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Demansionamento

Scritto da: Federica Del Monte - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

Il datore di lavoro può modificare le tue mansioni?

Se il datore di lavoro cambia le mansioni di un dipendente, sostituendo i vecchi incarichi con compiti ripetitivi e semplici senza che vi sia un ridimensionamento dello stipendio, tale politica aziendale può rappresentare agli occhi del lavoratore un’azione atta a svilire la propria professionalità.

Questo perché la mansione che svolge il dipendente, è indicata nel contratto di assunzione, o nel mansionario e, ogni successiva modifica nel corso del rapporto incontra determinati limiti, imposti dalla legge o dai contratti collettivi

La legge infatti, prevede che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia acquisito o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. In ogni caso, l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori al di fuori delle eccezioni tassativamente previste dalla legge, si configura quale violazione dell’art. 13 Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori), con conseguente dichiarazione di nullità dell’atto o patto contrario e la condanna del datore di lavoro a riassegnare il lavoratore alle mansioni precedentemente svolte, oltra al risarcimento del danno.

Indi, il demansionamento, è in generale vietato in quanto comporta una vera e propria lesione alla professionalità acquisita da un individuo in un determinato periodo di tempo.

La legge prevede solo tre eccezioni in cui è permesso lo slittamento a compiti inferiori:

  • ragioni aziendali che comportino la modifica dell’organizzazione;
  • se previsto dai contratti collettivi;
  • per salvare il dipendente da un licenziamento tramite il cosiddetto ripescaggio, ossia proponendogli di tornare a occuparsi di mansioni equivalenti a quelle precedenti in modo da preservare il suo posto nell’azienda. Se ciò non è possibile, il datore può – nonostante non sia tenuto a farlo – offrire una mansione inferiore con riduzione dello stipendio.

Laddove quindi il demansionamento sia possibile per legge, il datore di lavoro è tenuto a comunicarlo tramite lettera scritta altrimenti lo slittamento rimane nullo. In caso contrario, il dipendente può agire in tribunale contro il proprio datore di lavoro ma ciò deve essere fatto entro cinque anni dalla cessazione del rapporto stesso e per ottenere prima di tutto l’assegnazione alle vecchie mansioni.

Ovviamente, il dipendente non può autotutelarsi smettendo semplicemente di lavorare, al fine di essere nuovamente riassegnato alle mansioni proprie, perché il rifiuto di svolgere la prestazione viene ritenuto un atto di insubordinazione e come tale potrebbe determinare il licenziamento del dipendente nei casi più gravi.

Il demansionamento, essendo ritenuto grave e illecito, ma soprattutto un inadempimento contrattuale da parte datoriale, dà diritto al dipendente di rassegnare le proprie le dimissioni per giusta causa e senza preavviso, ottenendo in questo modo l’indennità di disoccupazione dall’Inps.

Se la modifica delle mansioni mortifica la professionalità del dipendente, il datore paga il danno non patrimoniale anche quando manca un vero e proprio demansionamento. Infine il dipendente ha diritto, anche dopo il demansionamento, alle retribuzioni secondo il precedente inquadramento, quello cioè superiore.

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Referenze

Pubblicazione legale

Divorzio breve

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Il 22 aprile la Camera dei Deputati ha definitivamente approvato la legge sul c.d. divorzio breve, con la quale, dopo quasi trent’anni dall’ultima modifica del 1987, si procede ad un radicale stravolgimento della legge n. 898/1970 sul divorzio. Trascorsi 15 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, la presente legge entrerà definitivamente in vigore. Vediamo, quindi, i punti cruciali della riforma in questione. Un primo punto riguarda l’accorciamento dei tempi con cui si potrà procedere a divorzio a seguito di separazione. Gli attuali tre anni di attesa, infatti, diventeranno dodici mesi in caso di separazione giudiziale ininterrotta tra coniugi, e sei mesi in caso di separazione consensuale, indipendentemente dalla presenza o meno di figli, ed anche nel caso in cui la separazione sia nata come contenziosa. Altro punto fondamentale è l’anticipazione dello scioglimento della comunione tra coniugi, oggi previsto con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione. Con la riforma, infatti, lo scioglimento della comunione verrà anticipato al momento in cui il presidente del tribunale , all’ udienza di comparizione, autorizza la coppia a vivere separata, in caso di separazione giudiziale, o alla data di sottoscrizione del verbale di separazione omologato, nel caso di consensuale. Altra novità riguarda l’affidamento dei figli e il loro mantenimento, è stato previsto, infatti, che la sentenza del giudice sarà valida anche dopo l’ estinzione del processo , fino a che non sia sostituita da un altro provvedimento emesso in conseguenza di una nuova presentazione del ricorso per separazione personale dei coniugi. Per quanto riguarda, infine, la disciplina transitoria, la nuova normativa si applicherà anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge, anche in caso di contemporanea pendenza del procedimento di separazione personale che ne costituisce il presupposto.

Pubblicazione legale

Affidamento figli al padre

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Separazione e divorzio: spieghiamo i casi in cui l’uomo può chiedere l’affidamento esclusivo dei figli e ottenerlo. Quello che viene chiamato affidamento condiviso dei figli minori rappresenta quasi la normalità in situazioni di separazione e divorzio. Tuttavia, esistono dei casi che trascendono il principio della bigenitorialità ovvero, quando un genitore dimostra incapacità educativa e quindi responsabilità genitoriale. Se il giudice ritiene che l’affidamento condiviso vada contro l’interesse del minore, può in via esclusiva disporre un provvedimento che prevede l’affidamento a un solo genitore. Quando i figli vengono tolti alla madre? Il padre può ottenere l’affidamento dei figli quando la madre mostra comportamenti che potrebbero nuocere all’equilibrio psicofisico dei figli il tutto dopo aver attentamente valutato assieme a CTU e specialisti la reale situazione di tutto il nucleo familiare. IN PARTICOLARE, I FIGLIO PUÒ ESSERE ALLONTANATO DALLA FIGURA MATERNA IN CASI BEN DELINEATI E SPECIFICI. Alienazione parentale: manipolazione psicologica attuata dalla madre con lo scopo di allontare il figlio dal padre. Si tratta di comportamenti reiterati e particolarmente gravi, tali da far perdere al figlio la stima del genitore. L’alienazione parentale sussiste anche durante l’affidamento condiviso stesso; infatti, sono molti i casi in cui la madre cerca in tutti i modi di ostacolare gli incontri tra padre e figlio. In questa casistica, il padre può fare rivolgersi al tribunale, con un ricorso specifico, per ottenere l’affidamento esclusivo del figlio. Il comportamento dell’ex coniuge, infatti, potrebbe nuocere gravemente all’equilibrio psicofisico della prole. Maltrattamenti familiari: è il caso in cui la madre commette violenze fisiche o verbali (minacce, umiliazioni) nei confronti del figlio. Quest’ultimo potrebbe riscontrare gravi ripercussioni psicologiche a lungo termine. La mancanza di autostima e il forte stress derivante da tale situazione potrebbe portare, con la crescita dell’individuo, allo sviluppo di comportamenti violenti e depressione. Relazione patologica tra madre e figlio: comportamenti possessivi nei confronti del figlio, gelosia e invasione della privacy. Viene definita patologica anche l’imposizione ad avere certe preferenze, a scegliere un certo indirizzo di studi e a seguire passioni che il figlio non sente proprie. Inidoneità educativa della madre: può essere dovuto a varie casistiche. Un esempio potrebbe essere una particolare situazione psicologica che rende la madre incapace di provare sentimenti nei confronti di altre persone. Questo potrebbe ovviamente ripercuotersi anche nella vita del figlio. Fanatismo religioso: si verifica quando la madre professa una religione con modalità tali da compromettere lo sviluppo psicologico del minore . Potrebbe accadere che lei gli vieti di frequentare persone che seguono religioni differenti, o etichetti un suo comportamento come peccaminoso e meritevole di una punizione. A volte, può essere lo stesso minore ad insistere per essere affidato al padre: succede ciò, quando il figlio esprime la propria preferenza tra i due genitori e la esprime anche davanti al Giudice. In tutti questi casi, il padre, può rivolgersi al tribunale, sia in sede di separazione che di divorzio, e fare detta richiesta di affidamento esclusivo, ma, deve saper dimostrare perché l’ex coniuge non sia adatto per crescere i propri figli. COLLOCAZIONE PRESSO LA CASA PATERNA. Oltre all’affidamento esclusivo, al padre, nel nostro ordinamento prevalendo il principio della bigenitorialità, che prevede quindi un affidamento condiviso, senza dover ricorrere alla richiesta di affidamento esclusivo il padre, potrà anche chiedere al Tribunale, di essere il collocatario dei figli. In questo caso, fermo restando l’affidamento condiviso ad entrambi i genitori, nel rispetto dei dettami della legge, i figli possono essere “collocati” presso la casa paterna, ed in questi casi, la madre potrà esercitare tutti i diritti di visita, secondo quando disporrà i tribunale in sede di omologa o di adozione di provvedimento temporanei ed urgenti.

Pubblicazione legale

Stalking condominiale

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Il condominio diventa spesso luogo fisico nel quale, da semplici dissidi e contrasti tra inquilini, si dirompe facilmente nell’area del penalmente rilevante. A dirlo sono le statistiche, essendo dimostrato che una buona percentuale di ipotesi di atti persecutori si realizza nella sfera condominiale. Per questo la Corte Costituzionale ( Cass. pen., sez. V, 7 aprile 2011, n. 20895 ) ha esteso l’ambito di applicabilità dell’art. 612-bis c.p. al contesto condominiale, ritenendo riduttiva la lettura della norma dell’articolo per cui gli atti persecutori dovrebbero indirizzarsi verso un unico soggetto. Nasce così la fattispecie di reato dello stalking condominiale, intendendo con ciò il reato commesso da chi assume comportamenti molesti e/o persecutori ai danni dei vicini di casa, tanto da ingenerare in loro stati di ansia, paura e malessere perduranti nel tempo e costringendoli a cambiare le proprie abitudini di vita. In alcuni casi, poi, lo stalking condominiale può essere integrato dai rumori molesti ai danni della persona offesa, quindi nel disturbare costantemente i vicini di casa con confusione e fragore, purchè, tuttavia, sussista l’elemento soggettivo richiesto ai fini della riconoscibilità della fattispecie delittuosa, ovverosia il dolo generico, ravvisabile nella volontà di porre in essere condotte moleste o minacciose nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli effetti previsti dall’articolo 612-bis c.p. È quindi necessario dimostrare non solo la condotta dello stalker, ma anche le conseguenze psicologiche che quest’ultimo ha cagionato nella vittima, ossia “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un proprio congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita” . Per fare solo alcuni esempi: condotte fastidiose come tenere televisori e stereo a volume alto in piena notte; comportamenti contrari alla convivenza civile come lasciare sporcizia sul pianerottolo; azioni compiute per intimidire il vicinato come avvelenare animali domestici; atti per mettere a repentaglio l’incolumità dei vicini come gettare liquidi scivolosi sugli usci o sui balconi; telefonate mute, specie nelle ore di riposo; citofonate continue; pedinamento di un condominio; apertura della posta personale. Se vi siete rivolti all’amministratore di condominio e gli atti persecutori continuano, potete presentare una richiesta di ammonimento al Questore, per il tramite di dell’autorità di pubblica sicurezza, ex art.8 D.L. 23 febbraio 2009, n.11, convertito con modificazioni in legge 23 aprile 2009, n.38. Il questore, preso atto della richiesta e se la ritiene lecita, emette un decreto di ammonimento orale nei confronti dello stalker, che evita al colpevole un processo penale e alla vittima di doversi avventurare nelle lungaggini della giustizia. Se il comportamento non cessa, nonostante l’ammonimento del questore, in caso di nuova segnalazione, in questo caso si procederà d’ufficio per il reato di cui all’art. 612 bis cp e la pena sarà aumentata. In caso di querela, è utile munirsi di quante più prove possibili – lettere, registrazione delle telefonate ricevute ecc. Accertata la responsabilità penale dell’accusato, si può emettere nei suoi confronti un’ordinanza restrittiva che impone all’imputato di lasciare la propria abitazione e di non avvicinarsi oltre i 500 metri al condominio per un determinato periodo di tempo.

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