Nell'ambito della mediazione, quale strumento alternativo al giudizio in sede civile, garantisco il massimo aggiornamento possibile ed elevatissima efficacia delle procedure. La mia personale filosofia e formazione giuridica mi impongono, in questo specifico settore, di perseguire la finalità della riduzione delle tempistiche e dell'ottenimento del miglior risultato possibile per il cliente. In particolare ho ampia esperienza in tema di mediazione familiare, in caso di separazione e di figli minori, nonché in tema di mediazione per controversie condominiali. Ho sempre conseguito ottimi risultati all'esito delle mediazioni intraprese

Francesco Guido
Avv. penalista e civilista esperto in diritto di famiglia, assicurazioni, successioni
Informazioni generali
Ho esperienza settoriale in materia di diritto penale per colpa medica e reati contro la persona mentre in diritto civile mi occupo di famiglia e minori, volontaria giurisdizione, assicurazioni, successioni e donazioni. Tratto ampia casistica in tema di modifica accordi di separazione e divorzio, nonché separazione tra coniugi e regime di affidamento dei minori. Sono legale di fiducia di un sindacato autonomo in materia di professioni sanitarie. Dopo la laurea presso l'Università di Roma Tor Vergata, ho conseguito la specializzazione ad indirizzo notarile presso l'Università Magna Graecia di Catanzaro.
Esperienza
Sono autore di una tesi di laurea monografica in Diritto Civile dal titolo "Dichiarazioni inesatte e reticenti nel contratto di assicurazione", relatore il Chiarissimo Prof. Paolo Papanti Pelletier - Ordinario di diritto civile presso l'Ateneo di Roma "Tor Vergata" ove ho conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza nell'anno 2013. Ho conseguito il diploma di specializzazione ad indirizzo notarile presso la S.S.P.P.L. dell'Università "Magna Graecia" di Catanzaro, oltre ad avere frequentato uno studio notarile in Cosenza per uno stage con rilascio di attestato di frequenza. Studio da anni per il concorso notarile.
Mi occupo quotidianamente di tutti gli aspetti del diritto di famiglia e di volontaria giurisdizione, conferendo peculiare centralità alle separazioni, ai divorzi ed ai c.d. "diritti contesi" dei minori, aggiornandomi costantemente sulle innovazioni giurisprudenziali relative ad istituti particolari quali l'affido esclusivo e l'affido super-esclusivo, nonché l'autorizzazione giudiziale all'espatrio del minore, mediante acquisizione della carta d'identità, in presenza di opposizione dell'altro genitore. Mi occupo regolarmente anche di procedimenti aventi ad oggetto la responsabilità genitoriale (artt. 330 e 333 c.c.).
Altre categorie
Eredità e successioni, Separazione, Affidamento, Tutela dei minori, Fallimento e proc. concorsuali, Diritto assicurativo, Diritto del lavoro, Diritto penale, Incidenti stradali, Stalking e molestie, Risarcimento danni, Divorzio, Matrimonio, Sicurezza ed infortuni sul lavoro, Sostanze stupefacenti, Diritto condominiale, Malasanità e responsabilità medica, Omicidio, Multe e contravvenzioni, Incapacità giuridica, Diritto sindacale, Negoziazione assistita, Tutela del consumatore, Edilizia ed urbanistica, Previdenza, Gratuito patrocinio, Domiciliazioni e sostituzioni.
Credenziali
Il trust interno
Pubblicato su IUSTLABNel quotidiano svolgimento dell’attività professionale forense mi sono, non di rado, imbattuto nella controversa tematica del “ diritto di cittadinanza ” nel nostro ordinamento dell’istituto del trust interno , la cui validità è stata fonte di acceso dibattito in dottrina e di pronunce giurisprudenziali contrapposte. Prima di entrare nel merito dell’oggetto del presente articolo è però d’uopo non dare per scontata la nozione di “ trust ” e svolgere quindi, per brevi cenni, alcune considerazioni generali in merito all’istituto. Il riferimento normativo nazionale è la Legge n. 364 del 1989 che introduce il “ trust ” nell’ordinamento italiano, recependolo dal diritto comunitario che all’art. 2 della Convenzione dell’Aja viene testualmente riferito ai: “ rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato”. Tanto con notazione che i beni destinati al trust restano scissi dai beni di proprietà del trustee che non può, quindi farli propri, né confonderli con il patrimonio personale. Il trustee, in altri termini, è il formale intestatario dei beni ma non anche il proprietario. Ciò non di meno egli ha il potere di amministrarli, gestirli e disporne, sempre in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme civilistiche imposte al trustee dall’ordinamento, con l’obbligo di rendere conto del proprio operato, posto che è responsabile (anche penalmente) delle sorti del compendio dei beni facenti parte del trust. Nello svolgimento della riflessione in esame è, a mio avviso, imprescindibile fare menzione della nota sentenza della Cassazione Penale n. 50672/2014 che, in tema di trust, trustee ed appropriazione indebita, non ha posto in dubbio la validità del trust interno ed anzi ha gettato le basi per una definizione più precisa dell’istituto. A tal fine rileva la S.C. che: “ devono assumere rilevanza preminente, nell’interpretazione del negozio sia il vincolo di destinazione che grava sui beni (che, determinandone la funzione economico-sociale, ne impedisce la commistione con il patrimonio del trustee ) sia l’esistenza di beneficiari del negozio fiduciario, a favore dei quali deve indirizzarsi tutta l’attività di gestione dei beni e rapporti conferiti nel trust, dovendosi attribuire all’intestazione formale del diritto di proprietà al trustee la valenza di una proprietà temporale, sostanziata dal possesso del bene, sicuramente diversa da quella delineata nell’art. 832 cod. civ. e svincolata dal potere di disporre dei beni in misura piena ed esclusiva”. Al di là delle considerazioni che precedono, improntate alla definizione generale dell’istituto del trust, lo specifico oggetto della nostra analisi è la verifica in ordine alla possibile validità o meno della speciale figura del trust interno (o c.d. domestico) nel nostro ordinamento. Per trust interno s’intende quel rapporto giuridico costituito da cittadini residenti in Italia con beni situati nel territorio nazionale, a favore di beneficiari italiani, disciplinato da una legge straniera. In altri termini è definito interno il trust che non presenta elementi di contatto con ordinamenti giuridici stranieri, eccezion fatta per la legge regolatrice che rappresenta l’unico elemento “esterno” rispetto all’ordinamento italiano. I problemi interpretativi intorno all’ammissibilità di un siffatto istituto “ibrido” – con elementi oggettivi e soggettivi italiani e legge regolatrice internazionale - nascono dal conflitto esistente fra la concezione anglosassone di trust e ed i principi dell’ordinamento italiano in tema di rapporti di proprietà, tutela dei terzi e successioni. Prescindendo però da questa sede i pur necessari approfondimenti dottrinari in tema di trust e del rapporto con l’art. 2740 c.c. , conviene, adesso, incentrare l’attenzione su un’altra interessante pronuncia della giurisprudenza di merito che va ben oltre la mera definizione del trust data dalla cennata sentenza della Cassazione Penale, proclamandone, addirittura, in modo espresso la validità. Si fa riferimento al decreto del Tribunale di Milano, 23 febbraio 2005 che, in tema di omologazione degli accordi di separazione personale tra coniugi, aventi ad oggetto il trasferimento di beni immobili, sancisce quanto segue: “ può essere omologato un accordo di separazione consensuale prevedente l’istituzione, da parte di uno tra i coniugi, di un trust interno autodichiarato nel quale il disponente, allo scopo di soddisfare le esigenze abitative della figlia minorenne, conferisce un bene immobile di sua proprietà ”. La pronuncia è parsa, fra altre, quella che più nettamente sancisce il diritto di cittadinanza del trust interno nel nostro ordinamento. Se infatti si considera la tradizionale “ prudenza ” del giudicante italiano in tema di clausole relative agli accordi di separazione consensuale, appare particolarmente “ forte ” il richiamo all’ammissibilità del trust interno come strumento di regolazione di quei peculiari rapporti. Il varrebbe a dire che se ammettessimo il trust interno nella delicata materia dell’omologazione delle clausole di separazione, a maggior ragione non vi è ambito del diritto che ne possa escludere l’utilizzo. Al di là dello specifico, quanto peculiare, caso che precede, sembra opportuno, pertanto, concludere per l’ammissibilità del trust interno nell’ordinamento italiano, non solo e non tanto in virtù dell’ormai costante indirizzo giurisprudenziale, ma, soprattutto in merito al sempre crescente numero di autori che ritengono ammissibile e – quindi – valido l’istituto in quanto l’elemento necessario di estraneità (al fine di considerarlo esterno, alias non domestico) sia costituito dalla scelta della legge straniera quale regolatrice dei rapporti. Bibliografia: P. Perlingieri, V. Rizzo, Negozio fiduciario e Trust in P. Perlingieri, Manuale di diritto Civile, Napoli 2005 M. F. Giorgianni, N. Fibbi, Quid Iuris? in Diritto Notarile, Collana diretta da L. Genghini, ottobre 2016
Il retratto successorio: casistica
Pubblicato su IUSTLABL’art. 732 c.c. riconosce ai partecipanti ad una comunione ereditaria due distinti diritti: a) lo ius prelationis in base al quale, perdurando il regime di comunione, se uno dei partecipanti ad essa vuole alienare la propria quota a titolo oneroso, deve notificare agli altri la relativa proposta, onde consentire loro di avvalersi della preferenza accordata, sì che non può concludere con i terzi il contratto traslativo prima del decorso del periodo normativamente previsto; b) lo ius retractionis esercitabile dal partecipante nei confronti del terzo acquirente della quota ereditaria, nel caso che sia stato violato il diritto di prelazione o non effettuando la predetta notifica della proposta di alienazione o ignorando l’esercizio positivo di tale diritto (Cass. Civ. Sent. n. 15842/2001; Cass. Civ. Sent. n. 666/1994). Si è osservato che si tratta, in sostanza, di “ diritti collegati ma distinti, aventi contenuto diverso e soggetti passivi differenti, ognuno dei quali da considerarsi terzo rispetto al rapporto cui partecipa, con conseguente esclusione della qualità di litisconsorte necessario dell’alienante nei giudizi di riscatto ” ( S. Merz , Manuale pratico e formulario delle successioni, Cedam, 2011 ). Quanto alla natura giuridica del diritto di prelazione si ritiene che esso, quale diritto di credito, corrisponda ad un’obbligazione ex lege del coerede di preferire gli eredi all’estraneo, in caso di alienazione a titolo oneroso della quota o di parte di essa. Con il riscatto, da comunicarsi al terzo acquirente in caso di mancata notificazione, il coerede ritraente si sostituisce all’estraneo dalla data di conclusione del contratto. Ne deriva che l’utile conclusione del retratto successorio ha efficacia erga omnes comportando la surrogazione legale del retraente nella stessa posizione del retrattato ed altresì efficacia ex tunc , vale a dire dalla data della conclusione del contratto, in modo che il primo sia considerato diretto acquirente rispetto al coerede alienante (Cass. Civ. Sent. n. 4703/1999). L’esercizio predetto, inoltre, fa si che tutte le eventuali successive alienazioni della stessa quota perdano ipso iure la propria efficacia, indipendentemente dalla trascrizione del primo atto dispositivo della quota o dalla priorità dell’eventuale trascrizione dei successivi atti di trasferimento. Quanto agli interessi legali ex art. 1282 c.c. la Suprema Corte ha precisato che il retrattato ha diritto ad ottenerli sebbene il relativo obbligo abbia per oggetto un debito di valuta soggetto al principio nominalistico (Sent. Cass. Civ. n. 4497/2010). L’ambito di applicazione della norma è la comunione ereditaria che si vuole salvaguardare dall’ingresso di terzi acquirenti estranei alla successione. La giurisprudenza si è premurata di chiarire che la predetta finalità del retratto successorio di impedire l’intromissione di estranei nello stato di indivisione, determinato dall’apertura della successione, si applica soltanto alle comunione ereditarie, mentre non può trovare applicazione nella comunione ordinaria tra condividenti creatasi a seguito della divisione, per la congiunta attribuzione ad essi di un medesimo bene. Ciò in quanto l’art. 732 c.c., derogando al principio della libera disponibilità del diritto di proprietà, non può trovare applicazione fuori dai casi espressamente previsti. D’altra parte tenuto conto che in materia di comunione ordinaria vige il principio secondo cui , ai sensi dell’art. 1103 c.c., ciascun partecipante può disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota, l’art. 732 c.c. non potrebbe operare in virtù del rinvio di cui all’art. 1116 c.c. che estende alla divisione ordinaria le norme sulla divisione ereditaria, essendo escluse dall’estensione le norme incompatibili con quelle tipiche della comunione ordinaria (Sent. Cass. Civ. n. 4224/2007; Sent. Cass. Civ. n. 6293/2015). Il diritto di prelazione ereditaria non può, inoltre, essere esercitato quando la vendita , effettuata da uno o più dei coeredi non riguardi una o più quote ereditarie, ma abbia ad oggetto quote di un bene determinato, in parte assoggettato alla comunione ereditaria ed in parte costituente un’autonoma divisione ordinaria in quanto, in questa particolare ipotesi, non si verifica il subingresso di un estraneo nella comunione ereditaria, che l’art. 732 c.c. tende ad impedire, ma solo il trasferimento di una res come bene a sé stante (Cass. Civ. Sent. n. 20561/2008). Nell’ipotesi di assegnazione da parte del testatore di beni determinati occorre accertare, in base al concreto atteggiarsi della volontà del de cuius , se trattasi di attribuzione in rebus certis direttamente effettuata dal testatore con efficacia reale o debba, invece, riconoscersi alla stessa efficacia obbligatoria. Nella prima ipotesi non si applica il diritto di cui all’art. 732 c.c. in quanto, in virtù dell’effetto traslativo, il bene è acquistato immediatamente dall’istituito, mentre, nel secondo caso si realizza, nei riguardi dei beni assegnati, il sorgere della comunione ereditaria e la conseguente ammissibilità del retratto successorio (Cass. Civ. n. 4777/1983). Spetta, dunque, al giudice del merito accertare se l’attribuzione di un medesimo bene in comunione, da parte del de cuius ad un gruppo di discendenti, postuli o meno un atto dispositivo/attributivo con effetti reali (Cass. Civ. n. 21491/2007: la Suprema Corte ha confermato la sentenza della corte territoriale per cui era infondata la tesi del retrattato che, per negare i presupposti del retratto, alias la sussistenza della comunione ereditaria, sosteneva ricorrere l’ipotesi della divisione fatta dal testatore , laddove costui aveva attribuito parte dei beni ad uno dei figli disponendo altresì che “ la restante mia proprietà dovrà essere divisa in parti uguali tra i miei altri figli ”). Parimenti non è soggetta a retratto l’alienazione di quota effettuata, non dal coerede, compartecipe della comunione ereditaria, bensì dal suo successore a titolo universale potendo ritenersi soggetta a retratto la sola alienazione a titolo oneroso che il coerede faccia della quota di comunione che ha acquistato quale erede del de cuius (Cass. Civ. Sent. n. 5374/1993). Si è ulteriormente chiarito che il diritto di prelazione non può circolare per successione mortis causa e non spetta, pertanto, all’erede del coerede (Cass. Civ. Sent. n. 4277/2012). Tuttavia, il suesposto principio di intrasmissibilità del diritto di prelazione fra eredi non impedisce che, una volta esercitato il riscatto, con instaurazione del relativo giudizio, la domanda conservi i propri effetti, nonostante la sopravvenuta morte del retraente, la quale implica la successione nel processo dei suoi eredi, ai sensi dell’art. 110 c.p.c. (Cass. Civ. Sent. n. 17673/2012). Di particolare interesse è la verifica delle modalità secondo le quali il retratto successorio si atteggia a seconda della fattispecie di alienazione che pone in essere il condividente. Si è sostenuto che la prelazione ereditaria, come ogni altro diritto di prelazione, non trova applicazione quando gli atti di alienazione non sono riconducibili ad una libera determinazione del proprietario: non si applica, pertanto, in sede di vendita fallimentare (Cass. Civ. Sent. n. 7057/1999); né relativamente alla vendita all’asta (Cass. Civ. Sent. n. 596/1986). Il contratto di vendita di un quota della società di capitali caduta in successione mortis causa, concluso da alcuni coeredi sull’assunto dell’attuale piena titolarità dei diritti di partecipazione sociale, la quale poteva, invece, essere loro riconosciuta soltanto all’esito del pendente giudizio di divisione, non avendo ad oggetto la quota di eredità spettante agli stessi cedenti, non è volto a far subentrare l’acquirente nella comunione ereditaria e rimane, pertanto, inopponibile ad altro coerede rimasto estraneo all’alienazione, neppure rilevando, rispetto a tale alienazione, l’esercizio della prelazione di cui all’art. 732 c.c.; né l’opponibilità di detta cessione nei confronti del comproprietario non partecipe al negozio può essere affermata ricostruendo l’accordo come vendita di quota indivisa dei soli diritti sociali, ai sensi dell’art. 1103 c.c. , in quanto anche un tale atto di disposizione riveste un’efficacia meramente obbligatoria, condizionata all’attribuzione del bene, in sede di divisione, ai coeredi alienanti (Cass. Civ. Sent. n. 9801/2013). Per quanto concerne i casi di alienazione nulla per simulazione assoluta con sentenza passata in giudicato, deve escludersi l’esercizio del retratto successorio successivo alla sentenza, in quanto tale pronuncia, negando la sussistenza di un trasferimento tra coerede cedente e terzo cessionario, implica il venir meno del presupposto per il diritto di riscatto. Inoltre il coerede retraente, esercitando un diritto direttamente conferito dalla legge, il quale implica una sostituzione con effetti ex tunc nella posizione del retrattato, non è qualificabile come avente causa di quest’ultimo e quindi non può invocare l’inopponibilità della simulazione prevista dall’art. 1415, comma 1 c.c. nei confronti di chi abbia in buona fede acquistato dal titolare apparente (Cass. Civ. Sent. n. 1809/1984). E’ però necessario segnalare anche un avviso giurisprudenziale di segno opposto, secondo cui, in tema di retratto successorio, la simulazione della vendita della quota ereditaria non può essere opposta ai sensi dell’art. 1415 c.c. ai retraenti, essendo costoro terzi rispetto al contratto stesso (Cass. Civ. Sent. n. 5181/1992). Nei rapporti tra la prelazione ereditaria e la prelazione agraria , la Suprema Corte ha stabilito che, per il caso in cui uno dei coeredi sia affittuario di un fondo rustico oggetto di comproprietà indivisa, deve riconoscersi a detto comproprietario, a fronte dell’alienazione della quota da parte degli altri, il diritto di prelazione e riscatto secondo la disciplina fissata dall’art. 8, legge n. 590 del 1965 ( prelazione agraria ) senza che possa profilarsi, per il caso di comunione ereditaria, un’interferenza con la disciplina della prelazione fra coeredi per l’ipotesi della vendita della quota ereditaria, dato che la suddetta prelazione in favore del comproprietario affittuario non verrebbe comunque ad implicare il subingresso di un estraneo nella comunione ereditaria (Cass. Civ. Sent. n. 4602/1984). Il diritto di prelazione ereditaria prevale invece sul diritto di prelazione del coltivatore diretto, mezzadro, colono o compartecipante , ex art. 8, legge n. 590 del 1965, qualora sia venduta la quota di un fondo indiviso facente parte di una comunione ereditaria, indipendentemente dal fatto che l’asse ereditario sia costituito soltanto da quel fondo o anche da altri cespiti (Cass. Civ. Sent. n. 4345/2009). In tema di locazione di immobili urbani ad uso non abitativo il diritto di prelazione spettante al conduttore, a norma dell’art. 38, legge 27 luglio 1978, n. 392, non trova applicazione nel caso previsto dall’art. 732 c.c. in quanto il retratto successorio può essere esercitato dal quotista “ finché dura lo stato di comunione ereditaria, mentre il conduttore può esercitare il diritto di riscatto entro il termine di sei mesi ” (Cass. Civ. Sent. n. 13838/2010). Non è mancato chi abbia fatto notare (Merz, Manuale pratico e formulario delle successioni, Cedam, 2011) che l’esercizio del riscatto ex art. 732 c.c. non debba essere confuso con il riscatto convenzionale ex art. 1500 c.c. (“ patto di riscatto ” o di “retrovendita”) , ferma restando l’analogia ( ergo l’applicabilità al riscatto successorio) dell’art. 1502, comma 1, c.c. che impone al riscattante il rimborso all’acquirente del prezzo e delle spese d’acquisto, di manutenzione, di miglioramento dei beni compresi nella quota riscattata. L’acquisto da parte di uno dei coniugi in regime di comunione legale di una quota ereditaria in violazione del diritto di prelazione spettante ai coeredi, si estende ipso iure all’altro coniuge e, conseguentemente, l’azione di riscatto, comportando il trasferimento della quota dal retrattato al retraente, deve essere proposta nei confronti di entrambi i coniugi, sussistendo tra questi litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c. (Cass. Civ. Sent. n. 7404/2003). Sempre in tema di comunione legale (in senso contrario alla precedente pronuncia), è stato rilevato che la prevalente e cogente normativa di cui all'art. 177 c.c. , esula dalle previsioni dell'art. 732 c.c., ne deriva che non può esercitarsi il retratto successorio nell'ipotesi in cui un erede abbia venduto la propria quota ereditaria ad un coerede e la metà di tale quota sia, pertanto, passata ex lege al coniuge del compratore per effetto del regime di comunione legale dei beni vigente tra i coniugi (Trib. Verona, 26.09.1983, D. fam. 85, 948). In tema di cessione dell’azienda familiare , l’art. 230-bis, comma 5, c.c. rinvia alla disposizione dell’art. 732 c.c. nel seguente modo: “ in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sull’azienda. Si applica, nei limii in cui è compatibile, la disposizione dell’art. 732 ”. Pertanto se il familiare vuole alienare a terzi la propria quota della società, deve notificare la proposta agli altri coeredi, che hanno diritto di prelazione, mentre, i partecipi dell’impresa familiare, in caso di trasferimento d’azienda, sono titolari del diritto di riscatto (Cass. Civ. sez. lav. Sent. n. 27475/2008). Bibliografia S. Merz , Manuale pratico e formulario delle successioni, Cedam, 2011
La condizione testamentaria di contrarre matrimonio: lecita o illecita?
Pubblicato su IUSTLABUno dei limiti imposti dall’ordinamento alla libertà testamentaria è racchiuso nell’art. 634 c.c. che considera non apposte le condizioni impossibili e quelle illecite , cioè contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume, salvo che abbiano costituito l’unico motivo che abbia determinato il testatore a disporre, nel qual caso la disposizione testamentaria è nulla . Si può, pertanto, considerare l’art. 634 c.c. alla stregua di un principio generale in tema di successioni, mentre il successivo art. 636 c.c., relativo al divieto disposto dal testatore che l’erede contragga matrimonio, ne è una specificazione e, segnatamente rientra tra le condizioni illecite. Si, pertanto, posto un limite al favor testamenti cui è generalmente improntato l’ordinamento al fine di evitare disposizioni testamentarie volte a determinare un’illecita pressione psicologica sul beneficiario, al fine di indurlo a compiere quanto richiestogli dal testatore, se vuole conseguire il beneficio. In altri termini si è inteso impedire l’istituzione di erede possa risolversi in un’indebita coartazione. Particolarmente controverso sotto il profilo giurisprudenziale e fonte di acceso dibattito dottrinario è, invece, il caso di segno opposto, cioè l’ipotesi in cui la condizione apposta ad una disposizione testamentaria subordini l’efficacia della stessa alla circostanza che l’istituito contragga matrimonio . L’oscillazione interpretativa da parte della dottrina e della giurisprudenza, le cui rispettive e confliggenti posizioni sono infra illustrate, nasce anche in relazione al dato di fatto per cui – a differenza del divieto di contrarre matrimonio - non è espressamente prevista alcuna disposizione normativa che ponga il divieto di sottoporre l’istituzione di erede alla condizione sospensiva che l’onorato contragga matrimonio. Il 1° comma dell’art. 636 c.c. definendo: “ illecita la condizione che impedisce le prime nozze o le ulteriori” nulla dice, difatti, circa l’ipotesi contraria in cui il de cuius subordini l’efficacia della disposizione testamentaria alla condizione che il beneficiario si sposi. Il giudice di legittimità ha precisato che l’art. 636, 1° comma c.c. , ha la scopo di tutelare la libertà della persona di contrarre matrimonio e non è quindi violata nei casi in cui la condizione non sia dettata al fine di impedire le nozze, ma preveda per l’istituito un trattamento più favorevole in caso di mancato matrimonio e, senza per ciò influire sulle relative decisioni, abbia di mira di provvedere, nel modo più adeguato alle esigenze dell’istituito, connesse ad una scelta di vita che lo privi degli aiuti materiali e morali di cui avrebbe potuto godere con il matrimonio (Cass. Civ. 92/2122). Nessuno dubita, invece, circa l’illiceità della condizione quando contenga un divieto assoluto di nozze , nel qual caso la condizione si considera non apposta ex art. 634 c.c. ( C. Gangi , La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Milano, 1974). Alcuni autori hanno rilevato che la condizione di cui all’art. 636 c.c. sarebbe valida qualora il divieto sia relativo perché, ad esempio, impedisce il matrimonio con una determinata persona o fino al raggiungimento di una certa età ( C. Giannattasio , Delle successioni. Successioni testamentarie, Torino, 1978 ). La tematica dei divieti relativi di nozze è stata, inoltre, oggetto di pronunce giurisprudenziali che, secondo un orientamento conforme alle suddette opinioni dottrinarie, ha ritenuto lecita la condizione con la quale il de cuius abbia, in realtà, inteso semplicemente circoscrivere l’ambito di indeterminatezza delle persone da sposare, senza impedire in assoluto il matrimonio. In questa ipotesi si tratterebbe, in altri termini, di limitare la scelta, determinando nel beneficiario una coazione psichica ritenuta dalla giurisprudenza “ tollerabile in quanto di modeste proporzioni ”, come, ad esempio, nel caso della condizione che impedisca all’istituito l’unione con una determinata persona in quanto non ne lederebbe la libera autodeterminazione ( Cass. Civ. 19 gennaio 1985, n. 150; Cass. Civ. 11 gennaio 1986, n. 102 ). Accanto alla posizione di chi ha ritenuto illecito il divieto assoluto ed, invece, valido il divieto relativo, vi è chi ha fatto notare che l’art. 636 c.c., posto a tutela della libertà matrimoniale dell’erede o del legatario, non indica distinzioni o differenti discipline a seconda che il divieto disposto dal testatore sia assoluto o relativo , ragion per cui detta distinzione sarebbe addirittura “ lesiva della dignità umana ” ( B. Toti , Condizioni testamentarie e libertà personale, Milano, 2004 ). Secondo l’Autore l’illiceità delle condizioni dirette a limitare la libertà matrimoniale è da rinvenire nello stesso significato ontologico del matrimonio, quale vicenda personalissima dell’individuo, insuscettibile di essere dedotta in condizione , a prescindere dai motivi, anche se intrinsecamente leciti o meritevoli, che hanno indotto il de cuius a disporre. Dunque, secondo tale impostazione, fondata sulla tesi della tutela incondizionata delle libertà individuali garantite dalla Costituzione, anche i divieti relativi sono illeciti e le inerenti condizioni si considerano come non apposte . Più articolato è, invece, il dibattito relativo all’ipotesi in cui il testatore abbia previsto l’opposta condizione, cioè che l’istituito contragga matrimonio. La condizione sospensiva, apposta a una disposizione testamentaria, di contrarre matrimonio con persona appartenente alla stessa classe sociale dell’istituito, è stata considerata lecita e, quindi, pienamente valida ed efficace in quanto lascia al beneficiario un ampio margine di scelta e di libera autodeterminazione e non importa alcuna limitazione psichica intollerabile che, come tale, sarebbe contraria all’ordine pubblico. Né detta condizione contrasta con gli artt. 3 e 29 della Costituzione perché di tali norme, quella dell’art. 29, la quale stabilisce che il matrimonio è fondato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ha esclusivo riguardo alla posizione dei medesimi nell’ambito della famiglia, mente l’art. 3, il quale sancisce il principio dell’eguaglianza, tende ad una finalità (compenetrazione delle classi sociali) estranea alla questione dei limiti di validità della condizione testamentaria ( Cass. Civ. 102/86 ). Altra pronuncia della Suprema Corte ha, inoltre, affermato che non incorre nell’illiceità prevista dall’art. 636 c.c., la condizione di contrarre matrimonio apposta dal testatore alle attribuzioni fatte all’erede e neppure la condizione di non contrarre matrimonio con persona determinata ( Cass. Civ. 150/85 ). Segnatamente la Suprema Corte ha argomentato che la condizione di contrarre matrimonio, risolutivamente apposta al legato, è lecita e valida e non cela una sostituzione fedecommissaria (similmente alla clausola “ si sine liberis decesserit ”) se manchi nel testatore la consapevole certezza che la persona onorata non avrebbe contratto matrimonio. Inoltre la medesima pronuncia ha ritenuto valida la condizione di contrarre matrimonio, anche perché è stato ritenuto istituto favorito e tutelato dall’ordinamento giuridico. Da parte di altra giurisprudenza è stata, al contrario, ritenuta illecita in quanto contraria a norme imperative e all’ordine pubblico, ex art. 634 c.c., la condizione apposta ad una disposizione testamentaria che subordini l’efficacia della stessa alla circostanza che l’istituito contragga matrimonio ( Cass. Civ., sez. II, n. 8941 del 15.04.2009 ). Nella specie la Suprema Corte ha precisato che la circostanza è illecita in quanto contraria al principio di libertà matrimoniale tutelato dagli artt. 2 e 29 della Costituzione. Essa, pertanto, si considera non apposta , a meno che non sia stato l’unico motivo determinante della volontà del testatore, nel qual caso rende nulla la disposizione testamentaria. Parimenti illecita è stata considerata la condizione apposta ad una chiamata all’eredità che preveda per l’istituto l’obbligo di sposare una determinata persona, in quanto coarta in modo assoluto la libertà personale ( Cass. Civ. 1633/53 ). Conformemente a quanto precede, secondo una parte della dottrina ( G. Caramazza, Delle successioni testamentarie, in Commento teorico- pratico al Codice Civile diretto da V. De Martino, Novara, 1982; G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2009 ) e della giurisprudenza sono illecite tutte le condizioni dirette a coartare la libertà di autodeterminarsi del beneficiario di una disposizione testamentaria in ordine ad una scelta personalissima come quella di unirsi in matrimonio ( nello stesso senso la giurisprudenza di legittimità: Cass. Civ. 30 maggio 1953, n. 1633; Cass. Civ. 24 giugno 1959, n. 1990 ). Opinione del medesimo segno è stata espressa da quella parte della dottrina che ha ritenuto illecita qualunque fattispecie in cui la volontà del beneficiario relativa alla decisione di unirsi in matrimonio sia condizionata dal testatore a fronte dell’eventualità di acquisire o perdere un lascito testamentario ( B. Toti , Condizioni testamentarie e libertà personale, Milano, 2004 ). Altro Autore ( N. Di Mauro , Illiceità della condizione testamentaria di contrarre matrimonio: la Cassazione apre alla drittwirkung per le successioni mortis causa, in Famiglia, persone, successioni 2009 ) ha osservato che la condizione in questione sarebbe illecita non solo per la violazione degli artt. 2 e 29 della Costituzione, bensì anche in virtù di quanto previsto dall’art. 16 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 e dall’art. 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con la legge n. 848 del 4 agosto 1955 ed oggi anche dall’art. 9 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. Anche la Corte Costituzionale, in una serie di pronunce relativamente risalenti, ha precisato che il vincolo matrimoniale è, e deve rimanere, frutto della libera autodeterminazione, attenendo ai diritti intrinseci della persona umana e, pertanto, si sottrae ad ogni forma di condizionamento, anche indiretto (Corte Cost. 1/1992; Corte Coast. 450/1991/; Corte Cost. 189/1991). Autorevole dottrina contraria all’ammissibilità della condizione di contrarre matrimonio l’ha definita: “ ripugnante tentativo del testatore di coartare in qualsiasi modo la libertà di autodeterminazione dell’onorato ” ( L. Bigliazzi-Geri , Successioni testamentarie, Zanichelli, 1997 ). In senso conforme, cioè favorevoli a negare risolutamente la liceità della condizione matrimoniale, quale intollerabile coartazione delle volontà dell’istituito, si sono espressi anche Rescigno, Caramazza, Di Mauro, Carusi, Toti e Galgano . E’ comunque da riferire che, nonostante le richiamate opinioni della dottrina prevalente e le pronunce giurisprudenziali sin qui illustrate, a modesto parere dello scrivente rimane, comunque, preferibile la tesi della liceità della condizione sospensiva che subordini l’istituzione di erede alle nozze dell’istituito. Sempre in senso favorevole, in dottrina, si è fatto (ragionevolmente) leva sull’interpretazione “ ex adverso ” dell’art. 636 c.c., argomentando che, se lo scopo del legislatore era quello di affermare il disvalore della condizione avente ad oggetto il divieto di nozze, “ a contrario ” deve ritenersi valida ( e forse addirittura giuridicamente meritevole di tutela) la condizione che preveda le preveda ( C. Giannattasio , Commentario del Codice Civile. Libro II – Delle successioni, Torino, 1968 ). E’ inoltre da ritenere che la menzionata dottrina, per quanto autorevolissima, sia incorsa in una sopravvalutazione dell’istituto del matrimonio, certamente e, forse, inevitabilmente, condizionata da fattori socio-culturali oramai anacronistici in quanto caratterizzanti la prima metà dello scorso secolo ove, senz’altro, l’istituto godeva di una “sacralità” della determinazione che più non si attaglia ala mutata concezione odierna ed è, anzi, da ritenere sicuramente superata. A parere dello scrivente non si vede, difatti, quale concreto ed effettivo potere coattivo il testatore potrebbe esercitare sull’istituito il quale, resterebbe pur sempre libero di individuare quale sia la persona da sposare ed in quale momento della vita celebrare le nozze, fermo restando che qualora fosse, invece, determinato a non contrarre il matrimonio, ben potrebbe rinunciare al compendio del lascito testamentario. Ciò nonostante l’autore R. Triola , Il testamento, in Pratica Giuridica, Giurisprudenza e dottrina diretta da O. Fanelli, Giuffré editore, 2012, ha eccepito che: “ né varrebbe opporre il rilievo secondo cui la condizione testamentaria non sarebbe idonea a ledere la libertà personale dell’istituito, che rimarrebbe arbitro delle scelte fondamentali della propria vita, cui potrebbe, al più, conseguire la mancata attribuzione patrimoniale”. Ciò in quanto, ha argomentato l’autore, la pur indiretta coartazione della libertà reca, di per sé, “vulnus” alla dignità dell’individuo, nella misura in cui l’alternativa di fronte alla quale lo colloca l’apposizione del testatore della condizione testamentaria, possa indurlo, con la prospettiva di un vantaggio economico, ad una opzione che limita la libera esplicazione della sua personalità. In senso contrario si è argomentato ( Vairoletti , l’illiceità della condizione ci contrarre matrimonio, in Giur.it 2010) che per quanto sia apprezzabile l’intento di esaltare le libertà fondamentali dell’individuo “ appare forzato il volere sempre e comunque dare prevalente peso ai diritti dell’istituito, seppur costituzionalmente riconosciuti, a discapito della volontà del de cuius , soprattutto se si considera il fatto che già il legislatore si è preoccupato di proteggere gli interessi de legittimari riservando loro una quota di beni dell’asse ereditario, anche contro la stessa volontà del testatore, il quale, pertanto, dovrebbe essere per lo meno libero di lasciare le altre sostanze a chi vuole anche manifestando un desiderio che gli era caro in vita, ad esempio il matrimonio dell’istituito”. Si è, altresì, sostenuto ( Achille , condizione testamentaria illegittima, regola sabiniana e limitazione della libertà matrimoniale, in Riv. Dir. Civ., 2010 ) che la valutazione della illiceità di una condizione mal si adatta a conclusioni generalizzate. In primo luogo vi è da chiedersi se dietro le scelte del legislatore intorno all’art. 636 c.c. non vi sia una precisa idea tesa a mantenere fuori dal giudizio di illiceità la condizione che il beneficiario sia sposato. In secondo luogo non sembra preclusa una differenziazione delle attribuzioni patrimoniali contenute in un testamento in funzione di una determinata situazione, nel senso che sembra naturale plasmare le attribuzioni patrimoniali ex testamento, in funzione, ad esempio, degli aggravi economici che possono derivare dall’avere o meno una famiglia. In tale prospettiva, un criterio oggettivo di valutazione potrebbe essere fornito dal rapporto tra il vantaggio patrimoniale ottenibile con il lascito testamentario ed il sacrificio della libertà personale, in modo che, qualora la perdita in termini di libertà personale non sia proporzionata al vantaggio patrimoniale del lascito, la condizione dovrebbe ritenersi illecita, mentre, al contrario, nel caso in cui il vantaggio sia ragionevolmente proporzionato alla perdita di libertà subita, la condizione dovrà essere ritenuta lecita. In ultimo, almeno a parere dello scrivente, pur volendo prescindere dalla fondatezza o meno delle ricostruzioni dottrinarie sin qui illustrate, l’argomento realmente insuperabile che depone a favore della liceità della condizione di contrarre matrimonio, è anche il meno invocato dagli autori: la donazione in riguardo di matrimonio , alias donazione obnuziale , ex art. 785 c.c. Si tratta di un negozio formale tipico previsto dal legislatore, avente ad oggetto la prospettazione patrimoniale a carattere di liberalità fatta dal donante o dai donanti con il precipuo fine che il donatario (o i donatari, se beneficiari sono entrambi gli sposi) contragga un determinato matrimonio. E’ quindi una donazione espressamente sottoposta alla condizione sospensiva di contrarre un futuro e ben individuato matrimonio, fermo restando che: “ non produce effetto finché non segua il matrimonio ” (1° comma) e che “ l’annullamento del matrimonio importa la nullità della donazione ” (2° comma). Il primo comma dell’art. 785 c.c. chiarisce che la condizione sospensiva deve considerarsi caducata qualora non si realizzi il matrimonio. Ne consegue che non si realizza l’effetto traslativo del donatum dal donante al donatario. Inoltre la nullità sopravvenuta della donazione, per il caso di annullamento del matrimonio, ha carattere retroattivo ed importa la possibilità per il donante di esperire l’azione di restituzione o di rivendicazione o, ancora, l’azione di accertamento della proprietà, finalizzate a riacquisire i beni donati. A fronte del particolare regime di favore che il legislatore ha riconosciuto alla volontà del donante di trasferire al donatario taluni beni, a condizione che questi contragga matrimonio, non è dato comprendere in virtù di quale ragionamento la stessa condizione dovrebbe ritenersi illecita – ed anzi addirittura “ ripugnante ” - se prevista dal testatore. Né potrebbe farsi valere l’eccezione secondo cui la donazione obnuziale è prospettata, normalmente, allorquando il donatario è già autonomamente determinato a contrarre matrimonio, motivo per cui il fattore condizionante non potrebbe essere costituito dall’evenienza di perdere il vantaggio patrimoniale. Difatti qualora il compendio del donatum fosse consistente ed, una volta prospettata la donazione, venissero poi a mancare i presupposti per celebrare le nozze, il donatario sarebbe senz’altro condizionato dall’evenienza di perdere il beneficio. Per tali ragioni può concludersi che particolarmente convincente appare la ricostruzione di quella dottrina che ha ritenuto un criterio oggettivo di valutazione il rapporto tra il vantaggio patrimoniale ottenibile con il lascito testamentario ed il sacrificio della libertà personale, in modo che, qualora la perdita in termini di libertà personale non sia proporzionata al vantaggio patrimoniale del lascito, la condizione dovrebbe ritenersi illecita , mentre, al contrario, nel caso in cui il vantaggio sia ragionevolmente proporzionato alla perdita di libertà subita, la condizione dovrà essere ritenuta lecita (Achille , condizione testamentaria illegittima, regola sabiniana e limitazione della libertà matrimoniale, in Riv. Dir. Civ., 2010). Bibliografia: S. Merz , Manuale pratico e formulario delle successioni, Cedam, 2011 G. Caramazza, Delle successioni testamentarie, in Commento teorico- pratico al Codice Civile diretto da V. De Martino, Novara, 1982 G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2009 C. Gangi , La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Milano, 1974 C. Giannattasio , Delle successioni. Successioni testamentarie, Torino, 1978 L. Mambelli – J. Balottin , Glossario Notarile per Consiglio Notarile di Mantova, Milano, 2013 B. Toti , Condizioni testamentarie e libertà personale, Milano, 2004 N. Di Mauro , Illiceità della condizione testamentaria di contrarre matrimonio: la Cassazione apre alla drittwirkung per le successioni mortis causa, in Famiglia, persone, successioni 2009 R. Triola , Il testamento, in Pratica Giuridica, Giurisprudenza e dottrina diretta da O. Fanelli, Giuffré editore, 2012 C. Giannattasio , Commentario del Codice Civile. Libro II – Delle successioni, Torino, 1968 L. Bigliazzi-Geri , Successioni testamentarie, Zanichelli, 1997 Vairoletti , l’illiceità della condizione ci contrarre matrimonio, 2010) Achille , condizione testamentaria illegittima, regola sabiniana e limitazione della libertà matrimoniale, in Riv. Dir. Civ., 2010
Il conflitto di interessi nella donazione tra genitori e figli
Pubblicato su IUSTLABL'art. 320, comma 3° del Codice Civile dispone: " I genitori non possono alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte, accettare o rinunziare ad eredità o legati, accettare donazioni [...]". Si è posto, pertanto, il problema se nella donazione dei genitori a beneficio del figlio minore questi possano, previa l'autorizzazione del giudice, di cui al 3° comma dell'art. 320 c.c., intervenire in atto, sia nella qualità di donanti, sia in quella di rappresentanti del minore donatario. La rilevanza della questione è di immediata comprensibilità avuto riguardo del fatto che, ai sensi dell'art. 322 c.c. l'atto compiuto in violazione delle norme che regolano la rappresentanza e l'amministrazione dei beni del minore può essere annullato. Al fine di rispondere al quesito è necessario, anzitutto, stabilire se tra il genitore donante ed il minore donatario sussista o meno un conflitto d'interessi. La dottrina maggioritaria ha risposto negativamente, argomentando che nella donazione gli interessi del donante e del donatario coincidono ed il minore non corre alcun rischio patrimoniale ( A. Guerra , L'accettazione della donazione fatta dal padre al figlio minore; B. Biondi , Le donazioni ). Esclusa l'esistenza di un conflitto d'interessi è però discusso su chi debba intervenire in atto per accettare la donazione in rappresentanza del minore. Un filone minoritario, quanto risalente, ha sostenuto che il genitore stesso, ottenuta l'autorizzazione del giudice tutelare, può validamente accettare la donazione in nome e per conto del figlio donatario. E' però preferibile l'orientamento di quegli autori i quali sostengono che dovrebbe essere il genitore non donante a rappresentare il figlio minore in atto, posto che l'istituto del contratto con sé stesso non trova applicazione nella rappresentanza legale ( A. Galluccio , Contributo alla dottrina dei contratti con sé stesso ) in quanto il minore (incapace per definizione) non può, come richiesto dall'art. 1395 c.c. autorizzare il rappresentante o predeterminare il contenuto del contratto. Quanto precede per non dire, poi, che sarebbe illogico concedere allo stesso donante il potere di accettare la donazione, posto che trattasi di un contratto che prevede la compresenza di più contraenti. Non è però mancato l'avviso giurisprudenziale a mente del quale vi sarebbe, invece, un vero e proprio conflitto d'interessi tale da escludere la possibilità che il genitore donante possa rappresentare in atto il minore donatario. Questa lettura è stata fatta propria dalla Suprema Corte ( Cass. 19 gennaio 1981, n. 439 ), sull'assunto per cui la donazione costituisce sempre un atto potenzialmente idoneo a recare pregiudizio al patrimonio del minore, come dimostra proprio la formulazione dell'art. 320, comma 3° c.c., che prevede la necessità di un'autorizzazione affinché il genitore possa accettare una donazione in luogo del figlio minore. Inoltre il conflitto d'interessi sarebbe da rintracciare nella circostanza che il donatario, ai sensi e per gli effetti dell'art. 437 c.c., sia pure nei limiti del valore della cosa donata, è tenuto con precedenza su ogni altro obbligato, a prestare gli alimenti al donante. Pertanto, escluso che il genitore donante possa rappresentare in atto il minore donatario, al fine di identificare il soggetto legittimato ad accettare la donazione in luogo del minore non resta che chiedersi se il conflitto d'interessi si sostanzi anche nei confronti del genitore non donante. Secondo la Suprema Corte anche il genitore non donante, se coniugato con il genitore donante, si trova in una situazione di conflitto di interessi con il figlio minore donatario e, pertanto, è necessario domandare giudizialmente la nomina di un curatore speciale che intervenga in luogo del minore ( Cass. Civ. 19 gennaio 1981, n. 439 ). In questo caso si averbbe conflitto d'interessi in quanto la donazione potrebbe ledere i diritti ereditari spettanti al coniuge non donante, ex art. 540 c.c. ed eventualmente agli altri figli laddove il genitore non donante sia anche co-donatario. Secondo un avviso del tutto diverso il genitore non donante può legittimamente intervenire in atto per accettare la donazione in luogo del figlio minore donatario, mancando qualsiasi conflitto d'interessi ( A. Finocchiaro - M. Finocchiaro , Diritto di Famiglia ). E' comunque da riferire che la dottrina prevalente e parte della giurisprudenza negano l'insorgenza del conflitto d'interessi, in quanto sia l'insorgere dell'obbligazione alimentare, sia la lesione dei diritti successori del coniuge, sono situazioni eventuali ed incerte per cui il conflitto è, in realtà, solo potenziale e, quindi, irrilevante. Nel caso in cui a donare siano entrambi i genitori oppure l'unico genitore esercente la responsabilità genitoriale, si rende necessaria la nomina di un curatore speciale che intervenga in atto in rappresentanza del minore donatario. Bibliografia: L. Mambelli - J. Balottin, Glossario Notarile, Giuffrè Editore, 2013
Usucapione delle pertinenze e scindibilità del vincolo pertinenziale
Pubblicato su IUSTLABLa possibilità di usucapire le pertinenza, indipendentemente dalla sorte della “ res ” principale, rappresenta solo apparentemente un problema di scarsa rilevanza nella realtà dei rapporti giuridici. In realtà la casistica dimostra che è tutt’altro che un caso di scuola, specie se si pensa a, titolo esemplificativo, al non raro caso dell’utilizzo ininterrotto ed esclusivo della soffitta, magari per decenni, da parte di chi non è proprietario dell’appartamento al quale era originariamente legata dal vincolo pertinenziale . Quella sin qui descritta è, però, la situazione di fatto, mentre, ciò che a noi interessa comprendere è se, sotto il profilo giuridico, detta situazione sia o meno suscettiva di determinare quegli speciali effetti che l’ordinamento riconosce al possesso, al ricorrere di determinate condizioni, vale a dire l’usucapione . La nostra analisi prescinderà dall’approfondire la disamina dei concetti giuridici di “pertinenza” e di “usucapione”, dandoli per scontati, salvo per alcune fondamentali precisazioni sui requisiti in presenza dei quali il possessore diviene proprietario del bene, realizzando, così, l’esigenza della garanzia della certezza dei rapporti giuridici. Le caratteristiche (da intendersi in senso tassativo) per usucapire validamente un bene sono: il possesso pacifico o non conseguito con mezzi violenti, pubblico (alias non clandestino), ininterrotto e continuo . Non è, invece, ritenuto necessario il requisito della “buona fede”, posto che anche il possesso in malafede è idoneo a fondare l’usucapione ex art. 1158 c.c. Fermo quanto precede è però da considerare che l’indagine sull’acquisto dei beni, specialmente quelli immobili, tramite usucapione, non si limita all’accertamento circa la sussistenza dei requisiti oggettivi sin qui esposti, in quanto spetta all’interprete scendere altresì nel merito dell’eventuale ricorso dell’elemento soggettivo : il c.d. “ animus possidendi ” in capo al presunto acquirente. Ovviamente non è sufficiente il mero sussistere delle condizioni sin qui esposte al fine di acquisire in via automatica e fattuale la proprietà di un bene immobile, essendo, invece, necessario rivolgersi al Giudice per l’ottenimento di una sentenza dichiarativa del diritto vantato ( n. b. la sentenza non ha carattere dichiarativo e gli effetti dell’usucapione retroagiscono). Nel corso del procedimento l’onere probatorio circa la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi suesposti, grava sulla parte attrice , alias sul preteso proprietario, mentre il (proprietario) convenuto ha l’onere di dimostrare i vizi del possesso altrui, impeditivi dell’acquisto della proprietà ( Corte di Appello di Ancona sentenza del 02.03.2005; nello stesso senso Cass. Civ. sez. II, 16.03.2000, n. 3063 ). Svolte le considerazioni di carattere generale che precedono, è necessario ricondurre l’attenzione sul peculiare (e per nulla scontato) tema dell’ usucapione delle pertinenze . Ci si è chiesto, in altri termini, se sia o meno possibile usucapire la singola pertinenza separatamente dal bene principale cui è ab origine connessa. E’, anzitutto, pacifico che, sulla base di quanto è previsto ex art. 818 c.c. le pertinenze possono essere usucapite in uno con la cosa principale, nel senso che l’acquisto a titolo originario di un bene collegato funzionalmente ad un altro, può essere riconosciuto “automaticamente” per il noto principio della Suprema Corte secondo cui: “ gli atti ed i rapporti giuridici delle pertinenze seguono, seguono in regime giuridico della cosa principale, se non diversamente disposto ” (Cassazione Civile, sez. II, 19.03.1999, n. 2531). Ha, invece, sovente rappresentato oggetto di incertezza giuridica la situazione contraria, ossia il caso in cui la sola pertinenza sia oggetto di usucapione , separatamente dal bene principale. Autorevole dottrina (R. Mazzon) ha, ad avviso dello scrivente, esaurientemente dato risposta positiva al quesito, ammettendo l’usucapibilità autonoma e distinta delle pertinenze: “[…] in effetti, in tema di giudizio volto all’accertamento della proprietà di un bene immobile per intervenuta usucapione, la circostanza che esso sia destinato a pertinenza rispetto ad un altro bene di proprietà dell’istante non fa venire meno la necessità di procedere all’accertamento richiesto, non potendo tale destinazione essere considerata, di per sé, alla stregua di un modo di acquisto della proprietà” (R. Mazzon, Usucapione di beni mobili e immobili, Maggioli editore 2013; Cass. Civ., sez. II 13.02.2006, n. 3069). A riprova di quanto precede è appena il caso di richiamare il principio, oramai condiviso dalla dottrina prevalente, della scindibilità del vincolo pertinenziale , nel senso dell’alienabilità della pertinenza indipendentemente dal bene principale (è, ad esempio, il caso degli spazi condominiali assegnati ed adibiti a parcheggio, rispetto ai quali non si dubita che possano costituire oggetto di compravendita, a prescindere che sia o meno trasferita la proprietà dell’unità immobiliare cui sono collegati da vincolo pertinenziale). Ne deriva, a fortiori , che se la pertinenza può costituire oggetto di trasferimento della proprietà, indipendentemente dalla “ res ” principale, può ben costituire oggetto dell’usucapione.
Covid-19: Emergenza e Diritti. Prevenzione e Precauzione.
Ambiente Diritto - Rivista Scientifica Classe A. Accreditato dal Consiglio Nazionale Forense - 10/2020Il convegno si è svolto nella modalità webinair a causa delle vigenti restrizioni che impediscono la formazione in presenza. Le intensissime sessioni si sono svolto nelle giornate del 17 e 18 ottobre 2020, mediante gli autorevoli interventi di insigni giuristi quali avvocati e docenti universitari. Le relazioni hanno avuto ad oggetto la delicatissima quanto attuale tematica delle prevenzione rispetto a condotte pregiudizievoli per il personale sanitario in considerazione degli effetti letali della pandemia. Le riflessioni svolte hanno avuto l'indubbio merito di offrire fondamentali strumenti interpretativi ai giuristi iscrittisi all'evento, ripercorrendo un'ampia e particolareggiata rassegna dei principali orientamenti dottrinari in materia. Si è, in sintesi, affrontato sia il profilo della responsabilità in ambito sanitario con riferimento al contagio da Covid-19, sia le modalità di prevenzione dal contagio medesimo e gli eventuali diritti relativi al "danno" subito dal contagiato.
Comunione legale e "presunzione muciana"
Pubblicato su IUSTLABLa disciplina della comunione legale dei beni tra coniugi, introdotta dall’art. 177 c.c. , è volta alla tutela dell’unità familiare, perseguita attraverso il regime dell’attribuzione comune degli acquisti compiuti in costanza di matrimonio. A differenza della comunione ordinaria è “ senza quote ” in quanto i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei (Cass. Civ. Sent. n. 14093/2010). Quanto all’ oggetto della comunione la giurisprudenza ha precisato che, ai fini dell’acquisto, non rileva il carattere del bene e “ la natura reale o personale del diritto che ne forma oggetto ” ( G. Cian e A. Trabucchi , Commentario breve al Codice Civile, 2015 ). Dallo svolgimento delle sia pur brevi premesse a carattere generale sin qui esposte, può desumersi la potenziale complessità dei rapporti fra il regime della comunione legale e l’acquisizione, a vario titolo, di beni o di diritti al patrimonio del coniuge. Quanto precede assume maggiore rilievo se raffrontato alla circostanza per cui, non qualunque acquisto pervenuto in costanza di matrimonio rientra ex lege nella comunione, come si evidenzia dalla disamina dell’ art. 179 c.c. , norma tramite la quale cui il legislatore ha posto una serie di limiti. Ci si è, dunque, chiesti se a seguito della riforma del diritto di famiglia, mediante l’introduzione delle legge n. 151 del 1975, la cosiddetta “ presunzione muciana ”, posta dall’ art. 70 l. fall. , con riguardo ai beni acquistati a titolo oneroso dal coniuge del fallito nel quinquennio anteriore alla dichiarazione di fallimento, sia o meno operante con riferimento alla comunione legale. In particolare il quesito fa riferimento alla nota problematica posta dal fatto che la suddetta presunzione assoggetta il coniuge del fallito all’onere spesso faticoso, se non addirittura impossibile, di provare la provenienza del denaro. La Cassazione a Sezioni Unite, (sentenza n. 5291/1997), ha risposto negativamente , peraltro, con estensione al regime della separazione dei beni, specificando che, nel caso della comunione, l’ostacolo all’operatività della presunzione suddetta è posto, non tanto dall’irrilevanza dei profili di chi, fra i coniugi, compia l’acquisto, o dalla provenienza del denaro, quanto, piuttosto, dalla rete di princìpi che, a seguito dell’introduzione della riforma, qualifica la disciplina dei rapporti patrimoniali fra i coniugi “ facendone l’espressione di precisi valori costituzionali, quali quelli della parità e della pari dignità dei coniugi”. Per quanto poi riguarda la separazione dei beni, l’inoperatività dell’art. 70 l. fall. è fatta discendere dalla Suprema Corte dalla circostanza per cui mal si comprenderebbe il rimedio della separazione giudiziale dei beni, previsto dall’ art. 193 c.c. , per il caso di disordini degli affari del coniuge in comunione, se il regime di separazione rappresentasse campo libero per l’operare della “ presunzione muciana ” (Cass. Civ. Sent. n. 1501/2000). Si è, inoltre, osservato che la “ presunzione muciana ” è stata implicitamente abrogata proprio dalla riforma del diritto di famiglia, ispirata al canone sovraordinato della parità della posizione tra i coniugi (Cass. Civ. Sent. n. 2272/1996). E’ pacificamente ritenuto in giurisprudenza che la norma di cui all’art. 70 l. fall., sulla presunzione di acquisto dei beni da parte del coniuge a titolo oneroso, con il denaro del fallito, contrasti con il principio dell’effettività degli acquisti personali , corollario della pari dignità, la quale esclude la sudditanza economica anche del coniuge dell’imprenditore. In altri termini l’art. 177 c.c. poggia sulla presunzione che il compendio dei beni comuni sia risultante da un apporto eguale da parte di entrambi i coniugi che prevale sulla presunzione , iuris tantum , di cui alla legge fallimentare. Pertanto, ove al prezzo d’acquisto provveda soltanto il coniuge imprenditore, realizzando propri beni personali, ovvero con denaro distratto dall’azienda personale da lui soltanto gestita, ex art. 179 c.c., 1° comma, lett. c), d) ed f) 2° comma , e di ciò non sia fatta menzione nel relativo atto, con la consequenziale attribuzione dei beni alla comunione, le posizioni dei creditori restano tutelate dalla possibilità del curatore di denunciare l’inefficacia di detta attribuzione secondo le previsioni di cui agli artt. 64 e 66 della citata legge fallimentare . Bibliografia G. Cian e A. Trabucchi , Commentario breve al Codice Civile, 2015
Sinistri R.C. Auto: indennizzo diretto e litisconsorzio
Pubblicato su IUSTLABL'indennizzo o risarcimento diretto è la procedura di liquidazione dei danni subiti in conseguenza di un sinistro stradale tra due veicoli introdotta dal c.d. Decreto Bersani. Il predetto Decreto ha modificato il Codice delle Assicurazioni private introducendo, a partire dal 1° febbraio 2007, una nuova procedura liquidativa per i danni subiti in conseguenza di un sinistro stradale tra due veicoli, nota come “indennizzo o risarcimento diretto”. Tale procedura, introdotta al fine di velocizzare l’ iter di liquidazione del sinistro a vantaggio del danneggiato, è disciplinata dall’ art. 149 del Codice delle Assicurazioni e prevede che, in caso di incidente di cui non si è responsabili o di cui si è responsabili solo in parte, in presenza di determinate condizioni, il rimborso vada richiesto direttamente alla propria compagnia assicurativa e non a quella del responsabile del sinistro. Le condizioni previste dalla legge ai fini dell'operatività dell'indennizzo diretto sono le seguenti: il sinistro deve risolversi in un urto, anche tra più veicoli , con esclusione della sola ipotesi in cui oltre al veicolo dell’istante e a quello nei cui confronti questi rivolge le proprie pretese, la responsabilità sia almeno in parte riconducibile ad ulteriori veicolo coinvolti. (in tal senso Cass. n. 3146/2017); entrambi i veicoli devono essere immatricolati in Italia , nella Repubblica di San Marino o nello Stato della Città del Vaticano; entrambi i veicoli devono essere identificati e regolarmente assicurati; entrambe le Compagnie assicurative devono aver aderito alla convenzione CARD. Il legislatore ha previsto espressamente il litisconsorzio necessario del danneggiante in caso di azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicurazione del responsabile del danno (art. 144 c. 3 Cod. Ass.). In tal caso, qualora il proprietario del veicolo assicurato non sia stato citato in giudizio, il contraddittorio deve essere integrato ex art. 102 c.p.c. La relativa omissione è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo e comporta l’annullamento della sentenza (ex art. 383 c. 3 c.p.c.).
La violazione del dovere di fedeltà ai fini dell'addebito della separazione
Pubblicato su IUSTLABIl secondo comma dell'art. 143 c.c. elenca, tra gli altri doveri coniugali, anche quello di fedeltà, in linea generale da intendersi come la reciproca astensione dei coniugi da relazioni sentimentali con altre persone. Parte della dottrina ( Buonadonna, De Filippis, Iosca, Merola, Lupo in "La responsabilità nell'addebito della separzione" ) ha rilevato come il fondamento di siffatto dovere sia finalizzato ad ottenere due effetti: a) tutelare il valore dell'unità familiare, inteso come comunione materiale tra i coniugi improntata all'esclusività del vincolo; b) garantire il " clima di fiducia " tra i coniugi, indispensabile per il buon funzionamento del matrimonio, avuto anche riguardo della necessità che non sorgano incertezze in ordine alla filiazione. Tuttavia tale concezione, ancorché fondata probabilmente sul " comune sentire " della maggior parte dei non addetti ai lavori, è, a parere dello scrivente, eccessivamente ancorata a ricostruzioni oramai superate e, come tali, da considerare inadeguate a descrivere in modo esaustivo l'odierno quadro sociale ed il connesso mutamento dei costumi. D'altronde il diritto, soprattutto in materia di famiglia, non può che rimodulare costantemente i propri fondamenti, adeguandosi alle evoluzioni sociali ed alle rinnovate esigenze di concepire la famiglia alla luce di nuovi valori e secondo prospettive, talvolta, persino antitetiche rispetto al passato. Sempre in tema definitorio della nozione di " fedeltà " - tralasciando le oscillazioni della giurisprudenza che, nelle prime sentenze successive alla riforma del diritto di famiglia del 1975 conferiva al dovere in argomento un contenuto di carattere essenzialmente sessuale, di modo che la violazione dovesse restrittivamente individuarsi nell'adulterio, mentre, in tempi più recenti ne ha esteso il concetto riconducendolo anche al " tradimento " meramente affettivo - è da considerare che molti autori hanno, a modesto parere dello scrivente, errato nell'attribuire alla " fedeltà " un contenuto eccessivamente condizionato da fattori etici, se non quando religiosi. Appaiono, così, del tutto fuorvianti le affermazioni secondo cui l'obbligo di fedeltà è l'impegno del coniuge a non tradire la fiducia che l'altro ha riposto in lui nello sceglierlo come " unico compagno della sua vita" . Altri ha osservato che il dovere di fedeltà va concepito in relazione diretta con il fine di realizzare e consolidare l'unione tra i coniugi. Non è poi mancato un filone di pensiero che ha ricondotto il dovere di fedeltà alla nozione di " lealtà " nel senso dell'estensione dei contenuti della stessa oltre la mera fedeltà sessuale e fino alla c.d. " fedeltà affettiva ". Un'isolata teoria è persino giunta a sostenere che la fedeltà va intesa in senso " elevato " e consiste nel riservare al coniuge il posto più importante nella propria vita. Com'è evidente si tratta di mere asserzioni di principio, anzi di valore, che poggiano esclusivamente su presupposti di carattere ideologico che restano, ai giorni nostri, completamente avulsi dal tessuto sociale e dalle concrete modalità di estrinsecazione della vita familiare ed, ancor prima, coniugale. Alla luce di quanto precede, appare, pertanto, più confacente all'odierna realtà giuridico-sociale ritenere che il contenuto della fedeltà, anche ai fini dell'addebitabilità della separazione personale tra i coniugi, debba essere individuato nella volontà (o meno) dei contraenti il matrimonio di proseguire nell'unione coniugale che ben può sussistere anche in caso di palese inosservanza dell'esclusività sessuale. In altri termini il problema che l'interprete odierno dovrebbe porsi è il seguente: se sia o meno sufficiente, ai fini della declaratoria di addebito della separazione, invocare l'episodica quanto eventuale occorrenza di una relazione extraconiugale da parte dell'altro coniuge. A siffatta ricostruzione si potrebbe agevolmente obiettare che l'aspetto sessuale resta, per lo meno nella communis opinio , il simbolo insostituibile di lealtà e fiducia nel rapporto coniugale. Tuttavia tale prevedibile obiezione non terrebbe in considerazione alcuna due peculiari vicende che si ritengono, invece, meritevoli di tutela: a) il non infrequente fenomeno del tacito o espresso consenso del coniuge alla possibilità che l'altro possa intrattenere relazioni di carattere sessuale con altri soggetti, di modo che, ciascuno dei coniugi goda della medesima " libertà "; b) la possibilità che, nonostante l'intrattenimento di relazioni con soggetti estranei al matrimonio da parte di uno o di entrambi i coniugi, si mantenga l'unione familiare, a maggior ragione in presenza di figli minori e, comunque, di condizioni di serenità tali da garantire la pacifica convivenza di tutti i conviventi. Riconducendo, pertanto, l'analisi ad un criterio di tipo meramente giuridico e possibilmente impermeabile a qualsiasi pulsione di carattere confessionale, non è dato comprendere in virtù di quale logica si dovrebbe interpretare il senso estensivo il secondo comma dell'art. 143 c.c. nella parte in cui prescrive il dovere di fedeltà. In altri termini il legislatore ha introdotto nell'ordinamento il generale dovere di fedeltà senza, tuttavia, che sia dato reperire alcuna nozione normativamente disciplinata e, come tale, specifica del termine "f edeltà ". Tanto anche se la giurisprudenza, persino in tempi recenti, ha mostrato un'incomprensibile tendenza ad interpretare in maniera via via sempre più estensiva il concetto di " fedeltà ", finendo per ricomprendervi qualsiasi forma di " attenzione " affettiva a soggetti estranei al matrimonio che possa, anche in via teorica, minare il rapporto di fiducia tra i coniugi. Pare allo scrivente che siffatta concezione finisca, irragionevolmente, per sovrapporre ed anzi far coincidere il concetto di " fedeltà " con quello di " fiducia ", addirittura ampliandone la portata sino a conseguenze estreme e, comunque, anacronistiche rispetto all'odierno dispiegarsi delle relazioni private e sociali. D'altronde la norma in esame non fa alcun riferimento a condotte di tipo sessuale, né si riferisce all'adulterio, ma menziona esclusivamente la " fedeltà ", peraltro, in passato sanzionata anche sotto il profilo penale dall'ormai abrogato art. 559 c.p. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte pare di poter concludere de plano che il dovere di fedeltà debba, primariamente, essere inteso quale fedeltà rispetto ai restanti doveri di coabitazione, di assistenza morale e materiale all'altro coniuge, nonché di collaborazione e, solo in via residuale, quale stensione dall'intrattenere relazioni sessuali o anche spirituali con altri soggetti. In ultimo è il caso di rilevare che, ai fini dell'addebito nella separazione, la violazione del dovere di fedeltà non è, di per sé, sufficiente a determinarne la declaratoria, in quanto è necessario dimostrare che essa sia stata causa della fine dell'unione tra i coniugi. Tale onere probatorio spetta, ovviamente, a chi richiede l'attribuzione dell'addebito all'altro coniuge, dovendo dimostrare la sussistenza del nesso eziologico tra l'infedeltà e la rottura dell'unione coniugale. In altri termini è necessario che, sia per i tempi, sia per i modi, sussista un rapporto di causalità diretto fra la violazione e la decisione di separarsi. Tanto con l'essenziale notazione che la verifica in ordine all'esistenza del nesso eziologico deve essere condotta non solo in riferimento alla violazione del dovere di fedeltà, bensì con riguardo a tutte le violazioni dei coniugali. Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha consolidato un indirizzo interpretativo in base al quale in caso di mancato raggiungimento della prova che la violazione dei doveri matrimoniali sia stata la causa del fallimento coniugale, la separazione deve essere pronunciata senza addebito.
La trascrizione delle domande giudiziali
Pubblicato su IUSTLABCom’è noto gli artt. 2652 e 2653 c.c. disciplinano puntualmente la trascrizione di una serie di domande giudiziali e di atti unilaterali. Per quanto riguarda le domande giudiziali, alla trascrizione di alcune di esse viene riconosciuta efficacia indipendentemente dal successivo accoglimento della domanda, mentre per le altre l’efficacia della trascrizione dipende dall’emanazione di una sentenza favorevole all’attore. Astenendoci in questa sede dal ricostruire le articolate contrapposizioni dottrinarie sul tema della disomogeneità delle domande contenute nei due articoli summenzionati, appare preferibile limitarsi a considerare che un sicuro elemento comune è rappresentato dalla funzione della trascrizione in tema di domande giudiziali: cautelare o conservativa. In altri termini la trascrizione, per dirla con autorevole dottrina (S. Cervelli, Trascrizione ed ipoteca ): “ non modifica la natura (personale o reale) dell’azione che ne è oggetto, per cui non si potrebbe dire, ad esempio, che il diritto dell’attore fondato su di un rapporto contrattuale, come il diritto di risoluzione per inadempimento diventa diritto reale solo perché fatto valere con una domanda trascritta ”. Ciò è dimostrato dal fatto che i terzi subacquirenti del convenuto, fanno salvi i loro diritti se li hanno tutelati mediante la previa trascrizione, mentre con la trascrizione non si salvano in maniera definitiva gli acquirenti dal convenuto in rivendicazione, essendo quest’ultima un’azione reale. La funzione dell’istituto della trascrizione appare chiara se si considera che riguarda tutta una serie di ipotesi (ad esempio quando il terzo abbia acquistato a titolo oneroso ed in buona fede dall’erede apparente) per le quali, pur ricorrendo i requisiti della buona fede o di onerosità dell’acquisto del terzo, che ordinariamente varrebbero a farne salvo il diritto, il legislatore ha previsto che l’efficacia della sentenza si manifesti nei confronti del terzo avente causa dal convenuto soccombente, se la domanda giudiziale sia stata trascritta prima della trascrizione del titolo di acquisto . Quanto precede non implica che gli artt. 2652 e 2653 c.c. siano espressione del principio della c.d. retroattività della sentenza al momento della domanda. E’, d’altronde, pacifico in dottrina ed in giurisprudenza che l’onere della trascrizione delle domande giudiziali è previsto esclusivamente ai fini dell’opponibilità della sentenza ai terzi che non siano parti nel giudizio, per cui l’omissione di tale formalità non costituisce ostacolo alla proposizione dell’azione o alla pronuncia del giudice, né può essere eccepita, per difetto di interesse, dal convenuto. Bibliografia: S. Cervelli, Trascrizione ed ipoteca, Manuale e applicazioni pratiche delle lezioni di Guido Capozzi
Chiesti più medici al Pronto Soccorso
Gazzetta del Sud - 11/2020In qualità di legale di fiducia del SUL Calabria, Sindacato Unitario dei Lavoratori, a far tempo dall'anno 2019 ho sempre seguito con costanza, determinazione e continuativa consulenza un gruppo di circa 40 lavoratoti della sanità, tra medici, infermieri ed oss, interfacciandomi anche personalmente con ciascuno di loro al fine di ascoltarne le problematiche, redigere diffide all'Azienda Ospedaliera di riferimento ed intervenire anche tramite incontri con le istituzioni al fine di risolvere o attenuare le problematiche che affliggono i lavoratori nella propria qualità di sanitari esposti a rischio ogni giorno. Inoltre tali interventi del sottoscritto legale, erano sempre finalizzati anche al miglioramento dei servizi sanitari e ciò nell'interesse di tutti i cittadini. Detta attività si è sempre svolta nel massimo rispetto delle istituzione e delle diverse Direzioni Generali e Sanitarie susseguitesi nel tempo, posto che la maggior parte delle vertenze è stata risolta mediante incontri diretti dello scrivente legale con le figure apicali dell'Azienda Ospedaliera. Attività che, pur nel rispetto degli interlocutori, non ha mai fatto sconti a nessuno, tenendo ben fisso l'obiettivo di migliorare il servizio per tutti i cittadini, di denunciare le criticità, anche pubblicamente ed a mezzo stampa ed, al contempo, di tutelare la posizione lavorativa e la salubrità del luogo di lavoro dei sanitari oltreché, soprattutto, salvaguardarne la sicurezza ed incolumità personale.
Università: luogo di diffusione dei saperi e della legalità - Giornata di riflessione sulla cultura dell'antimafia
Università degli studi di Roma "Tor Vergata" - Facoltà di giurisprudenza - 11/2011All'iniziativa organizzata e moderata dallo scrivente Avv. Guido, sono intervenuti: - Antonio Turri responsabile regionale di "Libera", la nota associazione nazionale antimafia presieduta da Don Luigi Ciotti, attiva da molto tempo nell'ambito della riutilizzazione a scopi sociali dei beni immobili sequestrati alle mafie; - Serena Sorrentino, Segretario Nazionale del sindacato CGIL; - il compianto Prof. Enzo Musco, luminare del Diritto Penale, nonché coautore della "Bibbia" del diritto penale italiano per tutte le generazioni di studenti universitari negli ultimi 30 anni: il manuale di diritto penale "Fiandaca- Musco". L'iniziativa si è svolta partendo da una ricostruzione storica dell'attuale legislazione antimafia e delle implicanze sul tessuto sociale italiano, nonché sulla lotta alla criminalità organizzata a decorrere dalla legge Rognoni - La Torre e dall'introduzione dell'art. 416 bis del c.p. che punisce il reato (in passato non codificato) di associazione a delinquere di stampo mafioso, Si è poi passati ad argomentare le varie fasi di sviluppo della legislazione, fino ai giorni nostri ed alle "tecniche" investigative in tema di lotta al narcotraffico ed al radicamento delle cosche di 'ndrangheta nel cuore economico dell'Europa. Il riferimento a Peppino Impastato, martire della cultura dell'antimafia, assassinato barbaramente in Sicilia, ha costituito il filo rosso dell'intera trattazione.
Diritto sindacale: proclamazione dello "stato di agitazione" dei lavoratori e procedura di "raffreddamento" della Prefettura
Pubblicato su IUSTLABIl tentativo obbligatorio di conciliazione, denominato "procedura di raffreddamento", si svolge preventivamente rispetto allo sciopero, a livello aziendale. Se la controversia è locale, i soggetti competenti a svolgere l'attività di conciliazione sono quelli previsti all'art. 2, comma 2 della legge 146/1990, come modificata dalla legge 83/2000. Le norme in esame non prevedono alcuna disposizione che limiti o impedisca ad una singola organizzazione sindacale di proclamare lo stato di agitazione in ogni momento ed anche in presenza di identiche rivendicazioni già sottoposte ad identica procedura da parte di altre sigle sindacali. Difatti, qualora prevalesse l'interpretazione contraria, secondo la quale non sarebbe consentito alla singola sigla sindacale di proclamare lo stato di agitazione su vertenze già sollevate da altre sigle sindacali, a risentirne sarebbe l'inviolabile principio di autonomia ed indipendenza delle singole sigle sindacali , la cui azione non può dipendere o venire condizionata dalle rivendicazioni avanzate da altri sindacati. Pertanto al quesito se è possibile per la singola organizzazione sindacale proclamare lo stato di agitazione in ordine ad una vertenza sulla quale sia stata già esperita la "procedura di raffreddamento" da parte di altre sigle sindacali, ancorché detta procedura si sia conclusa con esito negativo, è senz'altro da rispondere in senso affermativo.
Pronto Soccorso: ricognizione dei requisiti minimi in campo igienico-sanitario e delle prestazioni sanitarie erogate
Pubblicato su IUSTLABLa vexata quaestio dell'adeguatezza dei luoghi adibiti a Pronto Soccorso o, per meglio dire ad Unità Operativa Complessa di Emergenza -Urgenza, sotto il profilo giuridico, può essere definita soltanto in termini di riduzione dei margini di indeterminatezza che la normativa tradizionalmente presenta. Quanto precede è agevolmente comprensibile se si considera che non esiste una legislazione unitaria di settore utilmente invocabile ai fini dell'individuazione dei requisiti che ciascuna struttura deve possedere sì da risultare conforme e, come tale, sicura per l'utenza e per gli operatori sanitari. La materia è, invece, contraddistinta da indicazioni normative frammentarie ed estremamente mutevoli e ciò proprio in ragione dell'attribuzione alle Regioni di poteri "rafforzati" in tema di organizzazione dei servizi sanitari, a seguito dell'introduzione del novellato Titolo V della Costituzione. Prescinde da questa sede la pur rilevante opportunità di svolgere un'indagine approfondita circa l'efficacia di un simile assetto costituzionale, ragion per cui l'analisi che ci occupa è esclusivamente mirata a delineare un quadro didascalico delle più "comuni" norme di settore rappresentanti l'impalcatura più o meno diffusa nelle 20 regioni italiane. Non desti meraviglia l'utilizzo del termine "comune" che, in verità, generalmente, mal si concilia con il comune sentire circa la necessità della " certezza del diritto " vigente sull'intero territorio nazionale. Purtroppo, però, l'immensa questione dell'inadeguatezza del sistema sanitario di talune regioni (prima fra tutte la Calabria, oramai da anni ultima nelle classifiche stilate da più enti in ordine ai requisiti qualitativi del servizio sanitario offerto), pone in serio dubbio il sostanziale rispetto delle norme generali che, pur vigenti almeno formalmente, dovrebbero valere ad ogni latitudine dello Stato italiano, mentre sovente sono disattese. Sorgerebbe dunque spontaneo il quesito in ordine alle ragioni per le quali l'ordinamento giuridico non reagisca con determinazione rispetto alle molteplici violazioni sia di norme generali, sia di leggi speciali poste in essere dalle Aziende Ospedaliere, talora persino palesemente, tanto da trovare ampia narrazione sulla stampa cartacea e telematica. Anche in questo caso l'approfondimento condurrebbe lontano e, comunque, ben oltre il thema della presente trattazione. Sia sufficiente considerare che ogni ente regionale, pur nei limiti imposti dalla Costituzione, com'è ovvio, attua pienamente il principio dell'autonomia organizzativa di Aziende Ospedaliere, Aziende Sanitarie, Centri Spoke, Centri Hub e medicina del territorio a vario titolo (ivi compresi i medici di famiglia). Fatto sta che ciascuno di tali organi assume, a sua volta, funzioni di autogoverno, per lo meno limitatamente alla definizione degli obiettivi e delle linee guida, nonché dei controlli igienico-sanitari. Se a tali considerazioni si aggiunge che non poche sono le aziende sanitarie ed ospedaliere soggette alle norme speciali previste per il commissariamento, mentre addirittura nel caso della Regione Calabria è in carica un commissario regionale ad acta da oltre 10 anni, ben si comprende come la pretesa di definire un quadro normativo unitario non sia difficile, bensì inutile. Certamente appare, per altro verso, opportuno annoverare le principali linee guida in tema di organizzazione dei servizi sanitari, avuto riguardo dell'irrinunciabile necessità (soprattutto in tempo di pandemia da Covid-19) di approntare tutte le idonee condizioni igienico-sanitarie ritenute conformi agli orientamenti scientifici prevalenti, soprattutto a beneficio degli ambulatori e dei locali complementari ed annessi ove hanno sede i Pronto Soccorso. L'itinerario della ricognizione normativa in argomento non può che partire dal principale assetto legislativo in materia di individuazione dei Livelli essenziali di assistenza sanitaria ( i cosiddetti LEA): il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 novembre 2001 , e successive modificazioni, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale in data 08 febbraio 2002 al n. 33. Nell'allegato 1 del Decreto, alla lettera G, è prescritto che sull'intero territorio nazionale debbano essere garantite: a) attività sanitaria e sociosanitaria rivolta alle persone con problemi psichiatrici e alle loro famiglie; b) attività riabilitativa sanitaria e sociosanitaria rivolta alle persone con disabilità fisica, psichica e sensoriale; c) attività sanitaria e sociosanitaria rivolta alle persone dipendenti da sostanze stupefacenti o psicotrope o da alcool; d) attività sanitaria e sociosanitaria rivolta a pazienti nella fase terminale; e) attività sanitaria e sociosanitaria rivolta alle persone con infezione da HIV. Posto che più d'una di tali attività dovrebbero svolgersi regolarmente anche presso gli ambulatori dei Pronto Soccorso, è agevole rilevare come, ad esempio in tema di trattamento delle patologie psichiatriche, non di rado tali reparti siano completamente sprovvisti degli idonei mezzi per la gestione in sicurezza di simili pazienti. A favore di tale interpretazione - e cioè della necessità che all'interno del Pronto Soccorso dovrebbero normalmente realizzarsi, quantomeno, i primi interventi di messa in sicurezza dei pazienti affetti da patologie psichiatriche - milita un altro argomento. L'allegato 2C del medesimo decreto, in tema di prestazioni incluse nei LEA che presentano un profilo organizzativo potenzialmente inappropriato, include due sole prestazioni che non possono essere erogate in regime di degenza ordinaria, ossia: nevrosi depressiva (eccetto urgenze) e nevrosi eccetto nevrosi depressiva (eccetto urgenze). Ne deriva che negli altri casi, al cospetto di patologie psichiatriche, per la realizzazione dei livelli essenziali deve essere garantito un efficace intervento di stabilizzazione di tali degenti. Fermo restando che persino nei due casi summenzionati è obbligatorio un adeguato intervento in condizioni di urgenza. Particolarmente interessante appare, poi, il contenuto del Decreto Ministeriale 2 aprile 2015 n. 70 , pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 04.07.2017 al n. 127, in tema di Regolamento recante la " definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all'assistenza ospedaliera ". L'art. 1 della norma in argomento, in tema di standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all'assistenza ospedaliera, al comma 2 prevede che le regioni debbano adottare un provvedimento generale di programmazione in ordine alla dotazione dei posti letto ospedalieri in base alla popolazione residente nei diversi territori, avendo quale limite, certamente non insuperabile né perentorio, i 3,7 posti letto per mille abitanti . L'allegato 1 del decreto di cui trattasi, all'art. 1, comma 1.2 propone una visione integrata dell'assistenza sanitaria in virtù della quale: " l'ospedale deve assolvere ad una funzione specifica di gestione delle problematiche assistenziali dei soggetti affetti da una patologia (medica o chirurgica) ad insorgenza acuta e con rilevante compromissione funzionale, ovvero di gestione di attività programmabili che richiedono un contesto tecnologicamente ed organizzativamente articolato e complesso, capace di affrontare, in maniera adeguata, peculiari esigenze sanitarie sia acute che post- acute e riabilitative". A prescindere dalla mera dichiarazione d'intenti della norma in esame, pur perseguente il lodevole scopo di unificare nazionalmente i livelli essenziali di assistenza, è tangibilmente verificato come in talune realtà regionali i Pronto Soccorso riescano - e non senza inveterate criticità - a gestire a malapena l'ordinaria amministrazione. Sempre a mente della medesima norma, in ogni caso, l'ospedale dovrebbe assicurare la gestione del percorso diagnostico terapeutico (PDT) del problema clinico di cui si fa carico, sia all'interno del presidio che all'interno della rete ospedaliera, affinché possa essere assicurata, anche in fase successiva alla prima accettazione, l'allocazione dei pazienti presso i presidi che dispongano di un livello organizzativo coerente con la complessità assistenziale del caso da trattare. Di fondamentale rilevanza appare, inoltre, richiamare la seguente parte della norma che disciplina il ricovero dei pazienti, secondo il principio della garanzia del poso letto, se ritenuto necessario dai medici del Pronto Soccorso: " la gestione dei posti letto deve avvenire pertanto con la massima flessibilità , al fine di assicurare la maggior dinamicità organizzativa rispetto alla domanda appropriata di ricovero, con specifica rilevanza per le necessità provenienti dal pronto soccorso aventi le caratteristiche dell'urgenza e dell'emergenza. E’ raccomandata anche l'informatizzazione delle disponibilità dei posti letto per aree geografiche". In altri termini la disposizione del ricovero nei reparti di degenza, a beneficio dei pazienti per i quali sussistano idonee indicazioni mediche, qualora venisse rispettata, non solo garantirebbe l'adempimento degli obblighi imposti dalla normativa in esame, ma determinerebbe, senz'altro, il realizzarsi di migliori condizioni igienico-sanitarie dei Pronto Soccorso, i quali non si vedrebbero più sovraffollati e contraddistinti da esecrabili condizioni di promiscuità. L'art. 6 dell'allegato 1 del Decreto al comma 3° dispone che ogni struttura, tenendo anche conto del suo interfacciamento con la componente impiantistica e con le attrezzature, ha l'obbligo del rispetto, assicurato con controlli periodici, dei contenuti degli atti normativi e delle linee guida nazionali e regionali vigenti in materia di qualità e sicurezza delle strutture con riferimento a: protezione antisismica; - antincendio; - radioprotezione - sicurezza per i pazienti, degli operatori e soggetti ad essi equiparati; - rispetto della privacy sia per gli aspetti amministrativi che sanitari ; - monitoraggio periodico dello stato di efficienza e sicurezza delle attrezzature biomedicali; - graduale sostenibilità energetico-ambientale in termini di riduzione dei consumi energetici; - smaltimento dei rifiuti; - controlli periodici per gli ambienti che ospitano aree di emergenza, sale operatorie, rianimazione e terapie intensive e medicina nucleare ; - monitoraggio periodico dello stato di efficienza e sicurezza degli impianti tecnici e delle attrezzature biomedicali; - controllo periodico della rispondenza delle opere edilizie alle normative vigenti. Norma che se fosse realizzata garantirebbe la sicurezza degli ambulatori ove si erogano le prestazioni sanitarie, sia agli operatori, sia ai pazienti. Ci si chiede in quale modo possa, invece, dirsi realizzato il sacrosanto diritto alla "privacy" in contesti ambientali ove, sovente, le prestazioni di carattere sociosanitario, ivi incluse le operazioni di igiene dei pazienti non autosufficienti, avvengono al cospetto di tutti gli stazionanti, siano essi degenti o congiunti dei medesimi, nel corso delle ben note ore di attesa che ciascuno sperimenta in Pronto Soccorso. Infine vale la pena soffermare la riflessione sull'art. 9.2.1 Ospedale sede di Pronto Soccorso che prevede il seguente testuale obbligo: " Deve essere dotato di letti di Osservazione Breve Intensiva (O.B.I.) proporzionali al bacino di utenza e alla media degli accessi ". In altri termini, ai fini del rispetto della norma si renderebbe essenziale la presenza di un O.B.I. a servizio di ciascun Pronto Soccorso avente i requisiti dettati dal Decreto, a maggior ragione nel caso in cui dovesse trattarsi di Ospedale D.E.A. di II Livello (Hub). Raccogliendo le fila di quanto sin qui argomentato, senza alcuna presunzione di completezza espositiva, si è tentato di offrire un quadro comparativo d'insieme delle carenze più o meno riscontrabili in determinati Pronto Soccorso, avuto riguardo, invece, delle prescrizione di legge per la garanzia dei livelli essenziali di prestazione.
Ricorso ex art. 445 bis c.p.c. avverso INPS per il riconoscimento di invalidità civile totale a seguito di fascite necrotizzante
Anno 2021 - Tribunale civile di Cosenza - Sezione LavoroSi tratta di un ricorso per ATP avverso un verbale di accertamento medico legale per il riconoscimento dell’invalidità civile emesso dalla Commissione Medica per l’Accertamento dell’Invalidità civile. La ricorrente contraeva la gravissima patologia denomina "fascite necrotizzante" all'esito della quale subiva una serie di interventi chirurgici e riportava conseguente lesive permanenti sia a livello estetico, sia di tipo funzionale. Fatto sta la Commissione Medica dell'INPS rigettava la richiesta di invalidità al 100% sull'erroneo, pur avendola in passato riconosciuta alla medesima persona e ciò basandosi sull'erroneo presupposto che era medio tempore addirittura migliorato il suo stato di salute. Pertanto, a fronte di tali determinazioni della Commissione Medica, ritenute incongrue dalla ricorrente, veniva affidato al sottoscritto difensore il mandato di richiedere all’INPS una rettifica della valutazione esposta nel verbale in contestazione e ciò sulla scorta di una serie di circostanze di carattere medico-legale opponibili in concreto. Si rendeva pertanto necessario esperire la procedura di accertamento tecnico preventivo che si concludeva con l'omologa da parte del Giudice adito della perizia del CTU incaricato, il quale riconosceva all'assistita il 100% di invalidità. L'esito favorevole del procedimento in esame consentiva pertanto alla cliente, non solo di vedersi nuovamente riconosciuta la corresponsione della pensione di invalidità, ma anche di ottenere tutti gli arretrati medio tempore non versati con rivalutazione.
Istituti particolari in materia previdenziale forense
Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense - 11/2020Attività formativa accreditata dalla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense ai fini della formazione professionale continua
Intelligenza artificiale, banche dati e gestioni dei dati nel settore giustizia
Avvocato 360 - 4/2021L'iniziativa si svolgeva il 19 marzo 2021, mentre l'attestato veniva rilasciato il 16 aprile dello stesso anno. L'argomento oggetto dell'attività formativa consisteva nell'approfondimento delle innovative tecniche di "intelligenza artificiale", con particolare attenzione al sussidio delle stesse rispetto all'attività forense. Inoltre si procedeva alla disamina particolareggiata delle norme in tema di conservazione e gestione dei dati informatici.
Principi chiave dei diritti umani in biomedicina - Consiglio Nazionale Forense 2020
Statement of Accomplishment Council of Europe HELP Programme - 3/2021Nell'ambito del programma denominato "Human rights Educational for Legal Professionals" organizzato dal Consiglio d'Europa, ho preso partecipato e completato il corso "Principi chiave dei diritti umani in biomedicina" accreditato presso il Consiglio Nazionale Forense per l'anno 2020 (Corso FAD accreditato ai fini della Formazione Continua ai sensi del regolamento n. 6/2014 del Consiglio Nazionale Forense dalla Commissione Centrale per l'Accreditamento della Formazione).
Ricorso per la regolamentazione dei rapporti da parte dei nonni Ex art. 317 bis c.c.
Tribunale per i minorenni di CatanzaroL’art. 317 bis del codice civile, com’è noto, prevede testualmente: “Gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. L'ascendente al quale è impedito l'esercizio di tale diritto può ricorrere al giudice del luogo di residenza abituale del minore affinché siano adottati i provvedimenti più idonei nell'esclusivo interesse del minore”. Peraltro sistema di protezione dei diritti umani del Consiglio d’Europa la Corte EDU già da tempo, sin dal caso Marckx c. Belgio del 1979, ha dichiarato che la “vita familiare” di cui all’art. 8 CEDU non si limita ai rapporti tra genitori e figli, ma include, altresì i legami tra parenti stretti, come quelli tra nonni e nipoti, il che implica l’obbligo per lo Stato di agire in modo tale da consentire il normale svolgimento di siffatte relazioni. Orbene è altresì noto che si tratta di un diritto condizionato (anziché incondizionato), nel senso chiarito più volte dalla Suprema Corte: “Ciascuno degli ascendenti (o delle persone legate agli stessi da un rapporto di coniugio o di convivenza) è titolare di un proprio diritto a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dall'art. 317-bis c.c., autonomo rispetto a quello degli altri; tale diritto, coerentemente con l'interpretazione dell'art. 8 Cedu fornita dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, non ha un carattere incondizionato, ma il suo esercizio è subordinato ad una valutazione del giudice avente di mira "l'esclusivo interesse del minore" (Cassazione civile, Sez. I, ordinanza n. 9144 del 19 maggio 2020).
Controversia insorta tra un consumatore acquirente di titoli di viaggio ed una nota compagnia internazionale di trasporto aereo
Dal 2022 a tutt'oggiL'atto di citazione prendeva spunto dall'acquisto online di biglietti di viaggio per un volo nazionale (in questo caso dall'aeroporto di Lamezia Terme a Milano e viceversa. Il vettore aereo rinviava il volo di oltre 24 ore ed a fronte dell'inutilizzabilità del volo alternativo il viaggiatore chiedeva il rimborso del prezzo pagato e l'indennizzo forfettario previsto dalla normativa del consumo. In sostanza l'acquisto avveniva tramite procedura telematica prevista dal sito ufficiale della società convenuta, derivandone che l'acquirente agiva da consumatore per avere concluso il contratto di trasporto aereo on-line. Quest'ultimo è un negozio che rientra tra i contratti a distanza per le cui controversie è prevista, ai sensi dell’art. 63 del D. Lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) “la competenza territoriale inderogabile” del giudice del luogo di residenza o di domicilio del consumatore, se ubicati in Italia. Nel caso di specie, si applica – come chiarito più volte dalla Suprema Corte - “la disciplina del Codice del Consumo (D. Lgs. 206/2005) che, in materia di contratti a distanza, stabilisce come sede del foro competente quella di residenza o domicilio eletto del consumatore". In particolare, se il contratto è concluso on-line da un consumatore (come risulta emerso nella fattispecie per cui è causa, n.d.r.), la giurisprudenza della Suprema Corte ritiene “concluso il contratto nel luogo in cui il passeggero riceve conferma dell’acquisto del biglietto, ossia il luogo di residenza del consumatore” (così, Cass. Civ. 13642/2006; Cass. Civ. 11282/2001)”; (ex plurimis, sentenza GDP di Trapani del 18/06/2018).
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