procedura concorsuale chiamavano in giudizio il Mise (Ministero dello Sviluppo Economico) chiedendone la condanna al risarcimento del danno rappresentanto dalla perdita dei capitali da ciascuno conferiti in quanto l'ente pubblico avrebbe omesso i dovuti controlli sulla corretta amministrazione societaria. L'ordinanza di rimessione alla Suprema Corte, quindi, poneva l'interrogativo se la domanda con cui il socio si era insinuato al passivo della società fiduciaria sottoposta a procedura concorsuale, al fine di ottenere la restituzione del capitale consegnato per la relativa amministrazione, interrompa la prescrizione per la durata della procedura anche nei confronti del Mise cui grava il dovere di vigilanza. Secondo le S.U., quindi, dirimendo un contrasto sorto sul punto, la presentazione dell'istanza di insinuazione al passivo, equiparabile all'atto con cui si inizia un giudizio, determina ai sensi dell'art. 2945, comma 2 c.c., l'interruzione della prescrizione del credito, con effetti permanenti fino alla chiusura della procedura concorsuale anche nei confronti del condebitore solidale del fallito. L'estensione di tale effetto al terzo obbligato al risarcimento danno implica che quest'ultimo è responsabile, ai sensi dell'art. 2055 c.c., per la perdita subita dagli investitori che hanno proposto istanza di insinuazione al passivo. Le Sezioni Unite, quindi, hanno ribadito e ritenuto prevalente il precedente orientamento secondo cui “ per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l’art. 2055, comma 1, c.c., richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l'unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate ” (cfr. Cass. civ. sez. Unite, 15 luglio 2009, n. 15603). In conclusione, quindi, l’ammissione allo stato passivo di una società fiduciaria sottoposta a liquidazione coatta amministrativa determina l’interruzione della prescrizione per tutta al durata della procedura. Tale effetto si estende anche al soggetto solidalmente obbligato per il risarcimento del danno da perdita dei capitali conferiti. Avv. Marco Napolitano
Come funziona il beneficio di preventiva escussione nelle società di persone? La norma codicistica è apparentemente chiara. Le norme del codice civile Quanto alle società semplici in tema di beneficio di preventiva escussione l'art. 2268 c.c. prevede che il socio, chiamato dal creditore a pagare i debiti dell'intera società, anche quando questa sia in liquidazione, può avvalersi del beneficio di escussione "indicando i beni sui quali il creditore possa agevolmente soddisfarsi". Per le società in nome collettivo e per le società in accomandita semplice l'art. 2304 c.c. afferma che " I creditori sociali, anche se la società è in liquidazione, non possono pretendere il pagamento dai singoli soci, se non dopo l'escussione del patrimonio sociale ". La regola comune del beneficio di preventiva escussione impone, quindi, che per le sole obbligazioni sociali (e non per quelle personali del socio) risponde in via primaria la società con il suo patrimonio e, solo in via sussidiaria e eventuale, i soci illimitatamente e solidalmente con il loro patrimonio personale. Il creditore procedente, per recuperare un proprio credito, potrà quindi aggredire il beni personali del socio personalmente e illimitatamente responsabile solo dopo aver tentato, invano, di aggredire - escutere, appunto - i beni della società. Ma cosa si intende per preventiva escussione dei beni della società? Gli orientamenti giurisprudenziali in tema di preventiva escussione Data la scarna lettera della legge sul punto si è espressa copiosa giurisprudenza. Secondo un orientamento più rigoroso per preventiva escussione deve intendersi un'infruttuosa azione esecutiva nei confronti della società. Il creditore, quindi, può aggredire i beni personali del socio solo quando dimostra di aver avviato un'azione esecutiva (notifica del precetto e pignoramento) che non sia andata a buon fine. In assenza di tale preventiva procedura esecutiva non andata a buon fine, quindi, il creditore non avrebbe titolo per agire nei confronti del socio illimitatamente e personalmente responsabile. Secondo un diverso maggioritario orientamento, da ritenersi ormai consolidato, non occorre l' effettiva escussione del patrimonio della società ma solo la prova della certa infruttuosità dell'esecuzione, quale insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare il credito (C. 18185/2006; C. 2647/1987; C. 4810/1984; C. 4752/1984; C. 4606/1983; A. Milano 29.11.2002; T. Bologna 26.9.1994; T. Pavia 26.6.1993; T. Bologna 18.12.1990). Per poter aggredire i beni del socio personalmente e illimitatamente responsabile non occorre, quindi, che il creditore abbia previamente avviato una procedure esecutiva non andata a buon fine nei confronti della società ma è sufficiente che offra la prova dell'incapienza della società e che quindi qualsiasi esecuzione forzata sarebbe inutile. L'onere della preventiva escussione deve quindi ritenersi assolto quando il creditore sociale dimostri l'insufficienza o l'incapienza del patrimonio sociale. Ciò può avvenire, ad esempio, attingendo informazioni presso i pubblici registri sulla proprietà di beni immobili o mobili registrati in capo alla società, accertando la posizione attuale dei singoli soci (svolgimento di altra attività lavorativa ecc.) o raccogliendo notizie sull'eventuale esistenza di cespiti e magazzino. Provvedimento del Tribunale di Treviso In adesione a tale orientamento si è recentemente espresso il Tribunale di Treviso in sede di opposizione all'esecuzione promossa dal socio accomandatario di una S.a.s., avendo quest'ultimo subito un pignoramento presso terzi personale senza che il creditore avesse previamente tentato un'azione esecutiva nei confronti della società. Il Giudice, nel rigettare l'opposizione, dà atto che il creditore ha ampiamente provato che la società non fosse titolare di un patrimonio sociale idoneo a soddisfare il proprio credito e, pertanto, non sospende l'esecuzione forzata nei confronti del socio personalmente. Avv. Marco Napolitano
Il corso ha trattato la disciplina giuridica del bilancio d’esercizio, del bilancio consolidato e dei bilanci straordinari.
Il corso ha affrontato la tematica delle cause interne e internazionali per responsabilità da prodotto difettoso partendo da un inquadramento storico-normativo generale, per poi affrontare la responsabilità da prodotto difettoso nell'abrogato D.P.R. 224/1988 e nell'attuale Codice del Consumo. Infine ha approfondito alcuni aspetti internazionalprivatistici e di diritto comparato.
Gli organi delle procedure concorsuali in caso di fallimento (curatore), liquidazione coatta amministrativa (commissario liquidatore) o amministrazione straordinaria (commissario straordinario) sono legittimati dalla legge a promuovere tutte le azioni di responsabilità in tema di responsabilità degli amministratori e dei sindaci, compresa l’azione spettante ai creditori sociali nei confronti degli amministratori e l’azione sociale esercitata dai soci ai sensi dell’art. 2393 bis c.c.. Per quanto concerne il socio e il terzo danneggiato, invece, essi conservano la legittimazione ad esercitare l’azione ex art. 2395 c.c. anche nel corso di una procedura concorsuale, pur sempre se siano rispettate i rigodi principi di prova de danno subito. Natura dell’azione L’art 146, comma 2 L.Fall., come detto, attribuisce al curatore la legittimazione esclusiva all’esercizio dell’azione di responsabilità, sia con riferimento all’azione sociale (art. 2393 e 2393 bis c.c.) sia all’azione di responsabilità dei creditori sociali (art. 2394 c.c.). Tale tipologia di azione ha la caratterisica di cumulare in sé le diverse azioni di cui sopra, rispettivamente a favore della società e dei creditori sociali. Essa assume quindi un carattere unitario ed inscindibile finalizzato alla reintegrazione del patrimonio sociale a garanzia dei creditori e dei soci per il tramite delle caratteristiche e degli obiettivi di ciascuna di esse. La cennata caratteristica si ripercuote altresì sul piano processuale, dal momento che nel caso in cui l’attore non specifichi il titolo nella domanda giudiziale non determina la relativa nullità per indeterminatezza ma fa presumere, in assenza di un contenuto anche implicitamente diretto ad escludere una delle due azioni di responsabilità, che il curatore abbia inteso esercitarle entrambe congiuntamente (Cass. n. 23452/2019). Ciò implica altresì che il curatore può indifferentemente formulare le istanze risarcitorie nei confronti degli amministratori e dei sindaci invocando sia i presupposti della responsabilità contrattuale relativo all’azione esperibile dalla società (art. 2393 c.c.) sia quelli della responsabilità extracontrattuale tipico dell’azione esperibile dai creditori sociali (art. 2394 c.c.). Ciò implica che la curatela attrice può avvantaggiarsi del particolare regime di prova della colpa che è presunta nella responsabilità contrattuale, a differenza di quanto concerne la responsabilità aquiliana, nonché la diversa e più vantaggiosa delle discipline di durata e termine di decorrenza della prescrizione. Onere della prova nelle azioni di responsabilità L’azione di cui all’art. 146, comma 2 L.Fall., nonostante il regime di favore avanti illustrato, richiede comunque l’assolvimento da parte dell’attore dell’onere di provare l’inadempimento da parte dell’amministratore di uno o più obblighi impostigli dalla legge o dall’atto costitutivo, il danno patito dalla società e il nesso causale ovvero che il danno discende in via immediata e diretta dalla condotta dolosa o colposa dell’amministratore. Il mancato assolvimento di tale onere, infatti, determina inesorabilmente il mancato accoglimento della domanda. Non è sufficiente, dunque, che il curatore deduca il compimento di atti di cattiva gestione, anche di penale rilevanza (si veda il c.d. falso in bilancio) dal momento che occorre altresì la prova che tali condotte abbiano cagionato un danno alla società o ai creditori e che in assenza della cattiva gestione il danno non si sarebbe verificato. Ad esempio, l’infedele redazione di un bilancio di esercizio non implica necessariamente un danno patrimoniale a carico della società. Prescrizione delle azioni di responsabilità Come detto le azioni di responsabilità esercitabili dagli organi concorsuali conservano le regole di prescrizione previste per le specifiche azioni che spettavano alla società e ai creditori sociali. Il termine, pertanto, resta quello comune di cinque anni ex art. 2949, commi 1 e 2. Esso inizia a decorrere, ai sensi dell’art. 2393 c.c. dal momento della cessazione degli amministratori (Cass. 12065/2013) o dal momento in cui il patrimonio sociale risulti insufficiente ex art. 2394 c.c., nel senso che l’insufficienza patrimoniale sia oggettivamente conoscibile da parte di tutti i creditori (Cass. n. 5614/2020). La giurisprudenza prevalente a tal proposito ritiene che tale momento corrisponda alla dichiarazione del fallimento, in quanto momento in cui viene palesata e conclamata la predetta insufficienza. Il curatore, quindi, potrà avvalersi del termine di prescrizione delle due azioni che risulti più favorevole, anche se non sussustano i presupposti di una delle azioni (Cass. n. 6037/2010). in definitiva, quindi, l’azione di cui all’art. 146 L.Fall. costituisce uno strumento potente in mano agli organi delle procedure concorsuali dal momento che riceve un particolare favore da parte della legge e della giurisprudenza. Talvolta costituisce l’unica modalità per consentire ai creditori di poter ottenere il ristoro quanto meno parziale dei propri crediti ammessi. Avv. Marco Napolitano
Sentenza della Corte di Giustizia Tributaria del Veneto che accoglie l'appello promosso avverso la sentenza di primo grado in tema di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti. La difesa della contribuente ha fornito prove "sufficienti a contrastare quanto ipotizzato dell'Ufficio", con conseguente annullamento dell'avviso di accertamento contenente riprese in materia di IRES, IVA e IRAP.
Quando si parla di società a ristretta base azionaria si fa riferimento ad una società composta da un ristretto numero di soci, molto spesso legati da vincoli di parentela. Può accadere che l’Agenzia delle Entrate a seguito dell’accertamento notificato alla società di capitali a ristretta base azionaria, con il quale procede alla rettifica e alla contestazione di un maggior reddito di impresa, notifica un secondo avviso di accertamento e rettifica della dichiarazione personale dei soci. Il ragionamento posto a sostegno di tale secondo accertamento si può individuare nella considerazione secondo la quale “ gli utili extrabilancio delle società di capitali a ristretta base azionaria si presumono distribuiti ai soci, salvo la loro prova contraria “. Tale regola di matrice esclusivamente giurisprudenziale viene definita “ presunzione di distribuzione ” e rientra nella categoria delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c.: essa si fonda sull’assunto per cui il ristretto numero di soci e i legami qualificati tra loro determina una maggiore conoscibilità degli affari societari o comunque nell’onere del socio di conoscere tali affari. Tale presunzione scatta, quindi, vengono riscontrate le seguenti condizioni: viene emesso un avviso di accertamento di maggior reddito nei confronti della società di capitali (come ad esempio nell’ipotesi di omessa contabilizzazione di ricavi o di rilevazione di fatture inesistenti) sussiste un numero ristretto di soci , legati tra loro da vincoli di parentela e/o amicizia (coniugi, parenti o affini, non più di tre soci o anche nell’ipotesi, ad esempio, in cui la base azionaria è composta da due persone fisiche e una società finanziaria con quota di minoranza) viene esercitato un potere di controllo dell’attività della società direttamente da parte dei soci Affinché le predette condizioni possano essere poste alla base della presunzione che i soci stessi siano stati destinatari della distribuzione degli utili extracontabili generati dalla società occorre, tuttavia, che esse siano state già oggetto di accertamento in capo alla società divenuto definitivo a seguito di una rinuncia all’impugnazione giudiziale avanti alle Commissioni Tributarie competenti o perché siano esauriti i gradi di giurisdizione. Il divieto di presunzione di secondo grado impone infatti, che, affinché il fatto noto – ristretta base azionaria della società e sussistenza di maggiori redditi non dichiarati – possa essere posto alla base del fatto ignoto – distribuzione degli utili extracontabili – è necessario che il primo sia contenuto in un accertamento definitivo. Una prima strategia difensiva, quindi, potrebbe essere quella di chiedere la sospensione del procedimento sorto a seguito dell’impugnazione dell’avviso di accertamento in capo al socio al fine di attendere l’esito del giudizio sorto a seguito dell’impugnazione dell’avviso di accertamento emesso in capo alla società, stante la pregiudizialità tra le due cause (si veda la recente pronuncia Cass, ordinanza 13 marzo 2015 n. 5581). Altro argomento potrebbe risiedere nella mancata allegazione all’avviso di accertamento notificato al socio l’avviso di accertamento notificato alla società, con l’effetto di aver determinato un difetto di motivazione per relationem o comunque una violazione del diritto di difesa. In ogni caso, trovandoci a operare con una presunzione semplice, ciascun socio può comunque utilizzare ulteriori argomenti difensivi per superare l’onere a suo carico di dimostrare la mancata distribuzione a suo favore di utili non contabilizzati: ad esempio dimostrando che in realtà gli utili in capo alla società siano stati accantonati o reinvestiti nell’attività di impresa, ovvero distribuiti solo ad alcuni soci o all’amministratore o ad esempio dimostrando che il socio stesso fosse formalmente privo di poteri di controllo o di effettiva gestione societaria, ricoperti dagli altri soci, dai quali non avrebbe avuto notizia dell’esistenza di somme – in quanto non riportate nella contabilità societaria – che gli altri soci stessi si sarebbero ripartiti tra loro: e ciò mediante una denuncia nei confronti di chi gestisce la società in via sostanziale, o proponendo un’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori o documentando che pur avendo cercato di assumere informazioni sulla gestione sociale, a causa di atteggiamenti ostruzionistici da parte degli amministratori, non è stato possibile acquisire le dovute informazioni. Infine ulteriori argomenti spendibili nella difesa del socio possono sicuramente sovrapporsi a quelli spendibili a favore della società per dimostrare l’inesistenza di ricavi non contabilizzati né dichiarati.
Aumento del costo delle materie prime: possibili rimedi contrattuali. E' ormai noto che negli ultimi mesi sono sono registrati significativi e imprevisti incrementi dei prezzi di acquisto delle materie prime utilizzate nei cicli produttivi. L'aumento del costo delle materie prime è dovuto a diversi fattosi scatenanti, tra cui la difficoltà di far viaggiare le merci nel contesto pandemico in corso. Tale fenomeno deve considerarsi necessariamente straordinario e imprevedibile in quanto travalica le normali fluttuazioni del mercato che generalmente possono influenzare qualsiasi rapporto commerciale. Per tale ragione può ritenersi necessario attuare dei possibili rimedi sia in relazione ai contratti in corso sia per quelli di futura stipulazione. Possibili rimedi per i contratti già stipulati Per quanto concerne i contratti in corso in primo luogo occorre effettuare innanzitutto un'analisi del singolo caso concreto, se l'accordo è stato stipulato in forma scritta. In particolare è opportuno verificare il contenuto delle condizioni generali e particolari per appurare se esistano o meno nel testo del contratto clausole che già prevedano la possibilità di adeguare i prezzi o che regolino l'ipotesi dello stato di necessità o dell'impossibilità temporanea o definitiva di eseguire la prestazione. In tal caso la richiesta di adeguamento dei prezzi a causa dell'aumento del costo delle materie prime potrebbe essere avanzata richiamandosi alla normativa contrattuale. Solo nel caso in cui il contratto scritto non preveda nulla in merito, per procedere ad una specifica richiesta di rinegoziazione a causa dell'aumento del prezzo delle materie prime occorre richiamarsi alla normativa codicistica e agli orientamenti giurisprudenziali. Al fine deve innanzitutto invocarsi il principio di solidarietà previsto dall’art. 2 della Costituzione, che regola sia la gestione delle sopravvenienze che perturbano dell’equilibrio originario delle prestazioni contrattuali, sia la scelta dei rimedi di natura legale e convenzionale. Tale principio trova la propria applicazione concreta nei precetti che impongono alle parti di comportarsi secondo buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto (artt. 1175 e 1375 c.c.) secondo i quali ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l'interesse dell'altro se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell'interesse proprio. Di recente tale impostazione è stata fatta propria dalla Suprema Corte di Cassazione (relazione 8 luglio 2020, n. 56) la quale si è espressa in senso favorevole alla rinegoziazione delle clausole durante la vita del contratto al fine di adattarlo alle sopravvenienze che ne alterano l'equilibrio. Viene delineato un vero e proprio obbligo contrattuale della controparte a intavolare trattative a condurle correttamente secondo quanto prevede l'art. 1374 c.c. in omaggio al principio generale di conservazione del contratto sotteso all'art. 1361 c.c., fermo restando il fatto che non sia obbligatorio addivenire ad una rinegoziazione effettiva dell'accordo. In caso di aumento del costo delle materie prime potrebbe rilevare la norma che regola le circostanze sopravvenute per causa non imputabile al debitore tali da rendere la prestazione parzialmente impossibile ai sensi dell'art. 1464 c.c., in forza della quale può domandarsi la riduzione della prestazione incisa dal maggior costo sopravvenuto; tuttavia se il creditore non ha interesse a ricevere un adempimento parziale il contratto si risolve. Potrebbe altresì invocarsi la fattispecie di cui all’art. 1256 comma 2 c.c. che regola l'impossibilità temporanea di adempiere la prestazione a causa dell'incremento del costo delle materie prime , per cui il debitore non è responsabile per il ritardo per il tempo in cui la prestazione è impossibile, ma l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a rendere la prestazione non più di interesse per il creditore. Potrebbe infine invocarsi al fattispecie che regola l’ eccessiva onerosità sopravvenuta di eseguire la prestazione, prevista dall’art. 1467 c.c., che si riscontra nell’ipotesi in cui avvenimenti straordinari e imprevedibili estranei alle parti contrattuali, straordinari sul piano oggettivo e impronosticabili alterino il nesso di interdipendenza anche economica tra le prestazioni. In tal caso la parte che subisce tale effetto può chiedere la risoluzione del contratto, che l’altra parte può evitare proponendo la modifica di alcune clausole o condizioni. Possibili rimedi per i contratti futuri Con riferimento, invece, ai contratti futuri si ritiene opportuno, laddove possibile, l'inserimento di specifiche clausole di revisione dei prezzi collegate all'andamento della quotazione delle materie prime . Tali clausole andranno diversamente modulate a seconda della tipologia di contratto e delle specifiche condizioni generali e particolari. Potrebbe essere opportuno riferirsi a borsini dei prezzi con carattere di ufficialità, come quelli rilevati periodicamente dalle Camere di Commercio o le rilevazioni Istat e gli indici delle principali borse merci e materie prime. Nel caso in cui tali dati manchino o non siano facilmente rilevabili potrebbe essere opportuno inserire nel contratto una specifica clausola di nomina di un soggetto esterno " arbitratore " (art. 1473 c.c.). Tale figura sarebbe chiamata a determinare la misura dell'eventuale aumento/diminuzione del prezzo delle materie prime, a verificare la sussistenza o meno dei presupposti per l'applicazione della revisione prezzi e a determinare il prezzo applicabile alle prestazioni dedotte nel contratto. Avv. Marco Napolitano
E' legittimo l'accertamento fiscale su files presenti sul computer del contribuente? La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18098 del 24 giugno 2021, ha affrontato la questione, confermando un orientamento già consolidato (Cass. Sez. VI - 5, ord. 15.01.2019, n. 673, Cass. Sez. V, sent. 12.04.2019, n. 10275). Nel caso affrontato il contribuente contestava la legittimità dell'acquisizione durante una verifica della Guardia di Finanza di dati presenti nel proprio computer in assenza di una specifica autorizzazione del Procuratore della Repubblica, resa necessaria dall'utilizzo di password di accesso. Secondo il ricorrente tali prove erano inutilizzabili nel giudizio tributario dato che, come ha riconosciuto lo stesso Ministero dell'Economia (Circ. Min. 19.10.2005, n. 45/E), se il sistema è protetto da una password è necessaria l'autorizzazione del Procuratore della Repubblica essendo la fattispecie assimilabile a quella dell'apertura di pieghi sigillati, casseforti, etc.. La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha chiarito che l'acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell'accertamento fiscale non comporta l'inutilizzabilità degli stessi in mancanza di una specifica previsione in tal senso. Gli organi di controllo, quindi, possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso salva solo l'ipotesi in cui venga in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale. L'utilizzazione ai fini fiscali dei dati e dei documenti acquisiti dalla G.d.F. operante come polizia giudiziaria è quindi subordinata al rispetto delle disposizioni dettate dalle norme tributarie (D.P.R. n. 600/1973, art. 33; D.P.R. n. 633/1972, art. 52 e 63) e da disposizioni tributarie di carattere specifico, come ad esempio la necessità di preventiva autorizzazione del Procuratore della Repubblica per procedere a determinate attività quali l'accesso presso locali diversi da quelli dell'esercizio dell'attività del contribuente (cfr. Cass. n. 958/2018). Quanto all'acquisizione dei dati dal computer del contribuente la sentenza ha precisato che l'autorizzazione del Procuratore della Repubblica all'apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prescritta in materia di Iva dall'art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633 del 1972 (e necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nell'art. 33 del D.P.R. n. 600 del 1973) è richiesta soltanto nel caso di "apertura coattiva", e non anche ove l'attività di ricerca si svolga con la collaborazione del contribuente. Nel caso di specie l'acquisizione si era perfezionata con collaborazione spontanea del contribuente senza la necessità di rimuovere ostacoli all'accesso ai documenti, pertanto non si è verificata alcuna attività di tipo "coattivo" da parte dei verificatori. Si precisa peraltro che ai sensi del comma 9 dell'art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 gli organi verificatori che procedono all'accesso nei locali di soggetti che si avvalgono di sistemi elettronici hanno la possibilità di provvedere all'estrazione di copia dei dati al di fuori dei locali del contribuente qualora lo stesso non permetta l'utilizzo dei propri impianti e del proprio personale, oltre a dover rispettare specifiche regole di duplicazione che ne garantiscano l'attendibilità. Tali circostanze nel caso di specie non erano state contestate dal contribuente, quindi in conclusione la Suprema Corte ha ritenuto pienamente utilizzabili i dati acquisiti mediante estrazione di copia di files contenuti nel computer del contribuente con il consenso di quest'ultimo. L'accertamento fiscale su files estratti dal computer del contribuente, pertanto, è stato pienamente confermato. Avv. Marco Napolitano
Onere della prova in tema di fatture per operazioni inesistenti: il tema è stato affrontato dalla pronuncia della Suprema Corte di Cassazione Civile, Sez. V, ordinanza 27 aprile 2020, n. 8177. L'onere della prova diretta dell'Ufficio Afferma la sentenza che in tema di Iva, qualora l'Amministrazione Finanziaria contesti al contribuente l'indebita detrazione di fatture in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all'Ufficio l'onere della prova che l'operazione commerciale oggetto della fattura non è mai stata posta in essere. Devono essere indicati gli elementi anche indiziari su cui si fonda la contestazione. Tale onere della prova da parte dell'Ufficio può essere assolto anche tramite presunzioni semplici, dato che la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova. L'Ufficio, quindi, ha l'onere della prova o che l'operazione fatturata non sia mai stata effettuata (ad esempio provando che la società emittente la fattura sia una "cartiera" per mancanza di sede, mancanza di iscrizione, omesso versamento delle imposte) o che la fattura sia stata emessa da chi non è stato controparte nel relativo rapporto. Nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, in particolare, l'Amministrazione Finanziaria deve provare in base ad elementi oggettivi che il contribuente al momento in cui ha acquistato il bene o i servizio sapeva, o avrebbe dovuto sapere con l'uso dell'ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva, con l'emissione della fattura, evaso l'imposta o partecipato ad una frode. Deve cioè provare che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale sospetto e a porre sull'avviso qualunque imprenditore onesto o mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente. Quantomeno nell'ipotesi più semplice e comune di fatturazione per operazione inesistente di tipo triangolare, caratterizzata dall'interposizione di un soggetto italiano - fittizio nell'acquisto di beni tra un soggetto comunitario (reale cedente) ed un altro soggetto italiano (reale acquirente) - il detto onere probatorio da parte dell'Amministrazione Finanziaria può ben esaurirsi nella prova che l'interposto sia privo di dotazione personale e strumentale adeguata all'esecuzione della prestazione fatturata. A questo punto, quindi l'onere della prova contraria passa al contribuente. L'onere della prova contraria del contribuente La prova contraria del contribuente non può consistere nella mera esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale della tenuta delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, dato che sono elementi che solitamente vengono utilizzati proprio con lo scopo di far apparire reale un'operazione fittizia (si veda Cass. n. 14237 del 07.06.2017, Cass. n. 20059 del 24.09.2014). Nel caso di operazioni oggettivamente inesistenti tale onere potrà essere assolto dimostrando che la cessione del bene o del servizio sia effettivamente avvenuta, tramite documentazione a sostegno o tramite altri mezzi di prova. Nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti il contribuente è chiamato a provare, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica di oggettiva conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente e il fatturante in ordine al bene ceduto. Oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all'attività professionale svolta, di non essere stato in grado di superare l'ignoranza del carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti coinvolti. In sostanza deve dimostrare che, sulla base della normale diligenza esigibile dall'operatore economico e sulla base delle circostanze di fatto, non si è accorto o non avrebbe potuto accorgersi dell'illiceità dell'operazione. In tale ambito, infatti, deve bilanciarsi l'esigenza della buona fede del contribuente, così come più volte precisato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (cfr. sentenza 6 luglio 2006, Kittel e Recolta Recycling, C-439/04 e C-440/04; 21 luglio 2012, Mahagè ben e David, C-80/11 e C-142/11). Avv. Marco Napolitano
La società veicolo è veramente titolare del credito per cui agisce? Cosa succede se non riesce a darne dimostrazione in giudizio? Al fine di rispondere a tale quesito chiariamo innanzitutto cosa sia una società veicolo e in che modo agisce per il recupero di un credito nei confronti del debitore. La cartolarizzazione del credito Capita sempre più frequentamente che il debitore riceva atti giudiziari di recupero del credito (decreti ingiuntivi, precetti, atti di pignoramento) da parte di una società diversa dall'istituto bancario che aveva inizialmente erogato il finanziamento. Il caso tipico è il seguente: l'azienda A nel 2010 stipula un contratto di mutuo chirografario con la Banca Beta e dopo poco tempo sospende i pagamenti; nel 2020 riceve un sollecito di pagamento per lo stesso debito da parte della società S.P.V S.r.l. Tale fenomeno è lecito e solitamente presuppone l'avvenuta cartolarizzazione del credito ( securisation ), che è una forma di cessione del credito regolata normativamente dalla L. n. 130/1999 e dal Reg. UE n. 2017/2402. Si tratta di un'operazione con cui un'impresa (banca, intermediario finanziario o altra impresa) smobilizza i propri crediti tramite la stipulazione di un contratto di cessione in blocco a titolo oneroso (solitamente pro soluto ) a favore di un soggetto denominato società per la cartolarizzazione - o speciale purpose vehicle (S.P.V.) - il quale provvede direttamente o tramite terza società ad emettere titoli incorporanti i crediti ceduti e a collocarli sul mercato dei capitali per ricavare la liquidità necessaria a pagare il corrispettivo della cessione e le spese dell'operazione (cfr. P. Bontempi, Diritto Bancario e Finanziario , Giuffrè 2019). Per la riscossione del creriti ceduti la società cessionaria può incaricare terzi soggetti che si occupano del recupero stragiudiziale o giudiziale del credito (il c.d. servicing ). La Banca Beta dell'esempio, quindi, ha ceduto il credito nei confronti dell'azienda A alla società S.P.V. S.r.l., che attiva il recuero giudiziale. La pubblicità della cartolarizzazione L'art. 4 della L. n. 130/1999 prescrive specifici adempimenti pubblicitari per la cessione del credito in blocco nell'ambito di un'operazione di cartolarizzazione, richiamando l'art. 58 TUB commi 2, 3 e 4. L'avvenuta cessione deve essere infatti iscritta nel registro delle imprese e pubblicata in Gazzetta Ufficiale; una volta eseguiti tali adempimenti nei confronti del debitore ceduto si prodocono gli effetti di cui all'art. 1264 c.c. L'azienda A, quindi, non riceverà alcuna notifica diretta al proprio domicilio dell'avvenuta cessione del credito, in quanto tale cessione viene resa nota tramite la pubblicazione sopra vista. La legittimazione attiva del cessionario: titolarità del credito Chiariti tali aspetti definitori si giunge al punto: quando la società cessionaria del credito - la S.P.V. - che agisce in giudizio contro il debitore può dirsi effettivamente titolare del credito che provvede a recuperare in giudizio? E' sufficiente che faccia menzione e produca l'estratto pubblicato in Gazzetta Ufficiale? Abbiamo visto che la legge prevede che l'iscrizione al registro delle imprese e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell'estratto della cessione valgono come notifica al debitore ceduto. Tale meccanismo, quindi, parrebbe creare in capo al debitore (e ai terzi) una presunzione di conoscenza legale della cessione che potrebbe dimostrare anche in giudizio la titolarità del credito in capo alla società attrice. Tuttavia capita spesso che gli estratti pubblicati in Gazzetta Ufficiale riportino solo le macro categorie identificative dei crediti ceduti ( ...i crediti riguardanti: i finanziamenti contro cessione del quinto ... i prestiti personali ... i prestiti finalizzati ... i prestiti per l'acquisto di autovetture... ) senza la specifica elencazione dei rapporti. Pare ragionevole ritenere, quindi, che dal tenore letterale di tali estratti sia impossibile individuare con precisione se un determinato specifico credito rientri o meno tra quelli ceduti in blocco. Ne consegue il sorgere del ragionevole dubbio che la società veicolo che agisce in giudizio per il recupero di un credito che afferma aver ricevuto in cessione non sia effettivamente titolare dello stesso . Dubbio che in sede giudiziale si traduce in un'eccezione - questione preliminare di merito - sollevabile dal debitore sulla carenza di titolarità del rapporto dal lato attivo: eccezione che attiva l' onere della prova positiva della titolarità del credito in capo alla società attrice. Onere della prova in capo alla società veicolo E' evidente che la mera produzione di copia dell'estratto pubblicato in Gazzetta Ufficiale, laddove indichi solo genericamente i crediti ceduti nell'ambito di un'operazione di cartolarizzazione, non sia sufficiente ad assolvere tale onere: la società veicolo, per dimostrare la propria titolarità, sarà allora chiamata a produrre in giudizio anche il contratto di cessione del credito da cui si evinca con precisione di aver ricevuto lo specifico credito per cui essa agisce. Sul punto è di tenore concorde la Suprema Corte di Cassazione : si vedano Cass. Civ. Sez. I, sent. n. 4116/2016 e Cass. Civ. Sez. I, sent. n. 10518/2016 secondo le quali la società cessionaria di crediti in blocco a fronte della contestazione di controparte sulla titolarità del credito "ha l'onere di produrre... di documenti idonei a dimostrare l'inclusione del credito oggetto di causa nell'operazione di cessione in blocco...dovendo fornire la prova documentale della propria legittimazione, a meno che la controparte non l'abbie esplicitamente o implicitamente riconosciuta" ; è del medesimo tenore anche la più avveduta giurisprudenza di merito (Trib. Padova, decr. 03.06.2016; Trib. Napoli, sent. 24.05.2019, n. 5337). Se la società veicolo, quindi, non produce in giudizio entro i termini decadenziali di legge copia del contratto di cessione, a fronte di un'eccezione del debitore, rischia di vedersi rigettata nel merito la propria pretesa con conseguente insuccesso dell'attività recuperatoria del credito. Avv. Marco Napolitano
Il tema degli interessi corrispettivi e moratori nell'usura bancaria ha ricoperto un ruolo molto importante per il corretto inquadramento del fenomeno. Definizione di interessi corrispettivi e moratori In particolare occorre premettere che gli interessi corrispettivi costituiscono il c.d. "prezzo del finanziamento", quindi la remunerazione che la banca acquisisce per aver erogato a terzi somme di denaro. Gli interessi moratori costituiscono, invece, quelli che maturano nel caso in cui il soggetto beneficiario dell'erogazione sia inadempiente rispetto alle obbligazioni contratte. Come anticipato, si è storicamente assistito ha opinioni differenti in merito alla necessità di conteggiare o meno tali categorie di interessi nel calcolo del tasso applicato al fine di verificarne la sussistenza di usura bancaria. Gli orientamenti giurisprudenziali Una delle tesi che gli istituti di credito hanno storicamente sostenuto è che gli interessi di mora non dovessero essere conteggiati ai fini del calcolo del tasso di usura bancaria, dato che non rappresenterebbero un corrispettivo remunerativo in senso stretto e possono ricondursi all'istituto delle clausole penali legittimamente inserite nei contratti bancari secondo le norme del Codice Civile. Secondo tale tesi, inoltre, l'interesse corrispettivo in quanto espressione della fruttuosità dell'attività finanziaria esercitata deve necessariamente computarsi nel calcolo del tasso usurario. L'interesse moratorio, invece, avendo natura meramente risarcitoria, è correlato all'inadempimento del beneficiario quindi si applica solo al verificarsi in una condotta illecita della parte contrattuale e non rientra, pertanto, nelle condizioni fisiologiche del contratto. Per tale ragione deve ritenersi svincolato dalla normativa antiusura. In senso avverso a tale prospettazione la giurisprudenza di legittimità è giunta a sostenere che anche il tasso di mora debba essere al di sotto della soglia usuraria (Cass. Sez. Un. n. 19579/2020). In particolare «la disciplina antiusura si applica agli interessi moratori, intendendo essa sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso» , con la finalità di non lasciare il debitore alla mercé del finanziatore. L'altro problema che ha generato contrasti interpretativi riguarda il computo di questo tasso nell'ambito dell'usura bancaria. Una sentenza della Cassazione (Cass. Sez. I, n. 350/2013) aveva alimentato negli anni un vasto contenzioso data la poco chiara situazione relativa al rapporto tra il tasso di mora, corrispettivo e soglia. La più recente giurisprudenza, anche di merito (si veda Tribunale di Roma, Sez. XVII n. 1640/2020) ha chiarito che gli interessi corrispettivi e moratori sono entrambi soggetti alla legislazione anti usura bancaria e che quindi sia l'uno che che l'altro debbano essere pattuiti e mantenuti al di sotto del tasso soglia. I due tassi, però, in sede di conteggio non devono sommarsi ma sono alternativi, dal momento che si applicano in due fasi diverse della vita del contratto, sicchè quando viene meno il tasso corrispettivo ad esso si sostituisce quello di mora. Avv. Marco Napolitano
Il corso affronta l'evoluzione della normativa negoziale nel leasing finanziario sino a giungere alla legge n. 124 del 2017, con riferimento anche alla regolamentazione dell'istituto nelle procedure concorsuali.
Accertamento in materia IVA. L'iniziale contestazione sollevata da parte dell'Agenzia delle Entrate nei confronti della società assistita di aver registrato e contabilizzato operazioni oggettivamente inesistenti, a seguito di attivià difensiva veniva riformulata, in fase di accertamento, in soggettiva inesistenza. L'Ufficio quindi notificava avviso di accertamento per quest'ultimo rilievo. A seguito di impugnazione la Commissione Tributaria di Vicenza ha dato ragione alla società assistita ritenendo che gli elementi indiziari posti dall'Ufficio a fondamento della pretesa tributaria, considerati singolarmente e nel loro complesso, fossero privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza e, quindi, non fossero sufficienti a permettere di acquisire una prova presuntiva sufficiente a sostenere fatti fiscalmente rilevanti e il meccanismo fraudolento, accertati dall'Amministrazione Finanziaria. Aderendo all'orientamento di legittimità sorto sulla scia della giurisprudenza unionale il Collegio ha ritenuto che l'Amministrazione Finanziaria da un lato non abbia assolto al proprio onere probatorio in materia di utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti inserito in una frode carosello, non avendo dimostrato la consapevolezza del destinanario delle fatture che l'operazione si inserisse in una evasione di imposta e di cui avrebbe dovuto accorgersi usando l'ordinaria diligenza professionale. Inoltre il Collegio ha ritenuto che il contribuente abbia comunque fornito la prova contraria dell'inconsistenza degli indizi. Da qui l'accoglimento del ricorso e l'annullamento dell'avviso di accertamento impugnato.
Il corso ha approfondito la normativa rilevante in tema di anatocismo ordinario, anatocismo bancario dalle origini sino alla delibera C.I.C.R. 09.02.2000 e, successivamente, dalla legge n. 10/2011 al nuovo art. 120 comma 2 TUB.
La donazione può perdere efficacia? La risposta è sicuramente si. Colui che riceve un bene in donazione (il donatario), infatti, rimane sempre esposto al rischio di perdere quanto ricevuto in donazione su iniziativa di chi ha effettuato la donazione (il donante) al verificarsi di determinati eventi. Tali eventi sono: la morte di una delle parti, la separazione o il divorzio, l’ingratitudine del donatario e la sopravvenienza di figli. Morte delle parti Morte del donante Se una donazione lede i diritti successori dei legittimari del donante, il donatario non è sicuro di aver acquisito la proprietà dei beni ricevuti finché non siano trascorsi almeno 10 anni dall’apertura della successione (art. 553 e ss. c.c.). In questo arco di tempo i legittimari lesi possono reintegrare la propria quota ereditaria esercitando l’ azione di riduzione nei confronti del donatario al fine di ottenere la restituzione del bene donato. Quando il bene da restituire è un immobile su cui il donatario ha costituito un’ipoteca o un diritto di usufrutto: se non sono passati 20 anni dalla trascrizione della donazione i beni sono restituiti liberi da ogni diritto o ipoteca se sono passati 20 anni dalla trascrizione della donazione l’ipoteca e l’usufrutto rimangono efficaci ma il donatario deve risarcire in denaro gli eredi legittimari lesi a causa del minor valore del bene. Morte del donatario La morte del soggetto che riceve un bene in donazione determina la perdita di efficacia di una donazione tipica solo se nel contratto è presente un patto di riversibilità . Separazione e divorzio La separazione legale o il divorzio non producono effetti su eventuali donazioni tipiche o indirette tra coniugi effettuate durante il matrimonio. Se però durante la convivenza un coniuge assegna all’altro beni mobili di sua proprietà (ad esempio gioielli di famiglia non particolarmente preziosi ma dal valore affettivo), qualora tale contratto possa individuarsi come comodato gratuito senza termine , a seguito della separazione deriva l’obbligo per il coniuge separato di provvedere alla restituzione. Ingratitudine del donatario In caso di particolari comportamenti di chi ha ricevuto la donazione, il donante può revocare una donazione tipica o indiretta già effettuata, ad accezione delle donazioni remuneratorie o obnuziali: comportamenti corrispondenti all’ indegnità a succedere : omicidio o tentato omicidio nei confronti del donante, denuncia del donante per fatti puniti con l’ergastolo o con una pena non inferiore nel minimo a tre anni se la denuncia è stata ritenuta calunniosa dal tribunale, decadenza dalla potestà genitoriale, induzione con dolo o violenza a mutare il testamento, soppressione o alterazione del testamento valido, formazione di testamento falso ingiuria grave nei confronti del donante, ossia un comportamento che manifesti un’avversione durevole, profonda e radicata, mancanza di rispetto della dignità, disistima delle qualità morali provocazione dolosa di un grave danno al patrimonio del donante rifiuto di corrispondere gli alimenti In tali casi il donante (o i suoi eredi in casi particolari) possono procedere con un’azione di revocazione entro un anno dal giorno in cui è venuto a conoscenza del fatto la consente. Sopravvenienza di figli Se al momento della donazione il donante non aveva figli o discendenti o ignorava di averne , può ottenere la revocazione della donazione tipica o indiretta nei seguenti casi: nascita di un figlio o discendente scoperta dell’esistenza di un figlio o discendente adozione di un figlio minore di età riconoscimento di un figlio ritorno a casa di un figlio dichiarato assente o morto presunto Anche in tal caso il donante deve agire mediante azione di revocazione entro il termine di 5 anni dal giorno in cui si verifica uno dei predetti eventi. Avv. Marco Napolitano
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