Sono l'Avv. Daniela Giuliani della associazione A.M.A. Avvocati Matrimonialisti Associati sede di Roma . Mi occupo di diritto di famiglia, con particolare riferimento a separazioni e divorzi, curando sia la fase stragiudiziale che quella giudiziale, operando prevalentemente sul Foro di Roma e provincia. L'esperienza nel settore del diritto di famiglia mi ha consentito di espandere la mia attività professionale anche in ambito penale in tutti i casi in cui l'alta conflittualità tra le parti determina situazioni di maggiore gravità che possono assumere rilevanza penalistica. Altre materie: infortunistica stradale.
Mi occupo di diritto civile, con particolare riferimento al diritto di famiglia come specificato nelle relative aree presenti sulla mia scheda.
Mi occupo prevalentemente di separazioni e divorzi ( comprese le questioni relative alle coppie di fatto) prestando grande attenzione anche alla fase stragiudiziale finalizzata al raggiungimento di accordi (ove possibile) che consentano alle parti di procedere congiuntamente evitando la fase giudiziale . Particolare attenzione viene prestata alle coppie con figli minori in cui cerco di dare risalto a quello che è l'interesse del minore senza tralasciare i diritti - doveri di ciascun genitore, soprattutto per garantire il principio della bigenitorialità e la realizzazione dell'affido condiviso.
La mia attività prevalente è costituita da separazioni (sia consensuali che giudiziali) mantenendo un approccio concreto e realistico in ogni fase della procedura . Durante la carriera professionale ho seguito decine di casi mirando alla realizzazione del principio dell'affido condiviso, nel rispetto dei diritti e doveri di ciascun genitore. Durante la mia esperienza ho portato a termine numerose trattative - anche in casi di forte attrito tra le parti - raggiungendo accordi che hanno soddisfatto i miei Clienti. Mi sono occupata anche di casi di modifica delle condizioni di separazione pubblicando articoli specifici in materia .
Divorzio, Diritto penale, Violenza, Stalking e molestie, Incidenti stradali, Matrimonio, Unioni civili, Affidamento, Tutela dei minori, Recupero crediti, Reati contro il patrimonio, Locazioni, Multe e contravvenzioni, Mediazione, Gratuito patrocinio, Domiciliazioni, Risarcimento danni.
LA SEPARAZIONE IN PRESENZA DI ANIMALI DOMESTICI QUALE SORTE PER GLI AMICI A QUATTRO ZAMPE? Non avendo mai affrontato finora l'argomento relativo alla sorte riservata agli animali domestici nella fase di separazione o divorzio cercheremo qui di fornire una breve guida su un tema che sembra irrilevante ma all'atto pratico non lo è, stante il sempre crescente numero di nuclei familiari che posseggono un amico a quattro zampe. Il tema non è di poco conto, se è vero - come è vero - che sempre più spesso la giurisprudenza si è trovata a dover affrontare quesioni relative ai piccoli animali domestici, in assenza di una specifica disciplina normativa sull'argomento. Va precisato infatti che in Italia non esiste una legislazione specifica sul tema sebbene già diversi anni fa sia stata avanzata una proposta di legge per introdurre nel Codice Civile una normativa ad hoc per disciplinare "l' affido degli animali familiari in caso di separazione dei coniugi". Stante il vuoto normativo quindi viene aiuto la giurisprudenza, che di seguito brevemente esaminiamo. LA GIURISPRUDENZA Con una prima sentenza (n. 5322 del 15.03.2016), il Tribunale di Roma (seguendo la scia del Tribunale di Foggia e del Tribunale di Cremona intervenuti in precedenza sullo stesso tema), aveva stabilito che - in assenza di regole precise - agli animali domestici si applicano per analogia le stesse norme relative all'affidamento della prole. In buona sostanza quindi il Tribunale stabilì che le sorti del piccolo animale sarebbero state disciplinate dalle stesse norme che regolano l'affido dei figli minori, tenendo conto dell'interesse dell'animale. Veniva così stabilito che l'animale domestico (nel caso specifico un cane) venisse affidato alle cure di uno dei due coniugi garantendo il diritto di visita per l'altro coniuge e stabilendo che le relative spese fossero equamente divise fra i due. Successivamente anche il Tribunale di Sciacca (nel 2019) si è pronunciato in tal senso stabilendo che l'animale fosse affidato alle cure della moglie (considerata più idonea ad accudirlo rispetto al marito) con diritto di visita in favore di quest'ultimo e ripartizione delle spese al 50%. L'aspetto innovativo della sentenza è stato il riconoscimento esplicito che il sentimento per gli animali costituisce un valore meritevole di tutela. Per il Giudice di Sciacca, infatti, nel decidere sull’affidamento dell’animale domestico e sul suo mantenimento si dovrà tenere conto intanto del fatto che il sentimento per gli animali costituisce un valore meritevole di tutela e in secondo luogo dell'interesse dell'animale stesso che verrà affidato alla cura del coniuge che verrà ritenuto più idoneo a prescindere dall'intestaizone risultante dal microchip. Ancora più recentemente si segnala sulla stessa lunghezza d'onda anche il Tribunale di Lucca (sentenza del 26.1.2020) il quale ha ribadito che "alla luce dell'importanza del legame affettivo tra persone ed animali e del rispetto dovuto a questi ultimi quali esseri senzienti", la normativa più vicina alla fattispecie in esame sia quella relativa all'affidamento dei figli. Anche il Tribunale di Lucca evidenzia dunque l'importanza del legame che si instaura con gli animali da compagnia, ritenendolo meritevole di tutela a tutti gli effetti. Nonostante la posizione favorevole della giurisprudenza, il vuoto normativo non aiuta e rende sempre più necessario un intervento del legislatore che tenga conto del valore della relazione che si instaura con un animale domestico e disciplini i casi in cui i coniugi non riescano a trovare un accordo bonario in ordine alla sorte dell'animale. Va da sè infatti che è sempre preferibile raggiungere un accordo tra i coniugi anche in relazione alla gestione dell'animale di famiglia stabilendo di comune accordo sia la sua migliore collocazione e sia l'equa suddivisione delle relative spese . Molto spesso però l'accordo è difficile da trovare lasciando così al Giudice il compito di trovare la migliore soluzione nell'interesse del piccolo animale. Alla luce di queste brevi osservazioni è evidente quindi come si renda opportuno da un lato una politica di sensibilizzazione sul tema e dall'altro un serio interevento del legislatore per fornire regole precise e stringenti che consentano di regolamentare situazioni di questo tipo e garantiscano un idoneo livello di cura , attenzione e responsabilità degli animali domestici intesi come esseri senzienti e pertanto assolutamente meritevoli di tutela. Avv. Daniela Giuliani Foro di Roma
IL MANTENIMENTO DEI FIGLI MAGGIORENNI: - IL CASO DEL CONTRATTO A TERMINE DEL FIGLIO MAGGIORENNE : ELIMINA L'OBBLIGO DEL MANTENIMENTO? - IL DOVERE DEL FIGLIO DI INFORMARE IL GENITORE CHE VERSA IL MANTENIMENTO CIRCA LE SUE CONDIZIONI ECONOMICHE E LAVORATIVE. - COME OTTENERE LA REVOCA O LA RIDUZIONE DELL'OBBLIGO DI VERSAMENTO DELL'ASSEGNO DI MANTENIMENTO Cosa accade nel caso in cui il figlio maggiorenne, per il quale è stato stabilito in sede di separazione o divorzio l'obbligo di mantenimento, cominci a lavorare ancorchè con contratto a termine? La posizione della giurisprudenza è abbastanza nètta: gli ermellini infatti ritengono che anche il contratto a termine segni l’ingresso nel mondo del lavoro e dunque, se la paga è adeguata e l’orizzonte non troppo ristretto, il piede messo nel mondo produttivo basta a interrompere l’obbligo da parte del genitore di mantenere il figlio maggiorenne, che va considerato ormai autonomo economicamente: "anche il contratto a termine segna l’ingresso nel mondo del lavoro” …… In particolar modo, tale obbligo viene meno anche nel caso in cui il figlio sia iscritto all’università ma sia nel contempo un prestatore di lavoro part-time” (Cassazione 2020 n. 11186 ) Esaminiamo di seguito altre pronunce interessanti che si sono succedute nel tempo fino ad arrivare a quelle più recenti, sulla base delle quali si è formato un orientamento che possiamo ritenere comune. "il diritto del figlio maggiorenne a un contributo al mantenimento si giustifica all’interno e nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo, per il tempo occorrente mediamente necessario per il suo inserimento in società. La situazione soggettiva del figlio che in età avanzata non acquisisca l’autonomia economica non è tutelabile perché contrasta con il principio della autoresponsabilità” (Cassazione, sentenza 12952 del 22 giugno 2016) Ed ancora: “per riconoscere l’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente o il diritto all’assegnazione della casa coniugale, il giudice deve valutare le circostanze che li giustificano, caso per caso, con rigore proporzionalmente crescente in rapporto all’età dei figli; l’obbligo non può protrarsi oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura: il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo” (Cassazione, sentenza 18076 del 20 agosto 2014) Non solo. Gli ermellini si sono spinti oltre specificando anche che "spetta al figlio, che abbia concluso il proprio percorso formativo, dimostrare - con onere probatorio a suo carico - di essersi adoperato per rendersi autonomo economicamente”. (tra le altre Cass. 17380/2020; Cass. 32529/2018 e Cass. ordinanza del 2021 n. 38366). Chiaramente occorre sempre valutare il caso concreto: non basta infatti un contratto part time per far venire meno l'obbligo di mantenimento o per rendere autonomo un figlio: la Corte di Cassazione precisa infatti che occorre valutare sia l'adeguatezza della retribuzione e sia la durata del contratto. L'ADEGUATEZZA DELLA RETRIBUZIONE L’elemento retributivo è necessario per valutare la revoca (o la eventuale riduzione dell'importo) dell’obbligo del mantenimento in capo al genitore. La retribuzione deve poter essere considerata adeguata: ciò significa che il fatto che un soggetto percepisca una retribuzione non significa che sia indipendente se la paga non è adeguata secondo i criteri oggettivi di sopravvivenza. Per tale ragione l’adeguatezza della retribuzione deve essere indicata come quella misura del compenso tale da “assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (Cass. sent. n.40282/2021) LA DURATA DEL CONTRATTO Anche la durata del contratto part time ha una valenza fondamentale per la valutazione del caso concreto. La giurisprudenza precisa infatti che se il contratto ha un termine eccessivamente breve, tipico ad esempio per i contratti stagionali o a “chiamata”, non può venir meno il diritto al mantenimento da parte del figlio. In tale ipotesi la Cassazione evidenzia che la durata del contratto non conduce affatto alla stabilità economica e non può quindi costituire in automatico una circostanza tale da determinare la revoca dell'obbligo di mantenimento. Quanto al rischio che il contratto a tempo indeterminato non venga rinnovato, la giurisprudenza precisa che si tratta di un pericolo non troppo diverso dalla perdita del lavoro per altre cause o dal caso del licenziamento che non rappresentano motivi per far "rivivere" l’assegno di mantenimento versato dai genitori. L’inizio dell’esperienza lavorativa dimostra il raggiungimento di una adeguata capacità lavorativa "tale da sola di determinare l’irreversibile cessazione dell’obbligo in questione". Naturalmente - evidenzia la Cassazione - non tutti i lavori a tempo sono utili a raggiungere un’indipendenza economica. Come sopra detto infatti, questa può essere esclusa quando la durata del contratto è troppo breve e senza prospettive (come avviene ad esempio per i lavori stagionali) oppure nel caso in cui la retribuzione sia oggettivamente tropo bassa o esigua da non consentire margini. IL DOVERE DEL FIGLIO DI INFORMARE IL GENITORE CIRCA LE SUE CONDIZIONI LAVORATIVE E REDDITUALI. Può accadere che i rapporti tra genitore obbligato e figlio siano compromessi o si siano diradati nel tempo e che quindi il genitore obbligato non abbia notizie circa la situaizone lavorativa e reddituale del proprio figlio. In tal caso il genitore continua a versare il mantenimento ignaro del ftto che il figlio si sia reso nel frattempo economicamente indipendente. Purtroppo non ci sono numerose pronunce in quetso senso ad eccezione di un'interessante pronuncia del Tribunale di Como del 15.11.2017 il quale ha imposto al figlio “il dovere di informare, ogni tre mesi, il proprio padre circa la sua situazione reddituale e lavorativa”, così motivando la decisione assunta: “il soggetto alimentando è tenuto a fornire le informazioni relative alle proprie condizioni reddituali e lavorative, onde evitare al debitore dell’assegno i pregiudizi economici che potrebbero derivargli, sul piano fiscale, ove egli per ignoranza incolpevole richiedesse le detrazioni fiscali (per carichi familiari) relativamente a soggetto beneficiario dello assegno, che va quindi onerato della informazione, trimestrale, circa la propria situazione reddituale e lavorativa”. COME OTTENERE LA REVOCA DELL'OBBLIGO DI MANTENIMENTO? Una volta appurato che il figlio maggiorenne abbia acquistato una certa indipendenza economica, il genitore obbligato al versamento del mantenimento non può arbitrariamente sospendere il versamento o ridurne l'importo a suo piacimento, ma dovrà avviare presso il Tribunale una procedura di modifica delle condizioni di separazione o divorzio (a seconda del provvedimento che ha stabilito l'obbligo di mantenimento) e chiedere una revoca (o una riduzione dell'importo parametrata alle nuove condizioni economiche del figlio) dell'obbligo di versamento del mantenimento. Solamente una pronuncia del Tribunale può infatti autorizzare il genitore obbligato a non versare più l'assegno di mantenimento o a versare un importo inferiore a quello stabilito. Ogni azione arbitraria può condurre infatti a spiacevoli coneguenze sul piano giuridico ed è quindi sempre consigliabile consultare un legale prima di agire in auotonomia. Avv. Daniela Giuliani del Foro di Roma
Da che età un figlio può dormire con il papà- La posizione della giurisprudenza - casi pratici
IL TRASFERIMENTO DEI FIGLI DOPO LA SEPARAZIONE – LA LIBERTA’ DI SCELTA DEL GENITORE COLLOCATARIO E IL PRINCIPIO DI BIGENITORIALITA’ In caso di separazione o divorzio (ma le regole valgono anche per le situazioni di fatto regolamentate dal Tribunale) può capitare che il genitore collocatario dei figli voglia trasferirsi insieme ad essi e cambiare residenza (ad esempio per accettare occasioni di lavoro o per riavvicinarsi alla famiglia o per fare ritorno alla città di origine…). Tale decisione è tuttavia vincolata a regole e limiti ben precisi. Intanto la Corte di Cassazione ha espresso un principio cardine al quale occorre uniformarsi chiarendo che "dovere primario di un buon genitore affidatario e/o collocatario è quello di non allontanare il figlio dall'altra figura genitoriale: quali che siano state le ragioni del fallimento del matrimonio, ogni genitore responsabile, consapevole dell'insostituibile importanza della presenza dell'altro genitore nella vita del figlio, deve saper mettere da parte le rivendicazioni e conservarne l'immagine positiva agli occhi e nel cuore del minore, garantendo il più possibile le frequentazioni del coniuge con la prole minorenne. L'attitudine del genitore ad essere un buon educatore ed a perseguire primariamente il corretto sviluppo psicologico del figlio si misura alla luce della sua capacità di realizzare un siffatto risultato non a parole, ma in termini concreti". Venendo poi al dato normativo esso è rappresentato dall’art.337 sexies c.c. il quale all’ultimo comma recita “In presenza di figli minori, ciascuno dei genitori è obbligato a comunicare all'altro, entro il termine perentorio di trenta giorni, l'avvenuto cambiamento di residenza o di domicilio. La mancata comunicazione obbliga al risarcimento del danno eventualmente verificatosi a carico del coniuge o dei figli per la difficoltà di reperire il soggetto” e dall’art.316 c.c. il quale al primo comma prevede che “Entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore”. Da ciò si evince che la residenza dei figli minori è una decisione che deve essere assunta congiuntamente tra i genitori. Il genitore collocatario che intenda trasferire la residenza dei figli altrove, è tenuto dunque a comunicarlo quindi all’altro genitore come disposto dall’art.337 sexies ultimo comma. Questo vale però nei casi in cui il trasferimento avvenga all’interno dello stesso Comune: laddove invece lo spostamento implichi un allontanamento considerevole dall’altro genitore, tale da rendere difficoltoso o impossibile di fatto l’esercizio delle funzioni di genitore, la sola comunicazione non sarà sufficiente ma sarà necessario che la decisione venga concordata tra i genitori. Può però accadere che l’altro genitore non sia affatto d’accordo al trasferimento. Vediamo quindi cosa accade se il genitore non collocatario venga estromesso dalla decisione o – nonostante abbia manifestato il suo dissenso – l’altro genitore decida comunque di procedere al cambio di residenza. COSA PUO’ FARE IL GENITORE NON COLLOCATARIO SE L’ALTRO GENITORE DECIDE ARBITRARIAMENTE DI TRASFERIRE LA RESIDENZA DEI FIGLI MINORI ALTROVE? Egli potrà rivolgersi al Tribunale competente per opporsi al trasferimento e chiedere quindi la rilocazione dei minori. Il Giudice sarà, così, chiamato ad assumere la decisione nel preminente interesse del minore, ascoltando entrambi i genitori e – ove occorra – nomando un esperto (CTU -ovvero un consulente tecnico d’ufficio) che potrà ascoltare il minore (se ne ricorrono i presupposti) e dovrà fornire al Giudice gli elementi per poter emettere la decisione più idonea a rispondente agli interessi dei minori. COSA ACCADE SE IL GENITORE COLLOCATARIO PROCEDA AL TRASFERIMENTO SENZA IL CONSENSO DELL’ALTRO GENITORE E COME PUO’ TUTELARSI ? Sotto diverso profilo il genitore collocatario, che in assenza di accordo proceda al trasferimento arbitrariamente, va incontro a conseguenze serie. Egli infatti non solo commette un atto illegittimo in quanto vìola il principio della bigenitorialità, ma compie anche un atto potenzialmente rilevante anche dal punto di vista penalistico. E’ sempre consigliabile quindi evitare di agire arbitrariamente e unilateralmente in scelte di questo tipo. Tuttavia se il genitore collocatario intende comunque trasferirsi e non abbia però ottenuto il consenso dell’altro genitore, potrà naturalmente rivolgersi al Tribunale per ottenere l’autorizzazione allo spostamento, motivando le ragioni a sostegno della propria decisione. Anche in questo caso il Giudice procederà nel modo sopra descritto. E’ chiaro che nell’ambito del procedimento sarà importante per la decisione l’analisi delle motivazioni del trasferimento e la valutazione dei vantaggi /svantaggi effettivi rispetto alla situazione attuale. Occorrerà quindi valutare i tempi e le modalità di frequentazione tra il figlio e il genitore non collocatario, occorrerà altresì verificare la concreta possibilità per i figli di mantenere un rapporto con l’altro genitore senza costringerli a stravolgimenti di vita e senza che ciò comporti per l’altro genitore dei costi per le visite che siano sproporzionati rispetto ai propri redditi. Un altro aspetto fondamentale è da valutare è se il nuovo collocamento consenta – e in che modo – ai minori di mantenere rapporti significativi con figure affettivamente importanti come i parenti e i familiari e soprattutto se il nuovo collocamento consenta ai minori di mantenere comunque legami sociali e culturali con il luogo di origine. Di conseguenza il Giudice dovrà valutare anche l’impatto psicologico ed emotivo che il trasferimento potrebbe avere sui minori stessi e chiaramente in quest’ottica è fondamentale anche il fattore dell’età (tenuto conto che in presenza di precisi requisiti il minore può anche essere ascoltato dal Giudice in ordine alla sua preferenza di collocamento). Si comprende quindi l’estrema delicatezza della decisione che il Giudice è chiamato ad assumere, dovendo bilanciare da un lato la libertà del genitore collocatario di autodeterminarsi nelle proprie scelte e dall’altro il principio della bigenitorialità nonché l’interesse supremo del minore che deve guidare ogni decisione in tema di diritto di famiglia. Per tale motivo è sempre consigliabile assumere tali decisioni di comune accordo e mai procedere in modo arbitrario o unilaterale, rivolgendosi al Giudice in tutti i casi in cui non sia proprio possibile raggiugere una soluzione condivisa fra i genitori. Avv. Daniela Giuliani – Avvocati Matrimonialisti Associati sede di Roma mobile 347 19 55 898
Il diritto agli alimenti-differenze ccon il diritto al mantenimento - prequisiti e presupposti del diritto agli alimenti
Addebito nella separazione. Presupposti e conseguenze.
La violazione del diritto di visita del genitore . Rimedi e soluzioni.
La Corte di Cassazione con l’ordinanza numero n. 29627/2022 ha stabilito che l’ex coniuge che durante la vita matrimoniale ha sacrificato il proprio lavoro per dedicarsi alle esigenze della famiglia e dei figli, ha diritto ad un assegno divorzile anche se lavora in nero. La pronuncia riguarda il caso di una donna che – avendo perso occasioni di lavoro e carriera durante il matrimonio- una volta divorziata si è ritrovata a svolgere attività lavorativa in nero non avendo altre possibilità di sostentamento. In questo caso la Corte di Cassazione, rifacendosi alla funzione assistenziale, comparativa e compensativa dell’assegno divorzile ha ritenuto che la donna ne avesse diritto proprio perché durante la vita matrimoniale aveva sacrificato le proprie ambizioni di lavoro per dedicarsi alla famiglia. La sperequazione tra le due condizioni economiche ha spinto i Giudici a ritenere la donna meritevole dell’assegno divorzile pur lavorando in nero, trovandosi comunque in una situazione di oggettiva disparità economica on l’ex coniuge. Del resto ricordiamo che il Tribunale – nel decidere sull’assegno divorzile – deve valutare diverse circostanze e più precisamente – il contributo apportato dal coniuge richiedente al nucleo familiare e al patrimonio; – se la situazione del coniuge richiedente al momento del divorzio sia dipesa dalle scelte condivise con l’ex coniuge durante il matrimonio (ossia se questi abbia sacrificato le proprie ambizioni professionali e reddituali per la cura della famiglia e la crescita dei figli per scelta condivisa); – le condizioni personali del coniuge richiedente l’assegno (età, stato di salute, capacità lavorativa ecc.) al fine di poter emettere una prognosi futura; – la durata del vincolo matrimoniale. L’assegno divorzile infatti va riconosciuto a quello dei due ex coniugi che si trova in difficoltà economica non per sua scelta ma per ragioni oggettive di impossibilità a procurarsi da solo mezzi adeguati al sostentamento. Una volta appurato il diritto all’assegno divorzile esso deve andare sostanzialmente a compensare la disparità economica tra i due ex coniugi al fine di assicurare a quello più “debole” un’esistenza dignitosa e una adeguata auto sufficienza reddituale. Laddove il coniuge , pur lavorando in nero, non riesca a raggiungere l’autosufficienza economica, allora ha diritto all’assegno divorzile. Avv. Daniela Giuliani _Avvocati Matrimonialisti Associati
LA GIURISRPUDENZA IN TEMA DI COLLOCAMENTO PARITARIO (PARENTAL SHARING) – LE PIU’ RECENTI SENTENZE DEI TRIBUNALI Nel caso di separazione/divorzio in presenza di figli minori uno dei nodi principali è quello relativo al collocamento dei figli minori. Premesso che l’affido è condiviso (ovvero la responsabilità genitoriale sui figli è esercitata in modo congiunto da entrambi i genitori) il discorso è diverso per quanto riguarda il collocamento dei figli. Generalmente, come è noto, i figli minori vengono collocati prevalentemente presso un genitore (che sarà il genitore collocatario) e generalmente tale genitore è la mamma. Questo per garantire al minore una stabilità e una continuità nelle proprie abitudini e nel proprio stile di vita che a seguito della separazione dei genitori non può e non deve subire alterazioni troppo significative. Da diversi anni tuttavia si parla sempre più spesso anche in Italia del cosiddetto “parental sharing” ovvero di collocamento paritario tra i genitori. Ci siamo già occupati di questo argomento ma in questa sede riteniamo utile fare un breve excursus su quelle che sono le più recenti sentenze della giurisprudenza di merito. Vediamo quindi come si è espressa la giurisprudenza sull’argomento in questione partendo dalla posizione della Suprema Corte di Cassazione. Per la Corte di Cassazione non si applica il criterio del tempo paritario se, ad esempio, il padre abita lontano rispetto alla mamma: i continui spostamenti infatti influirebbero in modo negativo sull’attività scolastica e sulla vita sociale e ricreativa del minore. Pertanto la vicinanza tra le rispettive abitazioni è senz’altro un punto a favore del riconoscimento del collocamento paritario . Un altro aspetto che potrebbe influire sulla decisione di collocare pariteticamente i minori è quello relativo agli orari di lavoro dei genitori: se il padre infatti osserva degli orari incompatibili con la vita quotidiana dei figli, chiaramente sarà più difficile che ottenga un collocamento paritario. Diversamente, orari di lavoro compatibili facilitano la scelta di questa opzione. In linea generale la Cassazione ritiene che “ la regolamentazione dei rapporti con il genitore non convivente non può avvenire sulla base di una simmetrica e paritaria ripartizione dei tempi di permanenza con entrambi i genitori, ma deve essere il risultato di una valutazione ponderata del giudice del merito che, partendo dall’esigenza di garantire al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena, tenga anche conto del suo diritto a una significativa e piena relazione con entrambi i genitori e del diritto di questi ultimi a una piena realizzazione della loro relazione con i figli e all’esplicazione del loro ruolo educativo”. Cassazione civile sez. I, 17/09/2020, n.19323 Passiamo ora invece in rassegna alcune pronunce di diversi Tribunali Italiani . “ In tema di divorzio, la proposta di doppio domicilio presso le abitazioni dei genitori con un regime di frequentazione paritario ed alternato non corrisponde all’esigenza di serenità dei minori assicurata dalla sicurezza di avere un ambiente di vita stabile e duraturo che solo la permanenza presso la casa familiare dove i minori hanno vissuto finora può garantire. La collocazione paritetica, seppure ispirata dai migliori propositi, non appare confacente all’interesse supremo dei minori ad avere un unico e stabile domicilio.” Tribunale Velletri sez. I, 06/05/2020, n.680 *** “Nell’ambito del divorzio, la bigenitorialità si realizza con la presenza di entrambi i genitori nella vita del figlio e nella cooperazione dei medesimi, nell’osservanza dei doveri di assistenza, educazione ed istruzione, ma ciò non implica necessariamente che il tempo da trascorrere con il minore debba essere paritetico, essendo sufficiente una frequentazione tale da garantire un saldo rapporto affettivo con il genitore”. Tribunale Messina sez. I, 07/10/2020, n.1399 *** “ In tema di divorzio e provvedimenti riguardanti la prole, la chiave di volta del sistema non è il diritto del minore ad una stabilità logistica, ma è (ai sensi dell’art. 337-ter c.c.) il diritto del minore di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori e di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi. Si tratta di comprendere che la determinazione della residenza abituale è del tutto autonoma (e successiva) rispetto alla determinazione dei tempi e delle modalità della presenza dei minori presso ciascun genitore, poiché non coincide con le nozioni civilistiche e amministrative di domicilio e/o di residenza anagrafica, ma va individuata, con riguardo alla situazione di fatto esistente all’atto dell’introduzione del giudizio, tenendo conto del luogo dove si è svolta in concreto e continuativamente la vita dello stesso. Quindi, a seguito della determinazione dei tempi e della modalità della presenza dei minori presso ciascun genitore il Tribunale fissa la residenza anagrafica del minore presso uno di essi, fissa il domicilio del minore presso entrambi i genitori, se del caso attribuisce la casa familiare, attribuisce specifici obblighi economici a carico di ciascun genitore e individua un eventuale assegno perequativo in favore di uno di essi. In definitiva, dunque, far coincidere l’interesse morale e materiale del minore sempre e comunque con una collocazione prevalente appare francamente riduttivo e contraddetto dai sempre più numerosi casi giudiziari di affido paritario” Tribunale Salerno sez. I, 07/11/2019, n.3539 *** “Il collocamento della figlia minore presso entrambi i genitori, in modo paritetico, rispetta il principio della bigenitorialità e tiene conto in via prioritaria delle esigenze della figlia. Non deve essere disposto l’assegno di mantenimento della minore, laddove si valutino le condizioni economiche dei genitori pressoché equilibrate e la piena paritarietà del contributo che ciascun genitore dà in via diretta al mantenimento ordinario della figlia minore”. Tribunale Roma sez. I, 26/03/2019, n.6447 *** “ in materia di affidamento del minore, la soluzione della suddivisione paritetica dei tempi di permanenza presso ciascun genitore non è sempre da preferire; tuttavia, essa è preferibile laddove ve ne siano le condizioni di fattibilità e, quindi, tenendo sempre in considerazione le caratteristiche del caso concreto (quali l’età del minore, gli impegni lavorativi di ciascuno dei genitori, la disponibilità di un’abitazione dignitosa per la crescita dei figli, ecc…)” Tribunale di Catanzaro, 28 /02/ 2019 n. 443 *** “il regime condiviso di esercizio della responsabilità genitoriale rappresenta un modello generale di affidamento che, in ragione delle peculiarità del caso concreto (ad esempio, forte conflittualità tra i genitori), può prevedere particolari declinazioni, tra le quali la domiciliazione a settimane alterne presso il padre e presso la madre”. Tribunale di Firenze, 2/11/ 2018 n. 2945 *** “In virtù del cd. affidamento condiviso paritetico, la frequentazione di figli da parte della madre e del padre deve ispirarsi al principio secondo cui ciascuno dei genitori possa e debba partecipare alla quotidianità dei minori, seguendone il progressivo venir meno della figura del “coniuge prevalente collocatario” e l’assunzione dell’impegno, da parte del genitore presso il quale il minore si trova di volta in volta collocato a seconda delle modalità e tempistiche in tal senso stabilite dalle parti, a provvedere in via esclusiva alle esigenze materiali del figlio. In considerazione di ciò è legittima la modalità di collocamento del figlio minore che preveda l’alternanza dei genitori a vivere con il figlio presso l’abitazione di uno dei due coniugi”. Tribunale Rieti, 11/10/2018 n.489 *** Avv. Daniela Giuliani _ del Foro di Roma- contatti:347 19 55 898
SEPARAZIONE SENZA FIGLI E SORTI DELLA CASA CONIUGALE L’ IPOTESI DELLA CASA CONIUGALE COINTESTATA IN ASSENZA DI FIGLI Nel caso di separazione di una coppia senza figli, quali sono le sorti della casa coniugale? In via preliminare chiariamo subito che in assenza di figli minorenni, o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, la casa coniugale non viene assegnata . Occorre evidenziare che l’assegnazione della casa coniugale risponde all’unica esigenza di tutelare i figli (minorenni o maggiorenni che non siano indipendenti dal punto di vista economico) affinchè restino nel loro habitat. Secondo la Cassazione, infatti, in materia di separazione e di divorzio, l’assegnazione della casa familiare deve essere finalizzata solo alla tutela della prole alla quale deve essere assicurato il diritto di permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta. SE LE CONDIZIONI ECONOMICHE DEI CONIUGI SONO SPROPORZIONATE? Anche in questo caso dobbiamo chiarire che mai l’assegnazione della casa può essere disposta a titolo di integrazione dell’assegno di mantenimento eventualmente dovuto . In caso di evidente e oggettiva disparità di condizioni economiche (pensiamo alla moglie che non lavora e non abbia un “tetto”) si potrà stabilire eventualmente un assegno di importo maggiore ma non si potrà espropriare l’immobile al legittimo proprietario. Da ciò deriva quindi che in caso di separazione tra i coniugi in assenza di figli la casa coniugale resta nella disponibilità piena del legittimo proprietario (che può essere il marito o la moglie). Come ha più volte ribadito la giurisprudenza la richiesta di assegnazione della casa familiare può essere avanzata unicamente in caso di « presenza di figli minorenni o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti al fine di garantire loro una continuità di vita nel medesimo ambiente e, dunque, al fine di evitare ulteriori traumi oltre a quello conseguente alla disgregazione del nucleo familiare. Di conseguenza, detta domanda va rigettata qualora dall’unione coniugale non sono nati figli e, pertanto, non sussistono i presupposti per l’accoglimento della domanda» [Trib. Salerno, sentenza n. 908/2020.]. Ricapitolando dunque, sulla base di quello che è l’orientamento prevalente della giurisprudenza sia di merito che di legittimità, l’assegnazione della casa coniugale - in favore del genitore cosiddetto collocatario dei figli - è prevista solo nel caso in cui vi siano figli minorenni o maggiorenni non ancora autosufficienti economicamente Ne deriva che in assenza dei suddetti presupposti, non si darà luogo ad alcuna assegnazione della casa coniugale. LE SORTI DELLA CASA CONIUGALE COINTESTATA AD ENTRAMBI I CONIUGI IN ASSENZA DI FIGLI Esaminiamo per ultimo anche il caso della coppia senza figli che decide di separarsi e che sia anche comproprietaria della casa coniugale. Dobbiamo in questo caso distinguere due ipotesi: 1- Se la coppia è sposata in regime di comunione dei beni, la comproprietà del bene si scioglie al momento della separazione In questo caso, i coniugi dovranno decidere tra l’attribuzione esclusiva del bene a uno dei due ( che dovrà liquidare all’altro la metà del controvalore dell’immobile), o la vendita a terzi con divisione al 50% del ricavato al netto di oneri e spese eventualmente ancora gravanti sull’immobile al momento della vendita. Oppure procedere una divisione in natura dell’immobile ove possibile. 2- Se la coppia, in regime di separazione dei beni, ha acquistato nel corso del matrimonio un immobile con cointestazione dello stesso ad entrambi, in tal caso la separazione non comporterà lo scioglimento della comunione e l’immobile - anche nel caso di separazione – resterà comunque in comproprietà anche successivamente alla separazione (o divorzio). Anche in questo caso le soluzioni sono quelle sopra elencate. Avv. Daniela Giuliani Avvocati Matrimonialisti Associati - Foro di Roma mobile: 347 19 55 898
FINO A CHE ETA' VA MANTENUTO IL FIGLIO MAGGIORENNE? IL CASO DEL FIGLIO ULTRATRENTACINQUENNE RIMASTO INOCCUPATO- ORDINANZA DELLA CASSAZIONE N.21817/21 del 29.07.2019 L'argomento in questione è stato più volte affrontato dalla giurisprudenza trattandosi di uno dei tempi più scottanti in dirtto di famiglia ovvero il mantenimento dei figli. Recenetemente la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi dell'argomento con un'ordinanza (la n. 21817/21 del 29.07.2019) con la quale ha espresso un principio basilare secondo cui più avanza l'eta del figlio e più è ragionevole presumere che lo stato di inoccupazione del medesimo sia dovuto a inerzia personale (non giustificabile) piuttosto che a ragioni esterne. Già da tempo si ritiene che arrivato alla soglia dei 30/35 anni il figlio non possa e non debba gravare più sui genitori ma debba fare i conti con la realtà e abbassare eventualmente le prorie aspettaive lavorative (in buona sostanza deve "accontentarsi"). Il figlio che alla soglia dei 40 non ha ancora trovato un'occupazione deve - al fine di poter vantare il diritto di essere ancora mantenuto dai genitori - dimostrare di essersi adoperato per la ricerca di un impiego (quindi dimostrare di essersi iscritto ai centri per l'impiego o dimostrare di aver inviato curricula alle aziende o ancora di aver partecipato a concorsi o a selezioni del personale etc...) Intorno ai 40 infatti - sostiene la Corte - è difficile credere che il figlio disoccupato non abbia avuto almeno qualche occasione lavorativa (evidentemente rifiutata) ed e' quindi presumibile che il suo stato di disoccupazione sia dovuto ad una sua inerzia o mancanza di volontà piuttosto che a oggettive circostanze esterne legate al mercato del lavoro. In buona sostanza dunque - secondo l'orientamento maggioritario della giurisprudenza - il genitore non è tenuto a mantenere il figlio oltre la ragionevole soglia dei 35/40 anni di età e a sua volta il figlio che pretenderà di essere mantenuto dovrà dimostrare di essersi alacremente adoperato per la ricerca di una sistemazione lavorativa. Non basterà infatti dichiarare di svolgere lavori saltuari (che non consentono un'autonomia economica) per avere diritto al mantenimento ma sarà necessario dimostrare di aver svolto una accurata e seria ricerca lavorativa e tale onere probatorio incombe sul figlio che ritiene di aver eventualmente (ancora) diritto al mantenimeno. Nell'ordinanza in esame la Corte ha chiarito infatti che non basta dichiarare di non aver trovato un'occupazione stabile ma è necessario dimostrare "l’impegno profuso dal figlio nella ricerca effettiva di un’occupazione", tenuto conto dell’età elevata (nel caso di specie circa 40 anni) e del fatto che lo stesso aveva terminato gli studi da oltre 10 anni. In definitiva, non essendoci un limite massimo stabilito dalla legge, oltre il quale il figlio non ha più diritto al mantenimento, la questione viene risolta secondo i principi base enunciati dalla giurisprudenza nel corso del tempo. In linea di massima possiamo ben affermare che tutto dipende dal percoso scelto: se un figlio ha deciso di non intraprendere un percorso di studi, il suo obbligo di attivarsi per cercare un'occupazione scatta già al compimento dei 18 anni di età; mentre se un figlio ha deciso di intraprendere un percorso formativo accademico (università, master, corsi di specializzazione etc..) allora egli avrà diritto ad essere supportato anche economicamente dai genitori in questa scelta e presumibilmente avrà diritto al mantenimento fino ai 30/35 anni di età ovvero fino a quel limite di età che gli avrà consentito di acquisire conoscenze e preparazione adeguata al suo inserimento nel mondo del lavoro. Superato tale limite - secondo la giurisprudenza - il figlio, rimasto inoccupato nonostante la preparazione accademica, dovrà abbassare le proprie pretese e accontentarsi di quanto offerto dal mercato del lavoro. L'eventuale richiesta di revoca dell'assegno di mantenimento da parte del genitore obbligato andrà presentata mediante ricorso in Tribunale argomentando le ragioni per le quali si ritiene non più dovuto il mantenimento. Avv. Daniela Giuliani - Foro di Roma - AVVOCATI MATRIMONAILIASTI ASSOCIATI - SEDE DI ROMA
Cassazione Civile, ordinanza 19323/2020 del 1 luglio 2020 AFFIDO CONDIVISO : I TEMPI DI PERMANENZA DEI FIGLI CON I GENITORI SEPARATI NON DEVONO ESSERE NECESSARIAMENTE PARITARI La Corte di Cassazione torna ad occuparsi del tema dell’affido condiviso e lo fa in una recente ordinanza, stabilendo che l’affido condiviso non presuppone automaticamente che i figli minori trascorrano tempi paritetici con entrambi i genitori, essendo sempre demandata al Giudice di merito la valutazione, nel caso concreto, del prioritario interesse del minore . Il caso pratico ha visto protagonista un padre che ha proposto ricorso in Cassazione avverso il provvedimento della Corte di Appello che aveva stabilito (modificando le condizioni assunte in sede di separazione) che il figlio minore trascorresse con il papà weekend alternati, anziché trascorrere tutti i fine settimana con il padre. Ebbene la Suprema Corte ha ritenuto il ricorso infondato, motivando come segue la sua decisione. Sebbene in regime di affido condiviso, infatti, è ben possibile che il Giudice di merito disponga tempi di permanenza diversi tra i genitori se questo assetto consente una maggiore realizzazione dell’interesse del minore. La Corte, in buona sostanza, ritiene legittima la decisione del Giudice che, seppure in regime di affido condiviso, disponga tempi di frequentazione non paritari tra la mamma e il papà. Per la Cassazione l'affidamento condiviso non si traduce infatti sempre in tempi di permanenza paritetici poiché occorre valutare nel caso concreto quale sia effettivamente la situazione più consona al minore e quella che gli consenta una crescita psicofisica serena ed armoniosa. Si pensi infatti al caso in cui le abitazioni dei genitori non siano vicine: in questi casi i tempi di permanenza e frequentazione con il genitore non collocatario possono ragionevolmente non essere esattamente paritetici: questo al fine di evitare al minore troppi spostamenti che si tradurrebbero in sacrifici eccessivi a scapito della vita sociale del bambino, del riposo o dello studio. Per questo in tali ipotesi è possibile che il bambino trascorra un tempo maggiore presso il genitore collocatario e meno tempo con il genitore non collocatario. Resta inteso che in tema di affidamento la giurisprudenza tende effettivamente a preferire la scelta dell'affidamento condiviso al fine di garantire il diritto del minore " di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori" e consentire altresì ai genitori di mantenere una continuità nella gestione dei figli minori anche dopo la disgregazione del nucleo familiare. Tuttavia, come si legge nell’ordinanza in oggetto, tale principio non implica alcun automatismo in ordine ai tempi di permanenza che non dovranno essere necessariamente paritetici ma dovranno rispettare le esigenze concrete del minore e potranno quindi anche essere “asimmetrici” se ciò rappresenta la migliore soluzione per il minore. Naturalmente sarà il Giudice a valutare in concreto caso per caso quale sarà la soluzione ideale e maggiormente corrispondente agli interessi del minore . In conclusione, quindi, se da un lato è vero che l’affido condiviso, in mancanza di serie ragioni ostative, deve comportare in via generale una frequentazione dei genitori possibilmente paritaria (che resta, ricordiamolo, la scelta preferibile) dall’altro lato è però altrettanto vero che - nell'interesse del minore ed in presenza di ragioni oggettive che possano ostacolare la sua sana e serena crescita psicofisica - il giudice possa individuare un assetto di frequentazione diverso e non necessariamente paritario . Nel caso dell’ordinanza in oggetto, sulla decisione della Suprema Corte ha inciso in modo particolare la distanza le rispettive abitazioni dei genitori, che avrebbe imposto al bambino dei sacrifici di viaggio tali da comprometterne gli studi, il riposo e la vita di relazione. E’ dunque compito del giudice stabilire in concreto, secondo il superiore interesse del minore, le modalità in cui l’affido condiviso dovrà concretamente realizzarsi tenendo conto di tutte le circostanze fattuali conosciute e prevedibili al momento della decisione che dovrà essere adeguatamente motivata. Avv. Daniela Giuliani del Foro di Roma
A CHI SPETTA LA PENSIONE DI REVERSIBITLITA’ TRA CONIUGE DIVORZIATO E CONIUGE SUPERSTITE. I CRITERI APPLICATIVI In questo articolo cercheremo brevemente di fare luce su una questione molto spesso oggetto di confusione : come ripartire la pensione di reversibilità nel caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite. Un recente ordinanza della Suprema Corte di Cassazione (la n. 8263/2020) stabilisce che il già valido criterio della durata del matrimonio va equilibrato con il criterio della convivenza pre-matrimoniale. In caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite, per determinare la quota spettante di pensione di reversibilità, la legge individua il criterio legale della durata dei rispettivi rapporti di coniugio . Tale criterio deve essere però temperato da ulteriori elementi, come l'entità dell'assegno di mantenimento riconosciuto all'ex coniuge, le condizioni economiche dei due e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali Questo è il principio sancito dalla la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza del 28 aprile 2020 n. 8263. IL DATO NORMATIVO La normativa di riferimento è la legge 898/1970, in particolare , l’art. 9 ART .9 «Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell'assegno di cui all'art. 5. Se in tale condizione si trovano più persone, il tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze» e l’art.5 «Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive» In buona sostanza quindi la ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite deve avvenire considerando la durata dei rispettivi rapporti matrimoniali. Se il sopra richiamato articolo 9 della legge 898/70 impone al giudice di "tenere conto" dell'elemento temporale., va detto che esso non rappresenta però l’unico elemento determinante in quanto il Giudice non è chiamato a fare solo un semplice calcolo aritmetico, ma come vedremo in seguito è tenuto a prendere in considerazione anche altri elementi, che potremmo definire correttivi. L’ordinanza della Corte di Cassazione che stiamo esaminando, chiarisce proprio questo ulteriore aspetto. Alla luce di quanto evidenziato dalla Consulta , infatti, possiamo affermare che i criteri da impiegare in questo caso sono i seguenti: 1.la durata dei rispettivi matrimoni (criterio legale ai sensi dell’art. 9 comma 3 legge 898/70), 2. l'entità dell'assegno di mantenimento riconosciuto all'ex coniuge, 3.le condizioni economiche dei due aventi diritto (il coniuge divorziato e il coniuge superstite), 4. la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali. I suddetti criteri non devono essere necessariamente considerati congiuntamente, bensì il loro impiego rientra nel prudente apprezzamento del giudice di merito (Cass. 18461/2004, Cass. 6272/2004, Cass. 26358/2011; Cass. 16093/2012). Più precisamente tali criteri ulteriori sono dei cosiddetti “correttivi” che vanno applicati al criterio legale e predominante della “durata del matrimonio” al fine di evitare che la ripartizione derivi da esclusivamente da un asettico calcolo aritmetico. Tra i criteri di valutazione sopra richiamati merita attenzione quello della convivenza prematrimoniale . I Giudici della Cassazione chiariscono che la convivenza prematrimoniale va valutata « quale indice sintomatico della funzione di sostegno economico assolta dal dante causa nel corso della propria vita mediante la condivisione dei propri beni con la persona poi divenuta coniuge». Ciò significa che la convivenza prematrimoniale funge anch’essa quale indice correttivo da inserire all'interno del complessivo ed articolato giudizio che deve condurre alla adeguata determinazione delle quote della pensione di reversibilità. In conclusione, quindi, nel determinare la quota della pensione di reversibilità da attribuire in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge sopravvissuto , occorre effettuare una valutazione più ampia e più complessa rispetto al mero calcolo matematico della durata del matrimonio. I suddetti criteri non possono essere infatti trascurati, altrimenti la valutazione del giudice si ridurrebbe ad una mera operazione aritmetica tra la durata dei diversi rapporti di coniugio. Una simile soluzione è stata da tempo superata sia dalla giurisprudenza costituzionale che di legittimità proprio alla luce della necessità di parametrare le quote da attribuire alla reale situazione personale, sociale ed economica degli aventi diritto. AVV. DANIELA GIULIANI, Roma.
Assegno di mantenimento/assegno divorzile. Lavoro in nero. Onere della prova.
Diritto di visita dei nonni . Tutele e casistica .
Articolo pubblicato il 22 luglio 2019 sul portale www.separati.org
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La violazione degli obblighi di assistenza familiare Art. 570 c.p.
MANTENIMENTO EX CONIUGE E REDDITO DI CITTADINANZA. Come sappiamo il reddito di cittadinanza e' un beneficio economico disposto in favore di chi si trova in una comprovata situazione di difficolta' eocnomica e va quindi a modificare il reddito di chi lo percepisce. Di conseguenza è lecito domandare se l’ex coniuge, obbligato a versare il mantenimento , può chiedere al Tribunale di ridurre (o revocare) l’importo dell’assegno già stabilito se l'ex coniuge ha maturato il diritto a percepire il reddito di cittadinanza. Ebbene, nonostante l'assenza di una precisa previsione normativa in tal senso, la irposta è si. Non vi sono ragioni infatti per escludere che la percezione del reddito di cittadinanza dia la possibilità al coniuge obbligato di ricorrere al Tribunale per chiedere una revoca o una riduzione dell'importo versato a titolo di mantenimento: questo perchè, come sopra s'è detto, il reddito di cittadinanza va comunque ad incrementare il reddito del beneficiario. Naturalmente la decisione in merito alla revoca o alla riduzione dell'importo del mantenimento spetta esclusivamente al Tribunale e non esistono parametri matematici per stabilire quando l'assegno di mantenimento possa essere revocato o in che misura possa essere ridotto: tale decisione spetta al Tribunale il quale prenderà in esame una serie di circostanze all'esito di un apposito giudizio di modifica delle condizioni di separazione o divorzio. QUALI SONO I RAPPORTI TRA ASSEGNO DI MANTENIMENTO E REDDITO DI CITTADINANZA? Diciamo subito che, ai fini fiscali, l’assegno di mantenimento è considerato un reddito per chi lo percepisce e viceversa un costo per chi lo èroga. Pertanto, chi percepisce il mantenimento paga le tasse sull’importo dell’assegno, mentre il coniuge che lo versa può dedurlo dal reddito imponibile. I due benefici in taluni casi possono coesistere: può accadere infatti che il coniuge, già percettore dell'assegno di mantenimento o di divorzio, avanzi comunque richiesta per ottenere il reddito di cittadinanza in quanto rientrante nei limiti reddituali imposti dalla legge per ottenere tale beneficio; in altri casi - invece- può accadere che il coniuge che percepisce l'assegno di mantenimento o di divorzio decida di rinunciarvi proprio per avere accesso al Reddito di Cittadinanza (pensiamo al caso di un assegno mensile piuttosto basso). SI PUO' RICHIEDERE LA REVOCA O LA RIDUZIONE DEL MANTENIMENTO IN FAVORE DELL'EX CONIUGE CHE PERCEPISCE IL REDDITO DI CITTADINANZA O CHE SI TROVA NELLE CONDIZIONI DI POTERVI ACCEDERE? Come abbiamo detto sopra, la legge non disciplina espressamente gli eventuali effetti che il Reddito di Cittadinanza può avere sull'assegno di mantenimento o di divorzio, pertanto saranno i Giudici a pronunciarsi sulla possibilità di revocare o ridimensionare l'importo di detto assegno. Una volta introdotto il giudizio per la modifica delle condizioni di separazione/divorzio spetterà dunque al Giudice valutare la possibilità di accogliere la domanda di revoca o riduzione dell'assegno sulla base di una serie di fattori tra i quali la situazione patrimoniale del beneficiario in generale ma anche ogni altra utilità suscettibile di valutazione economica (come appunto la percezione del reddito di cittadinanza o la possibilità di accedervi). In tal senso però occorre evidenziare che il Reddito di Cittadinanza è una misura dalla durata limitata nel tempo (18 mesi anche se rinnovabili) che tende in buona sostanza a condurre il beneficiario alla ricerca di un'attività lavorativa. Pertanto la scadenza naturale (o la revoca) della percezione del beneficio potrebbero condurre ad una "riviviscenza" della situazione reddituale precedente e quindi del diritto all'assegno di mantenimento. Ciò significa che la sola opportunità di ricevere il sussidio (peraltro di natura temporanea) potrebbe non essere sufficiente a giustifcare la revoca o la riduzione dell'assegno di mantenimento o divorzile, laddove non siano contemporaneamente presenti variazioni significative della situazione patrimoniale del beneficiario. In tutte queste ipotesi pertanto sarebbe opportuno stipulare un accordo tra le parti - con l'assistenza dei rispettivi legali - teso ad una modifica congiunta delle condizioni relative al mantenimento al fine di poter ricorrere congiutamente al Tribunale ed ottenere cosi una modifica che tenga conto delle contingenze economiche del momento. AVV. DANIELA GIULIANI del Foro di Roma Via della Giuliana 73 00195 Roma Mobile 347 19 55898
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