Avvocato Fabio Sorà a Salerno

Fabio Sorà

Avvocato Penalista


Informazioni generali

Sono Fabio Sorà, avvocato specializzato in diritto penale. Ho maturato un esperienza professionale quasi ventennale nel campo penale affrontando processi in molti Tribunali d'Italia e per ogni tipologia di reato (da quelli Tributari, ambientali, edilizi sino a quelli in materia di droga). Sono sempre disponibile nei confronti dei miei clienti che mi apprezzano oltre che per la competenza anche per l'empatia ed il rapporto che riesco ad instaurare con loro.

Esperienza


Diritto penale

Ho fatto pratica presso uno studio specializzato in diritto penale e seguito un master in diritto e procedurale penale volendo sempre svolgere la professione di avvocato penalista. Dopo qualche anno ho aperto il mio studio e da allora ho seguito tanti clienti per i più disparati reati. Ho avuto la fortuna di ricevere incarichi per diverse tipologie di reati che mi hanno permesso di fare un esperienza che definirei completa nel capo penale.


Altre categorie:

Sostanze stupefacenti, Violenza, Stalking e molestie, Reati contro il patrimonio, Omicidio, Discriminazione.


Referenze

Pubblicazione legale

Patteggiamento in continuazione con sentenza passata in giudicato per reato meno grave rispetto a quello per cui si procede.

Pubblicato su IUSTLAB

Si pone all’attenzione dei lettori un caso pratico in tema di: patteggiamento in continuazione con sentenza passata in giudicato per reato meno grave rispetto a quello per cui si procede . L’esigenza dell’operatore è quella di ricorrere all’istituto del patteggiamento per definire un procedimento penale nel quale vengono contestate plurime condotte di cui al comma 1 dell’art. 73 DPR 309/90 (cessione di sostanza stupefacente di tipo eroina) e porlo in continuazione con una sentenza già passata in giudicato, avente ad oggetto la condotta di cui al comma V del predetto art. 73 (fatto di lieve entità), con la quale veniva comminata la pena di anni 1 e mesi 3 di reclusione. Per affrontare il tema bisogna necessariamente partire dall’istituto della continuazione ex art. 81 c.p. e del concetto di medesimo disegno criminoso che però si eviterà di approfondire in questa sede, potendo ritenere pacifico che, nel caso di specie, ne ricorrano i presupposti, trattandosi di violazioni dello stesso precetto, commesse in periodi di tempo molto vicini tra loro e che differiscono solo per l’entità della condotta. Il tema successivo da esplorare è quello relativo alla possibilità di applicare l’istituto del reato continuato ed il relativo trattamento sanzionatorio più favorevole anche a reati giudicati, non nel medesimo processo bensì in diversi ed autonomi procedimenti penali. Il soccorso ci viene offerto dalla previsione contenuta nell’art. 671 c.p.p. che prevede, appunto, la possibilità del giudice dell’esecuzione di applicare la disciplina del concorso formale e del reato continuato, su richiesta delle parti, anche nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti. Si tratta di quello che viene definito nella prassi “incidente di esecuzione in continuazione” o anche detto “incidente in continuazione”. La ratio della norma è quella di eliminare il vulnus che si determinerebbe dall’ingiustificata disparità di trattamento tra l’imputato, giudicato per più reati nell’ambito di un unico procedimento (che potrà beneficiare del più mite trattamento sanzionatorio) e l’imputato giudicato per più reati i quali però, seppur eseguiti nel medesimo disegno criminoso, siano stati oggetto di separati giudizi. In questa direzione anche la previsione dell’art. 188 delle norme di attuazione che prevede, in caso di più sentenze di patteggiamento pronunciate in procedimenti distinti contro la stessa persona, che questa ed il p.m. possano chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato quando concordino sull’entità della sanzione sostitutiva o della pena detentiva, prevedendo altresì la possibilità per il giudice di accogliere la richiesta anche in caso di disaccordo del p.m., qualora lo ritenga ingiustificato. Da tanto se ne ricavano due conclusioni: la possibilità di unificare sotto il vincolo della continuazione tutti i reati eseguiti nel medesimo disegno criminoso sia nel caso in cui vengano giudicati in unico processo penale sia nel caso in cui il giudizio sia stato reso in più procedimenti distinti; la sede naturale individuata dal legislatore per far ricorso all’istituto in esame è quella della fase esecutiva. Nella prassi, ormai consolidata, gli operatori di giustizia hanno chiesto, sempre più spesso, ai giudici della cognizione di anticipare la disciplina in esame alla fase del merito facendo ricorso al c.d. patteggiamento in continuazione. Non vi è dubbio, infatti, che il giudice della cognizione possa anticipare pronunciamenti tipici della fase esecutiva, ad esempio applicando una causa di estinzione della pena come l’indulto. Fatta tale doverosa premessa, ultronea per i più, i problemi operativi che si sono posti all’attenzione dello scrivente sono i seguenti: È possibile l’unificazione anche quando il reato della sentenza passata in giudicato sia meno grave rispetto a quello oggetto di giudizio pendente? E’ possibile ricorrere al predetto istituto anche quando il reato per cui si procede è stato commesso successivamente al passaggio in giudicato della sentenza emessa per il reato che s’intende porre in continuazione? A tali interrogativi ha, per la verità, già risposto la giurisprudenza esprimendosi nel senso di ritenere che “l’applicazione del reato continuato non trovi ostacolo nel fatto che uno o più tra i reati per i quali si deve valutare la continuazione sia stato commesso dopo che era passata in giudicato la sentenza relativa agli altri reati di cui trattasi” (Cass. Pen. - 17.02.94 n. 196527) ed allo stesso modo “quando la precedente condanna sia intervenuta con riferimento al reato meno grave” (Cass. Pen. - 8.11.96 n. 206468). Da tanto se ne ricava come l’unico presupposto indispensabile per la riunione in continuazione tra diversi reati sia la ricorrenza dell’unicità del disegno criminoso e dunque l’operatore, nel caso che ci occupa, potrà richiedere un patteggiamento per il reato più grave di cui al comma 1 dell’art. 73 DPR 309/90 e porlo in continuazione con quello meno grave, previsto dal V comma del citato articolo, ascritto con la sentenza passata in giudicato. Ne consegue l’ulteriore e conseguenziale ragionamento in ordine ai profili pratici inerenti il calcolo della pena concretamente proponibile con la richiesta di patteggiamento, che deve comunque tener conto del principio dell’intangibilità del giudicato. A tali fini, nel caso concreto che ci occupa, si consideri inoltre la circostanza che l’imputato non potrà beneficiare del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche con le aggravanti contestate in quanto le stesse si fondano sulla recidiva reiterata ed infraquinquennale che non consente tale modalità di bilanciamento. Tenuto conto di quanto sin qui argomentato, a sommesso avviso dello scrivente, la richiesta di accordo sulla pena dovrebbe essere così formulata: pena base, per il reato più grave (che è quello per cui si procede) - anni 6 di reclusione; aumento per la continuazione interna (tra più fatti interni al processo pendente) - anni 6 e mesi 3 di reclusione; diminuzione per il rito anni 4 e mesi 2 di reclusione; aumento per la continuazione (esterna) con la sentenza passata in giudicato - anni 4 e mesi 3 di reclusione. Ovviamente gli aumenti per la continuazione dovranno incontrare l’accordo del p.m. ma la scelta operativa di procedere prima alla riduzione per il rito e poi all’aumento per la continuazione esterna, è dovuta al fatto che diversamente si applicherebbe il beneficio della riduzione per il rito anche alla pena contenuta nella sentenza passata in giudicato che invece non ne avrebbe diritto in quanto non definita con un rito premiale. Tale ultima considerazione, peraltro, introduce un ulteriore interrogativo: questa preclusione potrebbe viceversa ritenersi non operante nel caso in cui anche la sentenza passata in giudicato sia stata definita con un rito premiale? Risposta in senso positivo potrebbe ricavarsi proprio dalla presenza nell’ordinamento della previsione di cui all’art. 188 disp. att. che, attraverso l’introduzione dell’istituto del c.d. patteggiamento in fase esecutiva, farebbe propendere per tale orientamento ermeneutico. Ulteriore profilo, rispetto al caso in esame, è legato alla riforma normativa intervenuta nel 2006 che ha aggiunto il secondo periodo all’art. 671, I comma c.p.p., stabilendo che “fra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza”. Evidente in questo caso la volontà del legislatore di attenuare le conseguenze penali della condotta sanzionatoria nel caso di tossicodipendenti, con la conseguenza che tale status può essere preso in esame per giustificare l’unicità del disegno criminoso con riguardo ai reati che siano collegati e dipendenti dallo stato di tossicodipendenza. La conseguenza pratica della disposizione è che, fermo restando la presenza delle altre condizioni individuate dalla giurisprudenza per la sussistenza della continuazione, potranno essere ritenuti avvinti dal predetto vincolo anche reati di per sé eterogenei ma commessi ad esempio allo scopo di ottenere la dose di stupefacente o di saldare un debito maturato nei confronti dello spacciatore. In sostanza lo stato di tossicodipendenza potrà essere preso in esame come collante idoneo a giustificare l’unitarietà del disegno criminoso qualora i reati siano dipendenti da esso e ricorrano anche le altre condizioni sintomatiche della sussistenza della continuazione (sul punto cfr. Cass. 21.07.2009 n. 244828). Da tanto se ne ricava che l’ulteriore passo da compiere nel caso che ci occupa, trattandosi di imputato tossicodipendente (iscritto al Sert), sia quello di verificare se anche le altre sentenze, che hanno determinato la contestazione della recidiva reiterata ed infraquinquennale, siano unificabili con quella che si formerà attraverso il predetto patteggiamento in continuazione; in caso positivo potrà infatti richiedersi nuovamente l’applicazione della disciplina dell’art. 671 c.p., questa volta nella fase esecutiva, ponendo in continuazione i reati di cessione di sostanze stupefacenti con quelli commessi in occasione e per effetto dello status di tossicodipendenza.

Pubblicazione legale

Fatturazioni per prestazioni inesistenti

Pubblicato su IUSTLAB

Prima di passare in rassegna la questione giuridica oggetto di sindacato di legittimità è opportuno descrivere il caso di specie: Tizio, amministrate di una società a responsabilità limitata, fino al 10.09.06 viene tratto a giudizio, in concorso col rappresentate legale pro tempore, per rispondere del reato di fraudolenta dichiarazione mediante uso di fatture per prestazioni inesistenti di cui all’art. 2 D. Lvo 74/2000 (cd false fatturazioni) indicate nella dichiarazione dei redditi presentata all’Agenzia delle Entrate il 26.09.07, quando era in carica, da circa un anno, un altro legale rappresentate. La domanda che si pone all’attenzione è dunque la seguente: può il rappresentante legale, non più in carica al momento del deposito della dichiarazione dei redditi (avvenuta l’anno successivo alla perdita della qualifica), essere ritenuto responsabile di aver utilizzato false fatturazione in concorso col rappresentate legale in carica al momento del concreto utilizzo di queste fatture mediante il loro inserimento nella dichiarazione presentata all’Agenzia delle Entrate? Sembrerà strano ma a tale domanda sia il Tribunale che la Corte di Appello hanno dato risposta affermativa, nel senso di ritenere responsabile l’ex amministratore anche se non più in carica quando, l’anno successivo, il nuovo amministratore ha presentato la dichiarazione dei redditi contenente gli elementi passivi fittizi documentati dalle fatture ritenute false. Nella specie la Corte Territoriale si è espressa in questi termini: “…seppure Tizio non rivestiva più la qualità a lui contestata al momento della consumazione del reato, sicuramente la rivestiva tuttavia nei mesi di registrazione delle fatture fittizie, il che individua la sua responsabilità a titolo di concorso nel reato…”. Preliminare alla comprensione della questione giuridica, è l’individuazione del momento consumativo del reato previsto dall’art. 2 D.Lvo 74/2000. Sul punto la giurisprudenza di merito (compreso la ns Corte Territoriale) nonché quella di legittimità è ormai conforme nel ritenere - in sintonia con la volontà del legislatore di spostare il momento di rilevanza penale della condotta e quindi abbandonare la dimensione prodromica dell’illecito - che il momento consumativo del reato coincida con la presentazione della dichiarazione annuale dei redditi nella quale sono stati indicati gli elementi passivi fittizi documentati dalle fatture. Il reato è dunque di natura istantanea e si perfeziona nel momento in cui viene presentata la dichiarazione annuale dei redditi. La ratio della norma e l’interpretazione operata dalla giurisprudenza è di facile comprensione se si considera che nella dichiarazione dei redditi sono contenuti sia gli elementi positivi o attivi di bilancio (redditi) sia quelli negativi o passivi (costi); dalla compensazione tra questi importi viene fuori la c.d. base imponibile, ovvero l’importo sul quale si calcola l’aliquota di pressione fiscale corrisponde alla fascia di reddito prevista dalle imposte sui redditi; ne consegue che l’aumento dei costi di esercizio, generato attraverso l’indicazione in dichiarazione di elementi passivi fittizi, mediante la predisposizione di fatture false (che documentano costi mai sostenuti), comporterà l’abbassamento della base imponibile e quindi del reddito dichiarato ai fini fiscali. Per tanto il momento consumativo della condotta non può che essere quello in cui si presenta la dichiarazione dei redditi all’Agenzia delle Entrate per la semplice ragione che è proprio in quel preciso momento che il contribuente dichiara (fraudolentemente) un reddito diverso da quello realmente prodotto mediante l’uso di fatture false che documentano costi mai sostenuti. Coerente con tale interpretazione è l’intero impianto normativo contenuto nel D.Lvo 74/2000 e lo stesso testo di cui all’art. 2 che difatti s’intitola: “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, quasi a voler evidenziare, già nel titolo, come la condotta incriminata non sia quella di aver formato, o concorso a formare, fatture false (per operazioni inesistenti) ma quella di aver dichiarato un reddito non corrispondente al vero proprio attraverso l’utilizzo di fatture che documentano costi non sostenuti nella realtà. L’elemento costituente risiede dunque nella dichiarazione fraudolenta che, sebbene caratterizzata da una condotta progressiva (dapprima la registrazione in contabilità della fattura falsa e poi l’indicazione in dichiarazione del costo fittizio) si completa nella sua penale rilevanza nel momento in cui la dichiarazione viene portata a conoscenza dell’ente che la deve conoscere. Cosa succede dunque a quelle condotte propedeutiche alla fraudolenta dichiarazione, ovvero quelle consistenti ad es. nella registrazione delle fatture false in contabilità che, come è ovvio, avviene prima della presentazione della dichiarazione dei redditi? Sul punto si è già espressa la Cassazione a Sezioni Unite, già nel 2000 con la sentenza n. 25.10.2000 n. 27, con la quale ha stabilito che “di per sé la propedeutica registrazione in contabilità o la detenzione ai fini di prova di fatture per operazioni inesistenti, anche se teleologicamente dirette in modo non equivoco alla successiva dichiarazione fraudolenta, non sono punibili neanche quando il loro successivo mancato inserimento nella dichiarazione derivi, non già da uno spontaneo ripensamento del contribuente, ma dall’intervento, nelle more, di un accertamento compiuto nei suoi confronti”. Secondo tale orientamento dunque gli atti prodromici alla fraudolenta dichiarazione, compreso la registrazione delle fatture in contabilità, non possono configurare il reato de quo. Tanto peraltro è confermato dal complessivo impianto normativo che all’art. 6 prevede espressamente che i delitti previsti dagli articoli 2, 3, e 4 non siano punibili a titolo di tentativo. Da tanto se ne ricava come dunque gli atti preparatori, anche laddove abbiano i requisiti richiesti dall’art. 56 c.p., non siano rilevanti agli effetti penali almeno per quanto concerne i reati previsti dagli articoli 2, 3 e 4 del D.Lvo 73/2000 (tra i quali dunque la dichiarazione fraudolente mediante uso di fatture o altri documenti per prestazioni inesistenti). Anche tale previsione conferma quanto sostenuto dalla difesa di Tizio, sia in primo che secondo grado di giudizio, ovvero che il momento dichiarativo divenga il discrimine tra il lecito e l’illecito in quanto prima della dichiarazione non vi è alcun fatto penalmente rilevante nemmeno nella forma del tentativo. Se dunque il discrimine tra lecito ed illecito è la dichiarazione fraudolenta, che rappresenta sia il momento consumativo che costitutivo del reato, a parere dello scrivente, non potrà essere mosso alcun addebito all’imputato Tizio in quanto al momento della presentazione della dichiarazione non rivestiva più, da oltre un anno, la qualità di legale rappresentante della società.

Lo studio

Fabio Sorà
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Salerno (SA)

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