Avvocato Francesco Morelli a Barletta

Francesco Morelli

Avvocato Penalista


Informazioni generali

L'avv. Francesco Morelli si è laureato a pieni voti presso l'Università degli Studi di Bari. Ha svolto un periodo di tirocinio presso alcuni tra i più prestigiosi studi legali del foro di Trani, approfondendo un'accurata conoscenza del diritto penale processuale e sostanziale. Ottenuta l'abilitazione al patrocinio, ha aperto un proprio studio in Barletta al Corso Vittorio Emanuele n.132 curando tutti gli aspetti del diritto penale per oltre 15 anni. E' stato Docente di diritto penale nel corso intensivo di preparazione agli esami di avvocato ed è autore di numerosi articoli pubblicati su prestigiose riviste giuridiche.

Esperienza


Diritto penale

Si occupa da oltre 15 anni di diritto penale, processuale e sostanziale. Ha ottenuto l'iscrizione nell'albo speciale per il Patrocinio davanti alle Giurisdizioni Superiori. E' abilitato al Patrocinio a Spese dello Stato ed ottenuto numerose pronunce favorevoli pubblicate anche su prestigiose banche dati giuridiche.


Sostanze stupefacenti

Ha pubblicato numerosi contributi editoriali sul tema, pubblicati su importanti riviste scientifiche e banche dati giuridiche di indubbia rilevanza nazionale. Ha ottenuto l'iscrizione nell'albo speciale per il Patrocinio davanti alle Giurisdizioni Superiori. E' abilitato al Patrocinio a Spese dello Stato ed ottenuto numerose pronunce favorevoli pubblicate anche su prestigiose banche dati giuridiche.


Gratuito patrocinio

Da diversi anni è abilitato al Patrocinio a Spese dello Stato, offrendo assistenza legale penale per le persone non abbienti.


Altre categorie:

Domiciliazioni, Reati contro il patrimonio, Violenza, Stalking e molestie, Omicidio, Antiriciclaggio, Recupero crediti, Contratti.


Referenze

Pubblicazione legale

Tecniche e strategie di assunzione delle prove orali

Pubblicato su IUSTLAB

Tecniche e strategie di assunzione delle prove orali Si ringrazia il Senatore Dott. Gianrico Carofiglio, magistrato presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, nonché autore del best-seller “L’arte del dubbio”, per la preziosa disponibilità offerta per la stesura del presente articolo. Nell’immaginario collettivo la cross examination e, in particolare, il controesame, rappresentano la quintessenza del processo accusatorio, in piena adesione ai principi chiovendiani di oralità, immediatezza e concentrazione posti a fondamento del giusto processo. Tuttavia, anche fra molti addetti ai lavori, non sempre sono pienamente conosciute, da un lato, la complessità e la delicatezza di un simile strumento e, dall’altro, le effettive potenzialità, favorevoli e soprattutto sfavorevoli, delle quali può essere portatore. E’ un dato di fatto tristemente verificabile nelle aule di giustizia la diffusa inadeguatezza di molti operatori del diritto nel gestire opportunamente il potente strumento dell’assunzione orale della prova, troppo spesso degradato (per eccessiva fretta, disattenzione, o semplice sottovalutazione del rischio) ad un mero scambio dialettico tra esaminatore ed escusso. Il presente articolo, senza alcuna pretesa di esaustività, ha il solo obiettivo di fornire al lettore uno spunto di riflessione, evidenziando la complessità e la molteplicità delle tecniche di esame e controesame, che coinvolgono profili epistemologici, tecnico-giuridici, retorico-argomentativi, psicologici e deontologici. Sarebbe tuttavia fuorviante e controproducente ritenere l’assunzione delle prove orali una mera equazione algebrica: le variabili in gioco sono così tali e tante da vanificare spesso il risultato atteso o, quantomeno, auspicato dall’esaminatore. Si pensi allo stato d’animo che un testimone non avvezzo alle aule di tribunale può provare nel momento in cui viene chiamato a rendere la propria deposizione in dibattimento; al suo impellente desiderio di alzarsi da quella scomoda sedia con un minaccioso microfono puntato contro di lui; alla difficoltà di ricordare dettagliatamente episodi spesso avvenuti anni prima; alla sensazione di sottomissione all’autorità; al disagio provato nel rievocare ricordi spesso particolarmente traumatici, e così di seguito. Sono solo alcune delle possibili variabili idonee ad influire, positivamente o negativamente, sulla deposizione resa in aula dal testimone e, conseguentemente, sulla ricostruzione dei fatti storici. Sono autentiche “insidie” che connotano l’istituto in esame, soprattutto per chi si illuda di farne un uso estemporaneo. Esso è tuttora affidato all’estro, al buon senso, all’intuito, all’arguzia, all’esperienza di magistrati ed avvocati 1 . E’ un compito difficile quello dell’esaminatore, chiamato a cogliere ed interpretare ogni parola, gesto, movimento da parte dell’escusso; un’analisi semantica ad ampio 1 Così l’Avv. Ettore Randazzo, “Insidie e strategie dell’esame incrociato”, 2008, Guffrè Editore raggio che, se adeguatamente svolta, non di rado imporrà all’esaminatore di modificare “in itinere” l’ordine, la formulazione, o il contenuto stesso delle successive domande. Così facendo, la prova testimoniale, da semplice sequela di domande rivolte all’esaminato, diventa qualcosa di più complesso ed articolato: una vero e proprio percorso comunicativo e persuasivo, governato da regole e strategie non codificate, il cui destinatario non è il testimone escusso, ma il giudice. Come acutamente evidenziato dal Magistrato dott. Gianrico Carofiglio, infatti, “le domande costituiscono in realtà uno strumento retorico per parlare ai giudici e per trarre le conclusioni di uno sforzo narrativo e argomentativo complesso e brillante. Il fondamento strategico di ogni efficace cross-examination risiede nell’impostazione della sequenza delle domande sulla falsariga di una argomentazione, dovendo in particolare ogni domanda costituire un passaggio nello sviluppo progressivo della argomentazione stessa”2 . Per quanto possa apparire pleonastico, appare dunque opportuno sottolineare come lo scopo mediato della cross-examination sia quello di far emergere la verità processuale, mentre lo scopo immediato è quello di persuadere il giudice. L’escusso diviene così lo “strumento” attraverso il quale l’esaminatore dovrà riuscire a convincere il giudice sulla esatta dinamica dei fatti, contribuendo alla formazione del materiale conoscitivo su cui si baserà la sua decisione. Un’attività di convincimento e persuasione da parte del difensore tutt’altro che semplice, ove si consideri che, soprattutto al di fuori dei casi di citazione diretta a giudizio, il giudice è consapevole che il materiale originario è già stato vagliato da un magistrato che ha esercitato l’azione penale in quanto ha ritenuto sussistenti elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio e, soprattutto, che quel materiale è già stato sottoposto al filtro di un suo collega che ben avrebbe potuto bloccare l’azione penale, disponendo l’archiviazione o il non luogo a procedere, qualora non avesse ritenuto convincenti gli elementi forniti dall’organo inquirente. Non può dunque sottacersi né trascurarsi quel naturale, umano, comprensibile ed al tempo stesso ineluttabile condizionamento da parte del giudice dibattimentale, inevitabilmente, e spesso persino inconsapevolmente, indotto a ritenere fondata l’accusa mossa nei confronti dell’imputato. Ed è proprio contro questo pre-giudizio che il difensore dovrà lottare, cercando di far emergere, attraverso l’istruttoria dibattimentale ed in particolare attraverso il controesame del teste sfavorevole, elementi idonei a convincere il giudice della infondatezza dell’accusa. Emerge a questo punto la fondamentale funzione del controesame, ovvero quella di screditare le risposte rese nell’esame diretto, minando la credibilità del teste e dimostrando che i fatti asseriti non sono veri oppure sono inesatti o incompleti, coltivando quella che il Dott. Carofiglio efficacemente definisce “l’arte del dubbio” 3 . 2 Così il Dott. Gianrico Carofiglio, “L’arte del dubbio”, 2007, Sellerio Editore Palermo, pag. 49. 3 “L’atto del domandare dubitando, che sintetizza l’essenza e la ragione del controesame, costituisce espressione di libertà dai vincoli di verità convenzionali e, soprattutto, dai pericoli di decisioni precostituite. Esso è dunque momento Prima di passare ad esaminare le tecniche più efficaci da adottare in sede di controesame, occorre preliminarmente sgombrare il campo da possibili equivoci. La regola primaria ed indefettibile del controesame è la seguente: “si procede al controesame se si ha un obiettivo significante sotto il profilo probatorio e se tale obiettivo appare praticamente raggiungibile”4 . A seguito di una deposizione avversa che abbia conseguito un risultato sfavorevole, prima ancora di decidere come, occorre dunque chiedersi se sia il caso di procedere al controesame. In altri termini, occorre valutare se ci sia la concreta e prevedibile possibilità di segnare qualche punto a proprio favore, elidendo la deposizione appena resa dal teste sfavorevole o, quantomeno, limitando il più possibile gli effetti negativi dell’esame diretto. Una scelta tutt’altro che semplice, quella rimessa al difensore, sebbene resa più agevole dal fatto che essa va compiuta solo a seguito dell’esame diretto, nel corso del quale il difensore dovrà cercare di cogliere ogni piccolo segnale che il testimone avverso fornirà, nella maggior parte dei casi inconsapevolmente. Le esitazioni del teste, le sue incertezze, le sue debolezze, le possibili contraddizioni, la gestualità, il tono della voce, le eccessive pause, ed il linguaggio non verbale, sono tutti elementi che potranno consentire al difensore di effettuare una scelta più prudente e ponderata sull’opportunità di avventurarsi sull’impervio ed imprevedibile terreno del controesame. In ogni caso, prima di procedere al controesame occorre avere ben chiaro l’effetto probatorio che si intende conseguire. Non è raro assistere a controesami condotti dal difensore in modo corrivo ed approssimativo, riformulando domande sulle quali il teste ha già deposto in sede di esame diretto, nella speranza che possa prima o poi cadere in contraddizione. E’ chiaro come questo tipo di strategia sia caratterizzata da un altissimo rischio di insuccesso, consentendo al teste di ribadire le risposte già precedentemente rese, spesso arricchendole di ulteriori dettagli sfavorevoli, con l’unico risultato di rafforzare l’attendibilità del teste avverso e della sua deposizione. Si rende dunque necessario procedere con estrema cautela, decidendo preliminarmente il tipo di obiettivo che si intende conseguire: 1) Attenuazione della rilevanza della deposizione; 2) Attacco all’attendibilità del teste; 3) Attacco all’attendibilità della deposizione. Il primo metodo è consigliabile quando non sia possibile procedere ad un controesame di tipo distruttivo. Esso consiste nel tentativo di attenuare gli effetti sfavorevoli della deposizione, dimostrando come gli elementi emersi non siano così importanti o, perlomeno, non siano così rilevanti ai fini della decisione. fondamentale, e quasi metafora, di una ricerca laica e tollerante della verità praticata attraverso i modi dell’argomentazione e della persuasione”. Così il Dott. Gianrico Carofiglio, “L’arte del dubbio”, 2007, Sellerio Editore Palermo, pagg. 221-222. 4 Dott. Gianrico Carofiglio, “L’arte del dubbio”, 2007, Sellerio Editore Palermo, pagg. 18-19. Il messaggio che si intende fornire ai giudici è il seguente: “il teste ha detto effettivamente qualcosa di non favorevole alla mia posizione, ma si tratta di qualcosa meno importante o, comunque, meno coerente di quanto potesse apparire all’inizio. La deposizione di questo teste ha un rilievo marginale e non è in grado di incidere in modo determinante sulla decisione”5 . Il secondo metodo mira invece a rendere poco credibile la deposizione, screditando il teste che l’abbia resa. E’ dunque un metodo indiretto, rivolto esclusivamente alla distruzione della credibilità del teste, insinuando il dubbio sulla falsità o inesattezza di quanto asserito, essendo il teste proclive a dichiarare il falso. Si pensi al caso in cui la deposizione venga resa da un teste già condannato per falsa testimonianza, calunnia o simulazione di reato: la scarsa attendibilità del teste si ripercuoterà necessariamente sulle dichiarazioni rese dallo stesso, inducendo a ritenere che possa aver con tutta probabilità dichiarato il falso anche in tale occasione. Il terzo metodo è quello classificabile come distruttivo per eccellenza, idoneo ad elidere l’intera deposizione resa (o parte di essa), dimostrando l’assoluta falsità o inesattezza di quanto asserito in sede di esame diretto. E’ senza dubbio il metodo da preferire quando ci siano concrete possibilità di successo, potendo annullare l’intero effetto probatorio sfavorevole già conseguito a seguito dell’esame diretto. Una volta decisa la strategia da adottare e l’obiettivo da perseguire, occorre passare ad un altro, fondamentale, problema: quale tecnica utilizzare ed in che modo rivolgere le domande al teste. Anche il questo caso si rende necessaria una breve chiosa: la categoria dei testimoni è particolarmente eterogenea e variegata, e di questo occorrerà tener conto nella scelta della tecnica da utilizzare. E’ impensabile esaminare o controesaminare allo stesso modo un testimone oculare, un testimone indiretto, un collaboratore di giustizia, un minorenne, la persona offesa e l’imputato. Si tratta di figure processuali così eterogenee da imporre per ciascuna di esse l’utilizzo di una specifica tecnica, che tenga conto delle relative peculiarità della persona da esaminare. Non essendo questa la sede più opportuna per esaminare tutte le possibili tecniche utilizzabili per ciascun tipo di teste, ci si limiterà a brevi considerazioni di ordine generale. La fondamentale alternativa che si pone nell'impostazione e nella conduzione del controesame è rappresentata dalla scelta dualistica fra domande a struttura aperta e domande a struttura chiusa. Per domande a struttura aperta, o a carattere generale, si intendono quegli interrogativi formulati in modo così generico da consentire al teste un ampio margine di discrezionalità in ordine ai fatti da narrare. Non è infrequente che l’esame diretto venga introdotto con domande quali “Ci può riferire cosa è accaduto quel giorno?” oppure “Ci può riferire in merito alle indagini 5 Dott. Gianrico Carofiglio, “L’arte del dubbio”, 2007, Sellerio Editore Palermo, pag. 33. svolte?”, favorendo il più delle volte vaniloqui e risposte confuse, spesso connotate da divagazioni prive di alcun valore probatorio. E’ evidente come questa tecnica presenti un altissimo rischio di ottenere risposte sfavorevoli, con effetti spesso catastrofici per la parte che ha condotto l’esame. Le domande a struttura chiusa sono caratterizzate da un maggior grado di specificità, consentendo all’esaminatore di circoscrivere l’ambito della risposta, evitando di lasciare all’esaminato un eccessivo margine di discrezionalità in ordine ai fatti da narrare. In questa tipologia di domande rientrano le c.d. “domande suggestive”, vietate nell’esame condotto dalla parte che ha chiesto l’esame del teste e da quella che ha un interesse comune, ed ammesse nel solo controesame al fine di saggiare la credibilità del teste e l’attendibilità della sua deposizione. Tendenzialmente, vanno considerate domande suggestive tutte quelle idonee a suggerire la risposta al teste o, più in generale, influire sulla spontaneità dei suoi meccanismi mnemonici e rievocativi. Sebbene tale distinzione possa apparire agevole sul piano teorico, gli studiosi di psicologia giuridica conoscono perfettamente le molteplici possibilità di influenzare le risposte del teste, anche solo utilizzando un tono particolarmente rassicurante o formulando i quesiti in modo assertivo, rendendo in concreto assai arduo individuare il carattere potenzialmente suggestivo di una domanda. Dalle domande suggestive in senso stretto, vanno poi distinte le c.d. “leading questions”, ovvero le domande guidanti, capaci di porre il testimone nell’alternativa secca di rispondere sì o no alla domanda rivoltagli. Appare superfluo evidenziare come, quando le circostanze lo consentano, in sede di controesame, alle domande suggestive sia senz’altro da preferire l’uso di domande guidanti, per il più alto grado di controllo da parte dell’esaminatore sulle risposte che potranno essere fornite dall’esaminato. L’uso delle domande guidanti rende tuttavia necessario il ricorso ad una struttura sintattica elementare ed una semplificazione narrativa. In altre parole, ogni domanda guidante dovrà contenere un solo fatto o un solo concetto, rendendo così necessario scomporre un fatto complesso in tanti segmenti interrogativi, ciascuno corrispondente ad una frazione elementare dello stesso. E’ necessario, infatti, evitare la trasformazione della leading question in una narrazione articolata di una sequenza di fatti, seguita da una locuzione interrogativa. Solo in questo modo potrà avere senso narrativo e funzione conoscitiva una sequenza di risposte circoscritte al sì o al no. 6 Particolare attenzione dovrà essere rivolta al modo in cui le domande stesse andranno formulate: anche a questo proposito, è evidente come non esista un solo modo di porre i quesiti al teste, così come non ne esiste uno migliore in assoluto, dovendo anche il tono delle domande essere rapportato e finalizzato all’obiettivo che si intende conseguire. Il controesame di tipo prevalentemente distruttivo è spesso connotato dall’uso di un tono particolarmente aggressivo da parte dell’esaminatore, volto a screditare il 6 Dott. Gianrico Carofiglio, “L’arte del dubbio”, 2007, Sellerio Editore Palermo, pag. 123. teste o la deposizione dallo stesso resa. Viceversa, ogni qualvolta l’esaminatore avrà come obiettivo primario quello di ottenere risposte favorevoli dal teste, andrà privilegiato un tono moderato, sereno ed il più possibile rassicurante. In linea generale, è dunque da privilegiare, almeno nelle fasi iniziali, il controinterrogatorio “morbido” a mezzo del quale si cercherà di acquisire maggiori notizie sugli argomenti che hanno già formato oggetto delle domande e delle risposte nel corso dell’esame diretto. Solo una volta ottenute tutte le informazioni necessarie per poter procedere ad un controesame distruttivo, screditando il teste o confutando la deposizione già resa, sarà possibile ricorrere a domande dirette poste in modo più deciso ed aggressivo, seppur dosando saggiamente l’enfasi ed evitando toni offensivi o denigratori, che esporrebbero lo stesso esaminatore ad una perdita di credibilità, con conseguente riduzione o elisione della propria capacità di persuasione nei confronti del giudice. In conclusione, è necessario rimarcare l’importanza fondamentale delle strategie e delle tecniche di esame e controesame. Lungi dal costituire inutili orpelli, esse costituiscono invero un indefettibile strumento di persuasione e convincimento, necessarie per sfruttare al meglio le effettive potenzialità dell’esame incrociato. Giugno 2008 – Riproduzione riservata. Dott. Francesco Morelli – Foro di Trani

Pubblicazione legale

La guida in stato di ebbrezza alla luce della recente evoluzione normativa e giurisprudenziale

Pubblicato su IUSTLAB

Estratto della nota alla sentenza di Cass. pen. Sez. IV, 15-05-2008, n. 19486 realizzata dal dott. Francesco Morelli nel mese di ottobre 2008 e pubblicata sul numero di novembre 2008 della rivista “Strumentario Avvocati – Rivista di Diritto e Procedura Penale” edito da Diritto Italia S.r.l. e diretto dal dott. Luigi Levita, Magistrato ordinario presso il Tribunale di Napoli. LA GUIDA IN STATO DI EBBREZZA ALLA LUCE DELLA RECENTE EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE di Francesco Morelli 1. Premesse generali e cenni sulla disciplina previgente L’Italia detiene il triste primato europeo del maggior numero di incidenti stradali, registrando un tasso praticamente doppio rispetto a Paesi quali Gran Bretagna, Olanda e Svezia. Le recenti statistiche diffuse dall’ISTAT nel dicembre 2007 attestano come ogni giorno nel nostro Paese si verifichino in media 652 incidenti stradali, provocando la morte di 16 persone e il ferimento di altre 912. Nel complesso, nell’anno 2006 sono stati rilevati 238.124 incidenti stradali, che hanno causato il decesso di 5.669 persone, mentre altre 332.955 hanno subito lesioni di diversa gravità. Per arginare questo dilagante fenomeno di massa, si è deciso di intervenire introducendo norme di forte impronta repressiva, con l’ambizioso obiettivo di dimezzare entro il 2010 il tasso di mortalità sulle strade, conformemente a quanto stabilito dal libro bianco sui trasporti, adottato dalla Commissione europea il 12 settembre 2001. Nei numerosi documenti presentati dalle varie istituzioni dell’Unione europea in materia di circolazione stradale emerge, in modo inequivocabile, la rilevanza dell’alcool nel verificarsi dei sinistri stradali. Nonostante le stime diffuse dall’Istituto Nazionale di Statistica indichino come solo il 2% degli incidenti stradali sia direttamente addebitabile all’ingestione di sostanze alcooliche o stupefacenti da parte del conducente, è indubitabile come tali sostanze alterino in modo spesso significativo lo stato psico-fisico del guidatore, costituendo così un serio fattore di rischio per la sicurezza stradale. La progressiva presa di coscienza del fenomeno ha suscitato una profonda attenzione da parte del legislatore, che è intervenuto a più riprese con una legislazione alluvionale, costituita da plurimi interventi legislativi che non sempre si sono distinti per efficacia, peccando spesso di una scarsa organizzazione e coordinazione. In proposito, basti pensare che dal 1 gennaio 1993, data in cui è entrato in vigore il nuovo codice della strada, tra decreti ministeriali, leggi di conversione e provvedimenti di varia natura, si sono susseguiti ben cinquantotto interventi normativi che hanno mutato profondamente la struttura originaria del codice, il più delle volte in modo estemporaneo e corrivo. Nonostante il nobile obiettivo perseguito dal legislatore, è da segnalare come i vari provvedimenti siano stati adottati in modo quasi empirico, introducendo riforme e valutando i risultati ottenuti, con successivi ripensamenti nel caso non fossero stati raggiunti in breve tempo i risultati sperati. Ne sono un esempio la stessa competenza dell’autorità giudiziaria, passata dal giudice di pace al tribunale monocratico, o il rifiuto da parte del conducente di sottoporsi all’accertamento, trasformato da reato ad illecito amministrativo e viceversa. Il frutto di questa disordinata tecnica normativa è una disciplina che, sotto molteplici profili, presta il fianco a critiche di vario genere, suscitando non poche difficoltà ermeneutiche ed incertezze procedurali negli operatori del settore chiamati ad applicarla e, ancor più, nei cittadini chiamati a rispettarla. 2. La qualificazione dello stato di ebbrezza e gli effetti sulla capacità di guida Sotto il profilo giuridico, per stato di ebbrezza si intende, in modo non dissimile dalla scienza medica, una condizione fisiopsichica transitoria dovuta all’ingestione di bevande alcooliche, inducente nell’individuo uno stato di alterazione dei processi cognitivo - reattivi, tale da annebbiare semplicemente le facoltà mentali, incidendo sulla prontezza dei riflessi, senza che ciò debba importare necessariamente la perdita, totale o parziale, della capacità di intendere o di volere, ovvero la degradazione completa della personalità. Com’è noto, gli effetti dell’ingestione di sostanze alcooliche variano da soggetto a soggetto, essendo strettamente connesse alla sua corporatura, alla tolleranza individuale, al sesso, al metabolismo, al tipo di sostanza alcoolica ingerita, ed alle sue modalità di assunzione (a stomaco pieno o a digiuno). Proprio per le ragioni anzidette, il parametro di riferimento adottato dal legislatore per valutare lo stato di ebbrezza non è rappresentato dalla quantità di alcool assunta, bensì da quella assorbita dal sangue, misurata in grammi per litro (g./l.). Si tratta con tutta evidenza di una presumpio iuris et de iure, che porta a ritenere il soggetto in stato di ebbrezza ogniqualvolta venga accertato il superamento della soglia di alcolemia massima consentita, senza alcuna possibilità da parte del conducente di discolparsi fornendo una prova contraria circa le sue reali condizioni psicofisiche e la sua idoneità alla guida. La determinazione del tasso massimo di alcolemia (TA) consentito è stato negli ultimi anni oggetto di molta attenzione da parte della Commissione delle Comunità Europee che, con provvedimento n. 2001/115/CE del 17 gennaio 2001, ha raccomandato a tutti gli Stati membri l'adozione di un limite pari a 0,5 mg/ml per tutti i conducenti e pari a 0,2 per i guidatori inesperti e per coloro che conducono veicoli a due ruote, veicoli di trasporto delle merci (con massa superiore a 3,5 tonnellate lorde), autobus (con più di otto posti) e veicoli che trasportano merci pericolose. La risposta del legislatore nazionale non si è fatta attendere: con decreto legge 20 giugno 2002, n.121, e successiva legge di conversione 1 agosto 2002, n. 168 rubricata “Disposizioni urgenti per garantire la sicurezza nella circolazione stradale”, si è prevista la riduzione del tasso massimo di alcolemia consentito, portandolo dagli originari 0.8 g./l. agli attuali 0,5 g./l.. Nel tentativo di arginare le stragi del sabato sera e contenere l’aumento del numero delle vittime di incidenti stradali si è poi provveduto, con D.L. 3 agosto 2007, n. 117 convertito con modificazioni dalla Legge 2 ottobre 2007, n. 160, ad introdurre un elemento di straordinaria novità ed importanza, rappresentato dalla previsione di tre fasce di ebbrezza alcoolica, cui corrispondono conseguenze sanzionatorie diverse in relazione al tasso di concentrazione etilica accertato. A seguito delle modifiche apportate dal decreto legge 92/2008 e dalla successiva legge di conversione 24 luglio 2008, n. 125, il testo vigente è così schematizzabile: a) Qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 grammi per litro (g/l), è prevista l’ammenda da euro 500 a euro 2000, e la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da tre a sei mesi; b) Qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), è prevista l’ammenda da euro 800 a euro 3.200 e l’arresto fino a sei mesi. All’accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno; c) Qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), è prevista l’ammenda da euro 1.500 a euro 6.000, l’arresto da tre mesi ad un anno e la sospensione della patente di guida da uno a due anni. La patente di guida è sempre revocata, ai sensi del capo I, sezione II, del titolo VI, quando il reato è commesso dal conducente di un autobus o di un veicolo di massa complessiva a pieno carico superiore a 3,5t. o di complessi di veicoli, ovvero in caso di recidiva nel biennio. Ai fini del ritiro della patente si applicano le disposizioni dell’articolo 223. Con la sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena a richiesta delle parti, anche se è stata applicata la sospensione condizionale della pena, è sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato ai sensi dell’articolo 240, secondo comma del codice penale, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato. Il veicolo sottoposto a sequestro può essere affidato in custodia al trasgressore, salvo che risulti che abbia commesso in precedenza altre violazioni della disposizione di cui alla presente lettera. Si è in tal modo parzialmente adeguata la nostra legislazione agli obblighi comunitari, anche in conseguenza di una presa d’atto dei pericoli connessi all’abuso di bevande alcoliche, tra i quali non solo una minore abilità nella guida dovuta ad un rallentamento dei riflessi, quanto soprattutto alla tendenza a guidare a velocità più sostenuta, effetti che si verificano anche a bassi tassi alcoolemici ed in assenza di segni clinici evidenti. L’individuazione del tasso di alcolemia massimo consentito è il risultato di una precisa scelta normativa, ricollegata ai risultati di studi condotti nell’ambito della medicina legale e tossicologia forense, che hanno dimostrato come al variare del tasso di alcolemia presente nel sangue si ottengano delle proporzionali variazioni psico-fisiche idonee a mettere a repentaglio la sicurezza stradale e l’incolumità del guidatore. Più precisamente, la letteratura scientifica ha dimostrato come al raggiungimento di un tasso di alcolemia pari a 0,2 g/l consegue una maggiore socievolezza ed espansività; al superamento dei 0,5 g./l. una diminuzione dei freni inibitori per azione sulla corteccia cerebrale, disinibizione, euforia, apparenza normale; ad un tasso compreso tra 0,8 e 1,2 g./l. si verifica una vera e propria azione depressiva sui centri motori, perdita di autocontrollo e disturbi dell’equilibrio; ed infine, ad un tasso uguale a superiore a 1,5 g./l. si può parlare di vera e propria ubriachezza, con gravi ripercussioni sulle condizioni psico-fisiche del conducente. 3. Modalità di accertamento dello stato di ebbrezza Se ben chiari risultano gli effetti determinati dall’assunzione dall’alcool sulla capacità di guida, non altrettanto può dirsi per le modalità attraverso cui è possibile verificare il superamento da parte del conducente del tasso di alcolemia massimo consentito dalla legislazione vigente. Serie difficoltà ermeneutiche in relazione alle modalità di accertamento dello stato di ebbrezza, già presenti sotto l’egida della formulazione previgente della norma, sono emerse soprattutto a seguito della novella introdotta con decreto legge 3 agosto 2007 n. 117, convertito con legge 2 ottobre 2007 n. 160, recante “Disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza nella circolazione”. Seconda una prima interpretazione, in voga tra i difensori ma anche presso qualche ufficio giudiziario, poiché la nuova norma incriminatrice utilizza l’espressione “qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore…” ai livelli sopra indicati, si dovrebbe ritenere che lo stato di ebbrezza debba necessariamente essere accertato e misurato coi mezzi previsti dal medesimo codice della strada, ossia con l’etilometro ovvero con mezzi ancora più precisi, come l’esame del sangue. In difetto, si dovrebbe assolvere per carenza di prova sull’elemento materiale del reato. Questa interpretazione ha trovato riscontro nella giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Aosta 25.10.2007 che ha assolto ai sensi dell’art. 129 c.p.p. l’imputato perché il fatto non costituisce più reato sulla base della seguente motivazione: “attesa la chiara attuale formulazione dell’art. 186 c.s., formulato in modo da presupporre l’accertamento dello stato di ebbrezza tramite l’alcoltest”). L’assunto è, tuttavia, ben presto apparso manifestamente infondato per dirimenti motivi testuali, sistematici e desumibili dalla ratio legis. In primo luogo, si è osservato come la norma incriminatrice in esame (art. 186, co.2, C.d.s.), sebbene faccia riferimento alla necessità di un “accertamento”, non indichi, tuttavia, le modalità attraverso cui questo debba avvenire, legittimando in tal modo la possibilità di ricorrere ad un accertamento puramente indiziario, seppur conforme ai requisiti di gravità, precisione e concordanza stabiliti dall’art. 192, comma 2, c.p.p. Alle medesime conclusioni deve giungersi avendo riguardo all’art. 379 del regolamento di attuazione ed esecuzione del codice della strada che, com’è noto, disciplina le modalità di accertamento, prevedendo che esso “si effettua mediante l’analisi dell’aria alveolare espirata: qualora, in base al valore della concentrazione di alcool nell’aria alveolare espirata, la concentrazione alcoolemica corrisponda o superi 0,5 grammi per litro (g/l), il soggetto viene ritenuto in stato di ebbrezza”. La norma in questione, tuttavia, da un lato non considera dirimente neppure l’accertamento con l’etilometro, tanto da prevedere la necessità di procedere ad accertamenti scientificamente più attendibili, quali l’esame del sangue ad opera delle strutture sanitarie di base, in particolare in caso di incidente (cfr. comma 5 art. 186) e, dall’altro, comunque, impone agli agenti operatori di indicare “le circostanze sintomatiche dello stato di ebbrezza, desumibili in particolare dallo stato del soggetto e della condotta di guida” (cfr. art. 379, comma 2 reg.) e ciò, si badi bene, sia nel caso in cui si sia comunque proceduto all’accertamento con l’etilometro sia nel caso in cui l’interessato si sia rifiutato di sottoporsi alla prova. Questa norma, rimasta immutata a seguito della riforma, mostra come per il legislatore lo stato di ebbrezza possa essere accertato, anche in assenza di misurazione, appunto attraverso le c.d. circostanze sintomatiche. Si badi, peraltro, come la norma attualmente in vigore, in modo non dissimile da quella previgente, renda facoltativi gli accertamenti strumentali da parte degli agenti, senza che questi abbiano l’obbligo di effettuarli: il comma 3, infatti, prevede che gli organi di Polizia stradale, secondo le direttive del Ministro dell’Interno, nel rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per l’integrità fisica, “possono” sottoporre i conducenti ad accertamenti qualitativi e non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili, e quindi, in presenza di esito positivo, hanno la “facoltà” di effettuare l’accertamento con strumenti e procedure determinati dal regolamento, anche accompagnando l’interessato presso il più vicino ufficio o comando (comma 4, art. 186 C.d.s.). D’altra parte, secondo quanto sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria, la previsione di fattispecie di reato di gravità crescente a seconda delle fasce sopra indicate di tasso alcolemico non intacca in alcun modo la validità delle argomentazioni accolte dalle Sezioni Unite, nella sentenza 27.09.1995 (in Guida dir. 1996, 93), a sostegno della possibilità di accertamento con qualsiasi mezzo dello stato di ebbrezza e sintetizzabili nel principio del libero convincimento del giudice, stante l’assenza nell’ordinamento processuale penale, a differenza di quello civile, di prove legali al cui contenuto il giudice sia tenuto a prestare osservanza, potendo egli dissentire persino dalla confessione, sempre che ne dia logica spiegazione in motivazione, e potendo dunque accertare i fatti e ritenere raggiunta la prova con qualsiasi mezzo, purché non sia contrario a divieti di legge e, come tale, inutilizzabile ex art. 191, co.1, c.p.p. Come la più recente giurisprudenza della Cassazione non ha mancato di osservare, occorre, tuttavia, che “gli elementi sintomatici di tale stato siano significativi, al di là di ogni ragionevole dubbio, di un’assunzione di bevande alcoliche in quantità tale che si possa affermare il superamento della soglia prevista dalla legge, non bastando al riguardo l’esistenza di elementi sintomatici di significato ambiguo” (cfr. Cass., 13.07.2005, nr. 36922, con riferimento ad un caso in cui gli elementi sintomatici evidenziati dalla testimonianza dell’agente operante erano limitati, da un lato, al fatto che l’imputato “non sembrava molto in sé”, elemento questo non necessariamente riferibile all’uso di bevande alcoliche e, dall’altro, all’ “alito vinoso”, elemento riconducibile all’uso di bevande alcoliche ma non necessariamente in quantità tali da consentire l’accertamento, oltre ogni ragionevole dubbio, del superamento della soglia penalmente rilevante). Al riguardo deve peraltro aggiungersi che la giurisprudenza di legittimità più recente ha chiarito come la possibilità per il Giudice di avvalersi, ai fini dell’affermazione della sussistenza dello stato di ebbrezza, delle sole circostanze sintomatiche riferite dagli agenti accertatori, va circoscritta alla fattispecie meno grave, quella di cui all’art. 186 C.d.S., comma 2, lett. a), imponendosi per le ipotesi più gravi l’accertamento tecnico del livello effettivo di alcol nel sangue (cfr. Cass. pen. Sez. IV, 15-05-2008, n. 19486). 4. La valutazione degli elementi sintomatici e relativi problemi applicativi Se i dubbi ermeneutici possono dunque dirsi, almeno parzialmente superati, permangono tuttora difficoltà connesse all’ambito applicativo, e più in particolare alla valutazione degli elementi sintomatici riscontrati dai verbalizzanti all’atto del loro intervento. I problemi che possono sorgere sono numerosi e meritano di essere esaminati attentamente. La prima questione attiene alle modalità attraverso cui è possibile accertare in modo sintomatico un tasso alcolemico compreso tra 0,5 e 0,8 g./l., idoneo ad integrare la fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 186, co.2, lett. a, C.d.s. Come già ricordato nel paragrafo n.2, dai succitati studi condotti nell’ambito della medicina legale e tossicologia forense, emerge con evidenza come un tasso di alcolemia compreso tra 0,5 e 0,8 g./l. sia di per sé idoneo a determinare solo uno stato di euforia e disinibizione da parte del soggetto, sintomi ambigui, senza dubbio non necessariamente riconducibili unicamente all’assunzione di sostanze alcooliche e, a fortiori, inidonei a costituire prova inequivocabile del superamento della soglia penalmente rilevante. Vieppiù, la tossicologia forense insegna che la percentuale di soggetti che manifestano sintomi clinici evidenti ed inconfondibili è solo del 10% al tasso di 0,8 g/l, del 30% al tasso di 1,0 g/l, del 55% a quello di 1,3 g/l, del 66% al tasso di 1,6 g/l, dell’80% al tasso di 1,8 g/l e raggiungono il 100% solo oltre il tasso di 2 g/l. Il problema si pone in modo drammatico proprio nei casi in cui l’accertamento avviene in via sintomatica o, per meglio dire, in via indiziaria sulla sola base delle circostanze sintomatiche riferite dai testi, perché in tal caso il Giudice non ha a disposizione una misurazione precisa del tasso alcolemico ottenuta mediante la strumentazione tecnica. In questi casi, ogniqualvolta sia ravvisabile una scarsa pregnanza delle circostanze sintomatiche riferite dai verbalizzanti, l’esito che si impone nella generalità dei casi è l’assoluzione, consentendo al giudice di pervenire ad una sentenza di condanna solo quando le circostanze sintomatiche risultino così indicative ed univoche da ritenere provato, oltre ogni ragionevole dubbio, il superamento della soglia di alcolemia massima prevista. Il principio del libero convincimento del giudice viene in questa materia ampliato a dismisura, potendo l’organo giudicante persino disattendere l’esito fornito dall’etilometro, ancorché risultante da due determinazioni del tasso alcoolemico concordanti ed effettuate ad intervallo di cinque minuti (cfr. Cassazione penale, SS.UU., 27 settembre 1995, n. 1299, Cirigliano), in tal modo aggravando i rischi di errore insiti nelle argomentazioni induttive, fondate, nella materia in esame, il più delle volte sulle sole dichiarazioni rese dai verbalizzanti. A quest’ultimo proposito, appare opportuno evidenziare l’ulteriore problema rappresentato dalla valutazione discrezionale dei sintomi riscontrati da parte dei pubblici ufficiali: il verbale da essi redatto a seguito del controllo, spesso contenente formule stereotipate e generiche, non dovrebbe ritenersi assistito da fede privilegiata, in quanto le dichiarazioni in esso riportate attengono ad una percezione sensoriale dei verbalizzanti implicante margini di apprezzamento, e come tali suscettibili di contestazione senza necessità di proposizione della querela di falso (cfr. Cassazione Civile, Sezione Seconda, 17 ottobre 2005, n.21367). Non sono mancate, tuttavia, pronunce con le quali la Suprema Corte ha precisato come l’alito vinoso, percepito da testimoni, non costituisca un mero apprezzamento soggettivo o una valutazione personale, bensì un fatto oggettivo, percepito dal testimone "ex propriis sensibus" (per mezzo dell’olfatto), utilizzabile al fine di prova e avente valenza non difforme da quella riconoscibile alla percezione “de visu” di una determinata circostanza (cfr. Cassazione penale , sez. IV, 25 gennaio 2006, n. 20236). Ciò nonostante, il ricorso ai principi fondamentali che informano il nostro sistema processuale penale impongono di ritenere l’accertamento meramente sintomatico idoneo ad assurgere al rango di prova dello stato di ebbrezza solo quando vengano riportate circostanze oggettive, non implicanti alcuna valutazione o margine di apprezzamento da parte dell’agente verbalizzante. In caso contrario l’accertamento compiuto dai verbalizzanti ben potrà risultare fallace, dovendo pertanto costituire mero indizio e non potendo assurgere al rango di prova certa dello stato di ebbrezza, con la conseguenza che al conducente dovrà essere data la possibilità di provare con ogni mezzo l’erroneità della valutazione effettuata dai verbalizzanti. La soluzione per ovviare al problema potrebbe essere quella di munire gli agenti di sistemi di videoripresa, in modo da poter successivamente ricorrere ad una perizia o consulenza tecnica che, alla presenza del difensore della persona accusata, consenta a personale qualificato, quali esperti tossicologici o personale medico specializzato, di valutare se i sintomi manifestati dal conducente possano ritenersi inequivocabilmente connessi ad uno stato di ebbrezza, riducendo in tal modo sensibilmente le possibilità di errore, il tutto anche in caso di impossibilità o rifiuto di sottoporsi ad accertamenti. Tuttavia, almeno fino ad oggi, non risulta che proposte simili siano mai state portate all’attenzione del nostro legislatore. Un altro problema che merita di essere evidenziato è rappresentato dal tempo intercorrente tra la guida del veicolo ed il momento in cui il conducente viene effettivamente sottoposto a controllo. Il problema si pone con particolare riferimento a quelle ipotesi, soprattutto di sinistri stradali previste dal comma 2-bis e 5 dell’art. 186 C.d.s., nelle quali l’intervento degli agenti e la sottoposizione a controllo del conducente si verificano talvolta a distanza di molto tempo. Com’è noto, il tasso alcolemico presente nel sangue si riduce con il passare del tempo, risultando dunque difficile accertare quale fosse l’esatto valore etilico al momento del verificarsi del sinistro stradale. Ma soprattutto, sebbene possa sembrare un’ipotesi limite, è ben possibile che il conducente assuma subito dopo l’incidente sostanze alcooliche: una volta giunti sul posto i verbalizzanti e sottoposto il soggetto a controllo etilometrico, verrebbe riscontrato lo stato di ebbrezza, ma ciò non costituirebbe prova del fatto che il soggetto fosse ebbro nel momento in cui si trovava alla guida della propria autovettura né, tantomeno, nel frangente del sinistro stradale, cosicché risulterà assai arduo stabilire, oltre ogni ragionevole dubbio, quale fosse il tasso alcolemico presente al momento dell’incidente e, conseguentemente, il giudice ben difficilmente potrà addivenire ad una sentenza di condanna per guida in stato di ebbrezza. Ad analoghe conclusioni dovrebbe giungersi nel caso in cui il conducente, fermato alla guida della propria autovettura, scenda dall’auto ed assuma sostanze alcooliche in presenza dei verbalizzanti prima di sottoporsi al controllo etilometrico. E’ evidente come in questo caso, salva la riconducibilità della condotta nell’alveo dell’art. 374 c.p. (ed eventuale riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 384 c.p.), il conducente potrà, verosimilmente, andare esente da qualunque condotta penalmente rilevante. Non va del resto sottaciuto come la rilevazione effettuata dalla Pubblica autorità con la strumentazione in loro dotazione e basata sull’analisi dell’area alveolare espirata, si è in più di una occasione prestata ad essere oggetto di critiche e dubbi con riferimento alla reale attendibilità delle rilevazioni. Senza voler in questa sede esaminare la sterminata casistica in materia, sembra opportuno evidenziare che, qualora il test con l’etilometro venga eseguito entro 20 minuti dall’assunzione di alcool, lo strumento misurerà non solo l’aria alveolare espirata, ma anche i vapori d’alcool presenti nel tratto orale-esofageo, fornendo misurazioni falsate per eccesso. Ad analoghe conclusioni può giungersi nel caso in cui il soggetto, poco tempo prima di sottoporsi all’esame, abbia rigurgitato quanto ingerito: anche tale circostanza è idonea a fornire misurazioni fallaci, perché il reflusso di aria e liquidi gastrici contengono alcool in quantità maggiore a quella realmente presente in circolo. Né vanno trascurate le condizioni fisiche del soggetto, potendo alcuni farmaci e talune patologie broncopolmonari alterare il rapporto esistente tra la concentrazione ematica di alcol e quella respiratoria. Infine, vi è la possibilità che il soggetto possa risultare positivo al test subito dopo aver fatto uso di determinati medicinali, colluttori, spray boccali, e persino dolciumi contenenti piccole quantità di liquore. Da accertamenti effettuati dalla Polstrada di Rimini, è infatti emerso come ci siano attualmente in commercio ben 59 colluttori e 41 sciroppi a base alcoolica, tendenzialmente idonei ad alterare il tasso alcolemico rilevato dall’etilometro. Sebbene tali sostanze contengano minime quantità di alcool, risultando così inidonee ad influire su una misurazione ematica, è tuttavia possibile che un test spirometrico eseguito nei minuti immediatamente successivi all’assunzione possa essere influenzato dai vapori d’alcool presenti nel tratto orale ed esofageo. Per evitare il rischio di ottenere risultati inattendibili, sarà dunque opportuno eseguire il test dopo circa 20 minuti dall’assunzione delle predette sostanze, in modo tale da ridurre al minimo il rischio di misurazioni fallaci. In proposito, giova evidenziare come l’art. 379 del Regolamento preveda che la concentrazione etilica debba risultare da almeno due determinazioni concordanti effettuate ad un intervallo di tempo di 5 minuti; tuttavia, si ritiene che il predetto spatium temporis richiesto dalla norma regolamentare sia da qualificarsi come intervallo minimo; di talché, mentre risulta illegittimo il risultato della prova effettuato a distanza di meno di 5 minuti dalla prima, è invece da considerarsi lecito, oltre che auspicabile, che la seconda prova venga effettuata dopo un intervallo pari o superiore a 20 minuti, in modo da ridurre al minimo le possibilità di ottenere misurazioni fallaci. Con ciò non si intende certamente sostenere l’assoluta inattendibilità delle verifiche strumentali effettuate dalla Pubblica Autorità, quanto piuttosto evidenziare come le misurazioni spirometriche, basate sulla concentrazione alcolica presente nell’area alveolare espirata dal soggetto, così come più in generale tutte le misurazioni legate al tratto orale-esofageo (es. esame della saliva), possano essere influenzate da più fattori, rendendo necessario valutare criticamente ed attentamente i risultati di volta in volta ottenuti, attribuendo al conducente il diritto, seppur nella maggior parte dei casi estremamente gravoso, di discolparsi fornendo prova del malfunzionamento dell’etilometro o comunque l’inattendibilità delle risultanze del test cui è stato sottoposto. 5. La necessità del consenso all’accertamento e le conseguenze in caso di rifiuto La completa riformulazione dei primi due periodi del comma 7 dell’art. 186 C.d.S. operata dall’art. 4 del D.L. 23 maggio 2008 n. 92, ha comportato la reintroduzione del reato di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti di cui ai commi 3, 4 e 5 che, per effetto del D.L. 117/2007, convertito in L. 2.10.2007 n. 160, era stato trasformato in illecito amministrativo. Sotto l’egida della formulazione previgente, il rifiuto di sottoporsi all’accertamento era punito con una mera sanzione amministrativa compresa tra euro 2.500,00 ed euro 10.000,00, o tra euro 3.000,00 ed euro 12.000,00 nel caso in cui la violazione fosse stata commessa a seguito di un sinistro stradale. Nelle intenzioni del legislatore, probabilmente sottovalutando la portata del fenomeno e le conseguenze a cui ciò avrebbe condotto, l’ingente importo della sanzione amministrativa avrebbe dovuto costituire un efficace deterrente, grazie al quale il conducente si sarebbe sottoposto alle necessarie verifiche per evitare di incorrere in un notevole esborso economico. Tuttavia, il pericolo di un amplissimo spettro di assoluta impunità, derivante dall’impossibilità per l’accusa di acquisire una importante prova di colpevolezza dell’indagato, e la scarsa efficacia deterrente dimostrata dalle numerose contestazioni elevate nel periodo di vigenza della norma, hanno indotto il legislatore ad una rapida inversione di marcia, attraverso la reintroduzione, a pochi mesi dall’intervenuta abolitio criminis, del reato di rifiuto di sottoporsi alle verifiche. La nuova norma stabilisce che nei confronti di chi si rifiuta di sottoporsi all’accertamento debba applicarsi la stessa pena prevista dal comma 2, lettera c), analogamente a quanto avverrebbe qualora fosse accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro. Il conducente sarà dunque punibile con l’ammenda da euro 1.500 a euro 6.000, l’arresto da tre mesi ad un anno, nonché la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un periodo da sei mesi a due anni e la confisca del veicolo con le stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lettera c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione. Con l’ordinanza con la quale è disposta la sospensione della patente, il prefetto ordina che il conducente si sottoponga a visita medica secondo le disposizioni del comma 8. Se il fatto è commesso da soggetto già condannato nei due anni precedenti per il medesimo reato è sempre disposta la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida. A seguito della novella legislativa, il reato di cui all’art. 186 C.d.S., comma 7 deve ritenersi integrato al momento della manifestazione del rifiuto, indipendentemente dalle ragioni dello stesso e persino nel caso in cui in conducente abbia ammesso di trovarsi in stato di ebbrezza, giacché l’ammissione di responsabilità non esclude la necessità dell’esame clinico. Secondo quanto chiarito dalla Suprema Corte, infatti, l’ammissione di responsabilità dell’imputato non elimina l’interesse all’accertamento, non solo perché è proprio il risultato dell’esame clinico ad assumere valore probatorio preminente e necessario ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’imputato, ma anche perché esso rileva per la determinazione in concreto della pena da infliggere (Cassazione penale , sez. IV, 08 febbraio 2006, n. 26744). Perché il reato possa dirsi integrato, occorre tuttavia che la richiesta di accertamento da parte dei verbalizzanti sia legittima e conforme ai criteri stabiliti dall’art. 186 C.d.s., con particolare riferimento al rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per l’integrità fisica del soggetto sottoposto a controllo. A tale ultimo riguardo, delicati problemi si pongono con riferimento al prelievo ematico coattivo o, più in generale, alla necessità del consenso da parte del conducente coinvolto in incidenti stradali e sottoposto alle cure mediche a seguito delle lesioni riportate. Il problema si pone soprattutto in quanto il comma 5 dell’art. 186 C.d.s. attribuisce agli organi di Polizia Stradale la possibilità di richiedere l’accertamento del tasso alcolemico da parte delle strutture sanitarie per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche, senza precisare se tale accertamento sia subordinato al consenso dell’interessato. Il tema risulta particolarmente importante in ragione dei contrapposti interessi in gioco: da un lato vi è la necessità di acquisire ogni elemento utile per valutare l’eventuale colpevolezza del soggetto, mentre dall’altro vi sono principi costituzionalmente garantiti tra i quali l’inviolabilità della libertà personale e la libertà di scegliere se sottoporsi o meno ad un trattamento sanitario, previsti rispettivamente dagli artt. 13 e 32 della Costituzione. La giurisprudenza è in più occasioni intervenuta in materia per precisare come il prelievo ematico possa essere effettuato in assenza di consenso dell’interessato solo nell’ambito di un protocollo medico di pronto soccorso e quando necessario a fini sanitari (cfr., ex plurimis, Cassazione penale, sez. IV, 09 dicembre 2004, n. 4862). La misurazione del tasso alcolemico sarà, in questi casi, pienamente legittima e dunque utilizzabile ai fini probatori, indipendentemente dal consenso del soggetto sottoposto alle cure del personale sanitario. Al di fuori di queste ipotesi tassativamente previste, l’accertamento potrà avvenire esclusivamente previo consenso da parte dell’interessato, in assenza del quale i risultati eventualmente ottenuti dovranno considerarsi illegittimamente acquisiti e dunque inutilizzabili ex art. 191 c.p.p., potendo anche comportare una eventuale responsabilità penale per lesioni personali o violenza privata a carico del personale medico che abbia eseguito il prelievo in violazione di legge. La facoltà di accompagnamento per gli accertamenti sanitari, previsto dal Codice della Strada, si concretizza dunque esclusivamente nella possibilità, accordata all’organo di Polizia, di invitare il soggetto a sottoporsi al controllo sanitario; non rientrando quest’ultimo tra le misure restrittive della libertà personale, non è pertanto possibile disporre l’accompagnamento coattivo nel caso in cui la persona rifiuti di sottoporsi alle verifiche sanitarie, potendo tale rifiuto comportare solo l’applicabilità delle sanzioni previste dal comma 7 dell’art. 186 C.d.s. 6. Conclusioni Con la sentenza n. 19486 del 15 maggio 2008, la Corte di Cassazione Penale è tornata ad occuparsi della vexata questio rappresentata dal reato di guida in stato di ebbrezza, foriero di contrasti giurisprudenziali e dottrinali fin dal momento della sua introduzione nel nostro ordinamento. Nonostante gli innumerevoli interventi normativi che si sono susseguiti in materia, la vigente disciplina in tema di stato di ebbrezza presenta ancora numerosi problemi esegetici e difficoltà applicative, probabilmente anche a causa dell’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza e provvedimenti tampone, il più delle volte caratterizzato da un inasprimento delle pene. Particolari problemi ermeneutici sono sorti soprattutto in relazione alle modalità di accertamento dello stato di ebbrezza: come più volte la Suprema Corte aveva avuto modo di affermare (cfr. ex pluribus Cassazione, sezione IV, 4 maggio 2004, Ciacci, Rv 229966; Cassazione, sezione IV, 9 giugno 2004, Rv 229087), lo stato di ebbrezza del conducente del veicolo poteva essere, ai fini della configurabilità del reato contravvenzionale in esame, accertato e provato con qualsiasi mezzo, e non necessariamente, né unicamente, mediante la strumentazione (etilometro) e le procedure indicate nel menzionato articolo 379 del D.p.r. 16 dicembre 1992, n. 495. In particolare, per il principio del libero convincimento, per l’assenza di prove legali e per la necessità che la prova non dipenda dalla discrezionale volontà della parte interessata, il giudice poteva dimostrare l’esistenza dello stato di ebbrezza sulla base dalle circostanze sintomatiche, desumibili in particolare dallo stato del soggetto (alterazione della deambulazione, difficoltà di movimento, eloquio sconnesso, alito vinoso) e dalla condotta di guida (che i verbalizzanti hanno il compito di indicare nella notizia di reato, ai sensi dell’articolo 347 del Cpp: si veda il comma 3 del citato articolo 379). A seguito del D.L. 3 agosto 2007, n. 117, il legislatore ha profondamente riformato il tessuto normativo dell’art. 186 C.d.s., depenalizzando il rifiuto di sottoporsi al test con l’etilometro ed introducendo tre distinti trattamenti sanzionatori in ragione tasso alcoolico “accertato”, ed è proprio quest’ultima locuzione ad aver suscitato i maggiori dubbi interpretativi tra gli addetti ai lavori. Seconda una prima interpretazione, in voga tra i difensori ma anche presso qualche ufficio giudiziario, poiché la nuova norma incriminatrice utilizza l’espressione “qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore…” ai livelli sopra indicati, si dovrebbe ritenere che lo stato di ebbrezza debba necessariamente essere accertato e misurato coi mezzi previsti dal medesimo codice della strada, ossia con l’etilometro ovvero con mezzi ancora più precisi, come prove ematiche, accertamento gas-cromatografico, il ricorso a metodiche su base elettrochimica o spettrofotometrica, o una certificazione medica effettuata presso una struttura sanitaria nell’ambito di un lecito trattamento terapeutico. In assenza di tali verifiche strumentali, non sarebbe possibile valutare il superamento del tasso alcolemico consentito e, dunque, si dovrebbe assolvere il conducente per carenza di prova sull’elemento materiale del reato. Si è così reso necessario un rapido ripensamento da parte del legislatore, che con il D.L. 23 maggio 2008 n. 92, ha reintrodotto il reato di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti di cui ai commi 3, 4 e 5 dell’art. 186 C.d.s. Tuttavia, neppure l’ultimo intervento normativo è riuscito a risolvere del tutto i dubbi interpretativi, sia perché anche l’art. 186 C.d.s. di nuovo conio continua ad utilizzare l’espressione “qualora sia stato accertato..”, e sia perché il comma 6 dello stesso articolo prevede testualmente che “Qualora dall’accertamento di cui ai commi 4 o 5 risulti un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,5 grammi per litro (g/l), l’interessato è considerato in stato di ebbrezza ai fini dell’applicazione delle sanzioni di cui al comma 2”. E’ da notare come il comma 6 non faccia riferimento a qualunque tipo di accertamento da parte dei verbalizzanti, e neppure agli accertamenti preliminari previsti dal comma 3, bensì solo quelli effettuati ai sensi dei commi 4 e 5, ovvero attraverso il ricorso a strumenti e procedure determinati dal regolamento e quelli effettuati presso una struttura sanitaria nell’ambito di un lecito trattamento terapeutico. La giurisprudenza è così dovuta intervenire in plurime occasioni per chiarire come, nonostante i nuovi interventi legislativi abbiano stravolto la struttura originaria della norma, il giudice possa tutt’oggi ricavare l’esistenza dello stato di ebbrezza sulla base delle circostanze sintomatiche riferite dai verbalizzanti. Anche la pronuncia che in questa sede si commenta non si discosta dall’orientamento già precedentemente manifestato dalla Suprema Corte, aderendo al principio secondo cui lo stato di alterazione psicofisica dovuta all’ingestione di sostanze alcooliche può essere ricavato anche senza l’ausilio di strumentazione tecnica. Del resto, precisa la Corte di legittimità, “una diversa interpretazione determinerebbe un vulnus essenziale al sistema di repressione e controllo disposto da legislatore a fronte del grave fenomeno della guida in stato di alterazione per l’uso di alcol, comportante sempre maggiori situazioni di pericolo per gli utenti della circolazione stradale”. Non si può evitare di intravedere tra le righe di questa pronuncia la volontà da parte dei giudici di supplire a lacune legislative attraverso il ricorso ad una interpretazione estensiva e, per certi versi, creativa. Una scelta certamente opinabile, non essendo compito della Magistratura quello di operare indebite supplenze, atte ed idonee a colmare gravi vuoti normativi. Ma il dato più significativo e criticabile è rappresentato dal principio enunciato nella parte conclusiva della motivazione, ove la Corte precisa che “la possibilità per il Giudice di avvalersi, ai fini dell’affermazione della sussistenza dello stato di ebbrezza, delle sole circostanze sintomatiche riferite dagli agenti accertatori va circoscritta alla fattispecie meno grave, quella di cui all’art. 186 C.d.S., comma 2, lett. a), imponendosi per le ipotesi più gravi l’accertamento tecnico del livello effettivo di alcol nel sangue”. Premesso che le tre soglie di punibilità introdotte con D.L. 3 agosto 2007, n. 117 corrispondono ad altrettante fattispecie autonome di reato, destinate a non subire, come tali, il «gioco» del giudizio di bilanciamento tra opposte circostanze (generiche od attenuanti in genere), pare lecito chiedersi quale valore probatorio debba allora essere riconosciuto alle rilevazioni sintomatiche effettuate dai verbalizzanti. Da un lato, la Suprema Corte riconosce come le sole circostanze sintomatiche possano consentire al giudice di pervenire ad una sentenza di condanna, ritenendole sufficienti a costituire prova dello stato di alterazione psico-fisica del conducente; dall’altro, si ammette - quasi expressis verbis - la fallacità di un simile accertamento, riconoscendo l’impossibilità di collocare il conducente in una delle tre soglie di punibilità previste e dunque, attraverso una applicazione del tutto singolare del principio del favor rei, si decide di applicare la sanzione meno afflittiva. Per esemplificare, è come se fosse riconosciuta la possibilità da parte dell’agente di Polizia Stradale di valutare autonomamente l’eccesso di velocità senza utilizzare l’autovelox o altra strumentazione tecnica, e senza poter dunque riferire a quale velocità procedesse il veicolo: nonostante in questo caso il trasgressore possa incorrere in una mera sanzione amministrativa, la disciplina dettata per questo tipo di violazione risulta paradossalmente più garantista, avendo il legislatore previsto l’impossibilità di contestare l’infrazione basandosi unicamente sulle dichiarazioni del verbalizzante e sulle sue percezioni sensoriali. Nel caso della guida in stato di ebbrezza, invece, pur costituendo un vero e proprio reato, seppur contravvenzionale, si ritiene invece sufficiente l’accertamento sulla sola base dei dati sintomatici riscontrati dai verbalizzanti, senza che tale accertamento debba essere necessariamente corroborato da verifiche strumentali, il ricorso alle quali è peraltro rimesso alla mera discrezionalità degli agenti di Polizia Stradale, non avendo questi alcun obbligo di ricorrervi. In definitiva, la disciplina vigente rappresenta il prodotto di una scelta legislativa alquanto discutibile sotto molteplici profili, adottata sull’onda dell’emergenza attraverso il sempre più frequente ricorso alla decretazione d’urgenza, il cui utilizzo, svincolato dai rigidi parametri costituzionali ex art. 97 Cost., è stato già stigmatizzato dalla Consulta. Il decreto legge non è lo strumento ideale per legiferare in materia penale, e non lo è soprattutto in materie così complesse e di forte allarme sociale come quella della guida in stato di ebbrezza. La gravità del fenomeno impone un intervento più organico e ad ampio raggio, in modo da contrastare più efficacemente il fenomeno della guida in stato di ebbrezza che, per dimensioni e gravità, richiede una più adeguata risposta da parte del legislatore e di tutti gli operatori coinvolti, a diverso titolo, in questa opera riformatrice, con interventi che non si limitino ad una rivisitazione dell’impianto sanzionatorio ed un inasprimento delle pene, che purtroppo, come la cronaca di tutti i giorni dimostra, non sempre riescono a costituire un efficace deterrente. Francesco Morelli Cass. pen. Sez. IV, 15-05-2008, n. 19486 Svolgimento del processo - Motivi della decisione 1. Il P.M. presso la Procura della Repubblica di Bergamo chiedeva l'emissione di decreto penale di condanna nei confronti di S. R., per il reato di guida in stato di ebbrezza alcolica e per rifiuto di sottoporsi al test con l'etilometro (fatto avvenuto il 18.4.2007). Il GIP non accoglieva la richiesta, ma pronunciava sentenza, in data 31.8.2007, ai sensi dell'art. 129 c.p.p. di proscioglimento con la formula "il fatto non sussiste" per il reato ex art. 186 C.d.S., commi 2 e 6, e con la formula "il fatto non è previsto dalla legge come reato" per la fattispecie di rifiuto all'esecuzione degli accertamenti. Rilevava il Giudice che il D.L. 3 agosto 2007, n. 117 aveva depenalizzato il fatto di rifiuto; altresì, il nuovo testo dell'art. 186 C.d.S., richiedeva uno specifico accertamento tecnico del valore del tasso alcolemico, con pene progressivamente in aumento in relazione al maggiore valore riscontrato; per cui, doveva ritenersi esclusa la configurabilità del reato nel caso di mancanza di detto accertamento, come avvenuto nella fattispecie. 2. Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Brescia proponeva ricorso per Cassazione contestando l'interpretazione adottata dal GIP, intesa ad escludere l'accertamento dello stato di ebbrezza del guidatore in base ad elementi sintomatici esterni, essendo la sanzione penale, ora stabilita dal legislatore, collegata a precisi livelli alcolemici. 3. Il Procuratore presso la Corte di Cassazione chiedeva l'accoglimento del ricorso, con l'annullamento con rinvio della sentenza. L'imputato presentava memoria instando per il rigetto del ricorso. 4. Il ricorso va accolto perché fondato. Si osserva che il precetto penale cui fa riferimento l'art. 186 C.d.S., è riportato al primo comma di detto articolo nel senso che "è vietato guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell'uso di bevande alcoliche". Al riguardo, la giurisprudenza formatasi sotto la formulazione dell'articolo precedente alle modifiche apportate dal D.L. n. 117 del 2007 (poi, convertito in L. 2 ottobre 2007, n. 160) riteneva che il dato sintomatico esterno (alito vinoso, alterazione della deambulazione, eloquio sconnesso ed altro) era, comunque, idoneo a comprovare lo stato di ebbrezza. D'altro canto, il nuovo testo legislativo non esclude di per sé che il Giudice formi il suo libero convincimento in base ad elementi probatori acquisiti, a prescindere dall'accertamento tecnico del livello effettivo di alcol contenuto nel sangue, ai sensi dei principi generali in materia di prova (v. art. 187 c.p.p. e segg.; in specie l'art. 192 c.p.p.). Ciò appare possibile, in particolare, allorché il guidatore si rifiuta di sottoporsi a detti esami, nel qual caso la norma regolamentare tuttora in vigore (art. 379 c.p.p.) impone agli agenti verbalizzanti di indicare nella notizia di reato, ai sensi dell'art. 347 c.p.p., le circostanze sintomatiche dell'esistenza dello stato di ebbrezza desumibili dallo stato del soggetto e dalla condotta di guida. Del resto, una diversa interpretazione determinerebbe un "vulnus" essenziale al sistema di repressione e controllo disposto da legislatore a fronte del grave fenomeno della guida in stato di alterazione per l'uso di alcol, comportante sempre maggiori situazioni di pericolo per gli utenti della circolazione stradale; difatti, nel caso di rifiuto del soggetto di sottoporsi al test, la sua condotta non sarebbe in alcun modo penalmente sanzionabile. Deve solo aggiungersi che la possibilità per il Giudice di avvalersi, ai fini dell'affermazione della sussistenza dello stato di ebbrezza, delle sole circostanze sintomatiche riferite dagli agenti accertatori va circoscritta alla fattispecie meno grave, quella di cui all'art. 186 C.d.S., comma 2, lett. a), imponendosi per le ipotesi più gravi l'accertamento tecnico del livello effettivo di alcol nel sangue. 5. Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio al Tribunale di Bergamo, che si uniformerà al principio di diritto enunciato. P.Q.M. La Corte di Cassazione Sezione Quarta Penale annulla il provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di Bergamo. Così deciso in Roma, il 11 aprile 2008. Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2008

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Sulle condotte concretanti i maltrattamenti in famiglia

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Estratto della nota alla sentenza della Cassazione penale, Sez. VI, 13-02-2009, n. 6490 realizzata dall'Avv. Francesco Morelli e pubblicata nel settembre 2009 nel volume "Cassazione Penale 2009 - Analisi ragionata della giurisprudenza di legittimità dal 1 luglio 2008 al 31 luglio 2009" edito da Edizioni CieRre S.r.l. e diretto dal dott. Luigi Levita, Giudice presso il Tribunale di Napoli. Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, sentenza n. 6490 del 13 febbraio 2009 Sulle condotte concretanti i maltrattamenti in famiglia A cura dell’Avv. Francesco Morelli Area di classificazione: Delitti contro la famiglia – Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli Sottoarea: maltrattamenti in famiglia – provocazioni, minacce ed aggressioni reciproche - elemento soggettivo del reato - esclusione Riferimenti normativi: Codice Penale, art. 572. La massima: Non è punibile per il delitto di maltrattamenti in famiglia il coniuge, qualora siano difettate nell'agente la coscienza e la volontà di sottoporre i soggetti passivi ad una serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuativo ed abituale. I singoli atti lesivi, certamente verificatisi, non possono che essere letti come forme espressive di reazioni determinate da tensioni contingenti, anche se non infrequenti nel descritto contesto familiare; detti atti non appaiono, per quanto accertato in sede di merito, tra loro connessi e cementati dalla volontà unitaria e persistente dell'agente di sottoporre i soggetti passivi a ingiuste sofferenze morali o fisiche, sì da rendere abitualmente doloroso il rapporto relazionale. OSSERVAZIONI INTRODUTTIVE La famiglia rappresenta da sempre il nucleo centrale delle relazioni umane, tutelata e ricompresa dall’art. 29 della nostra Carta Costituzionale tra le formazioni sociali all’interno delle quali l’individuo manifesta la sua personalità. Nata come fenomeno sociale originario, la famiglia riceve una disciplina ed un riconoscimento giuridico solo in un momento successivo, nonostante l’assenza di alcuna definizione in grado di chiarirne in modo univoco significato ed ambito applicativo. Pur essendo fondata su un vincolo affettivo e parentale, la famiglia diviene spesso scenario nel quale trovano espressione le frustrazioni, i dissidi e le incomprensioni tra i coniugi, sfociando frequentemente in prevaricazioni, maltrattamenti e violenze, sia fisiche che morali, che non sempre si manifestano attraverso vere e proprie aggressioni poste in essere nei confronti del coniuge più debole. Le violenze sono spesso realizzate attraverso una serie sistematica di maltrattamenti in forma larvata, tali da infierire non sul corpo della vittima, bensì sulla sua personalità. Al fine di offrire una adeguata tutela al coniuge più debole, nella maggior parte dei casi di sesso femminile, già il legislatore del 1930 dedicò alla famiglia l'intero titolo XI del codice penale, diversamente da quanto avveniva con il codice Zanardelli, nel quale le figure criminose in commento erano ricomprese nel titolo VIII dedicato ai «Delitti contro il buon costume e l'ordine delle famiglie». Nella Relazione sui libri II e III del Progetto definitivo, il legislatore storico ebbe a sottolineare l'importanza di apprestare una energica e valida difesa contro l'attività criminosa sempre più vasta ed allarmante, che tende a disgregare l'organismo famigliare, considerato come «società coniugale» e come «società parentale», affermando come lo Stato dovesse rivolgere costantemente, e col massimo interesse, la sua attenzione all'istituto etico-giuridico della famiglia, centro d'irradiazione di ogni civile convivenza. Ciò nonostante, a tutt’oggi dubbi permangono in ordine all’ambito di applicazione della disciplina approntata dal legislatore, stante l’assenza di una definizione univoca della famiglia dal punto di vista penalistico, ed in considerazione della costante e profonda evoluzione che ha caratterizzato l’istituto familiare, soprattutto dalla metà del secolo scorso. A seguito delle profonde trasformazioni culturali e sociali avvenute negli ultimi decenni, infatti, si è assistito al passaggio da un'istituzione familiare di impostazione patriarcale, quale quello degli anni '60 e '70, basato su rigide suddivisioni dei ruoli, che vedevano solitamente la donna occuparsi di tutte le mansioni domestiche e che concentrava tutte le qualifiche in capo all’uomo, ad un nuovo concetto di nucleo familiare basato sull'affermata eguaglianza morale e giuridica fra i coniugi, anche in ragione dell'art. 2 della Costituzione. Anche i numerosi interventi legislativi e giurisprudenziali che si sono susseguiti negli ultimi anni hanno contribuito notevolmente ad una rivisitazione dell'istituto familiare, che risulta oggi basato non più esclusivamente sulla costanza del matrimonio, cioè il legame giuridico da cui nasceva, ma come insieme dei rapporti giuridicamente rilevanti e da questo scaturenti. Né vanno trascurati i plurimi tentativi, fino ad oggi mai integralmente accolti, di completa equiparazione della famiglia fondata sul matrimonio alla famiglia di fatto, intesa come nucleo sociale fondato esclusivamente sul consenso e fonte di diritti e doveri di assimilabili a quelli della famiglia legalmente costituita. L'evoluzione del concetto di famiglia, sia sociale che giurisprudenziale, ha così determinato l’estensione della tutela nei confronti di tutti coloro i quali, per il rapporto coniugale o di filiazione, o per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, e dunque anche al di fuori del vincolo matrimoniale e/o parentale, e ciò persino quando la convivenza sia cessata a seguito di separazione legale o di fatto, atteso che la separazione dei coniugi, pur dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di assistenza morale e materiale nonché di reciproco rispetto tra i medesimi. Oggetto di tutela penale, pertanto, deve allo stato intendersi non già la famiglia in quanto tale, ma i singoli rapporti e gli specifici interessi che fanno capo ai suoi componenti. Seguendo tale impostazione, si può dunque sostenere come il modello di famiglia oggi tutelata dal legislatore risulti meglio aderente alle profonde trasformazioni sociali e culturali che hanno attraversato il nostro paese. Nonostante l’ampia tutela offerta dal legislatore, l’emersione di fenomeni patologici legati a maltrattamenti e violenze ai danni dei membri della famiglia risulta particolarmente difficile, non solo perché avvengono il più delle volte tra le mura domestiche, ma anche perchè non sempre la vittima trova la forza ed il coraggio di denunciare l’accaduto alle autorità competenti, anche per evitare possibili ripercussioni ai danni dei propri figli. Tra le innumerevoli forme di violenza che possono realizzarsi tra i componenti del nucleo familiare, particolare importanza riveste il delitto di maltrattamenti in famiglia, ricompreso dal legislatore tra i delitti contro l'assistenza familiare e sanzionato dall'art. 572 del codice penale, che punisce con la reclusione da uno a cinque anni chiunque maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni. Con riferimento alla condotta materiale, il reato di maltrattamenti in famiglia configura un'ipotesi di reato necessariamente abituale costituito da una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali acquistano rilevanza penale per la loro reiterazione nel tempo. Trattasi di fatti lesivi dell'integrità fisica o psichica del soggetto passivo, i quali non sempre, singolarmente considerati, risultano penalmente rilevanti, ma valutati nel loro complesso possono integrare, per la configurabilità dei maltrattamenti, una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la convivenza particolarmente dolorosa (Cass. Pen., sez. III, 16 maggio 2007, n. 22850). Ai fini penali assumono pertanto rilevanza non soltanto le percosse, le minacce, le ingiurie e le lesioni cagionate alla vittima, ma anche atti di scherno, di disprezzo, di umiliazione, di vilipendio e di asservimento, quando siano posti in essere in modo abituale e risultino tali da infliggere alla vittima sofferenze fisiche o morali. Secondo la dottrina prevalente, il bene giuridico tutelato dalla disposizione in esame non è tanto la famiglia in quanto tale, ma l'integrità psico-fisica di coloro che, per età o per rapporti di tipo familiare o di affidamento, si trovino nelle condizioni di subire, proprio nei contesti in cui dovrebbero ricevere maggior protezione, condotte di prevaricazione fisica o morale. Non manca tuttavia chi, facendo leva sull’ampia accezione utilizzata dal legislatore, estende ancor più l’ambito di applicazione dell’art. 572 c.p., fino a ricomprendervi qualunque condotta che, qualificata dal soggetto che la pone in essere e reiterata nel tempo, leda la personalità dell’individuo, e non solo la sua integrità psico-fisica. La recente giurisprudenza ha chiarito come il bene giuridico tutelato dal delitto in esame sia duplice, essendo costituito non solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nell’art. 572 c.p. interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento in un rapporto fondato su vincoli familiari (Cass. Penale, sez. VI, sentenza 02 luglio 2008, n. 26571). Il problema che spesso si pone in riferimento al delitto in esame, è stabilire di volta in volta se i maltrattamenti abbiano carattere meramente estemporaneo e transitorio, frutto di normali tensioni e dissidi che possono verificarsi all’interno di qualunque nucleo familiare, o se invece assumano connotati di tale frequenza e gravità da costituire, per il soggetto passivo, fonte abituale di sofferenze fisiche e morali. Con la recentissima sentenza che qui si commenta, la Corte di Cassazione offre un utile spunto di riflessione per la soluzione del quesito appena esposto, soffermandosi in particolar modo sull’esistenza degli elementi soggettivi ed oggettivi che devono sussistere affinché possa dirsi realizzata la condotta sanzionata dalla disposizione in esame. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA sentenza 4 novembre 2008 - 13 febbraio 2009, n. 6490 (Presidente Agrò - Relatore Milo) Fatto e diritto 1 - La Corte d'Appello di Roma, con sentenza 12/2/2007, confermava la decisione 8/4/2004 dal locale Tribunale nella parte in cui aveva dichiarato A. B. colpevole dei reati di maltrattamenti e lesioni volontarie lievi in danno della moglie, R. T. C., e della figlia M., ma riduceva la misura della pena inflitta. Il Giudice distrettuale evidenziava che la prova della responsabilità dell'imputato era integrata dalla precisa e puntuale testimonianza di M. B., che aveva riferito in ordine al clima di permanente tensione che aveva caratterizzato la vita familiare, ai continui litigi tra i suoi genitori a causa prevalentemente dell'abuso di alcool da parte di entrambi, al suo coinvolgimento di riflesso in tali litigi, alla protrazione del comportamento violento e vessatorio del padre anche dopo la morte della madre in data omissis. Aggiungeva che tale testimonianza aveva trovato indiretto riscontro in quella del m.llo dei CC. E. C., intervenuto più volte in occasione di litigi verificatisi in casa B.. 2 - Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l'imputato e ha lamentato: 1) erronea applicazione dell'art. 603/3° c.p.p., per non essere stata accolta la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale al fine di meglio chiarire i fatti posti a base dell'accusa di maltrattamenti; 2) erronea applicazione dell'art. 572 c.p., non essendosi tenuto conto delle ragioni sottese ai litigi verificatisi, le quali portavano ad escludere l'elemento soggettivo del reato; 3) vizio di motivazione in ordine al realistico e corretto apprezzamento dei fatti di causa. 3 - Il ricorso è fondato. Tralasciando il primo motivo di censura che, per quello che si dirà in seguito, è privo di rilevanza, osserva la Corte che la presente vicenda, per così come emerge dalla ricostruzione in fatto operata dai Giudici di merito, deve essere apprezzata e valutata nel particolare contesto familiare in cui è maturata, al fine d'individuare realisticamente l'esatto rilievo penale dei comportamenti sicuramente antigiuridici tenuti dall'imputato in danno della moglie e della figlia. Il racconto di M. B., al di là delle accuse mosse contro il padre, delinea un quadro familiare caratterizzato e condizionato da anomalie comportamentali di tutti i suoi componenti, determinate dall'uso smodato e incontrollato che i suoi genitori facevano dell'alcool, nonché dalle gravi patologie a livello psichiatrico di cui la madre era portatrice. Non può evidentemente prescindersi da tale peculiare situazione, per cogliere la reale portata e il vero significato delle tensioni verificatesi in casa B. e spesso sfociate in litigi verbali, connotati da provocazioni o minacce, oppure in vere e proprie aggressioni fisiche ad iniziativa non solo dell'imputato ma anche della moglie. In sostanza, non può affermarsi che sia stato il prevenuto, con la sua condotta prevaricatrice e violenta, ad imporre un regime di vita vessatorio e intollerabile all'interno del consorzio familiare, essendo egli stesso rimasto vittima di comportamenti lesivi del suo patrimonio morale e della sua integrità fisica ad opera della moglie. In definitiva, tutte le persone coinvolte nella presente vicenda, devono considerarsi in qualche modo vittime di una situazione familiare difficile per le gravi difficoltà esistenziali vissute dai coniugi e di una incapacità dei medesimi a fronteggiarla efficacemente con la necessaria serenità. La stessa figlia M., per la sua giovane età e per l'impossibilità di avere in uno dei genitori un punto di riferimento certo su cui fare affidamento, ha finito per essere travolta dal clima di tensione imperante in casa, lasciandosi andare, per sua stessa ammissione, a sconsiderati comportamenti fortemente reattivi verso il padre, in occasione dei litigi tra costui e la madre. Dopo la morte della C., il clima di tensione e la residuale conflittualità tra l'imputato e la figlia si stemperarono progressivamente, anche perché quest'ultima si allontanò dalla casa paterna. Ciò posto, ritiene la Corte che siano difettate nell'agente la coscienza e la volontà di sottoporre i soggetti passivi ad una serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuativo ed abituale. I singoli atti lesivi, certamente verificatisi, non possono che essere letti come forme espressive di reazioni determinate da tensioni contingenti, anche se non infrequenti nel descritto contesto familiare; detti atti non appaiono, per quanto accertato in sede di merito, tra loro connessi e cementati dalla volontà unitaria e persistente dell'agente di sottoporre i soggetti passivi a ingiuste sofferenze morali o fisiche, sì da rendere abitualmente doloroso il rapporto relazionale. La sentenza impugnata, pertanto, va annullata senza rinvio, con riferimento ai contestati reati di maltrattamenti, perché il fatto non costituisce reato. Residuano logicamente i reati di lesioni volontarie lievi, la cui sussistenza e ascrivibilità soggettiva all'imputato risultano oggettivamente provate. Tuttavia, il reato di lesioni in danno della C. (capo b), commesso il 21-22 agosto 2000, è estinto per prescrizione, in quanto il relativo termine, considerato nella sua massima estensione di anni sette e mesi sei (artt. 157/1° n. 4 e 160/3° c.p. nel testo previgente) e mai sospeso, è ad oggi interamente decorso. Il reato di lesioni in danno di M. B. (capo e) è estinto per remissione di querela (cfr. atto di remissione in data 5/4/2007 e successiva accettazione in data 8/5/2007 dell'imputato). È il caso di precisare che tale reato è punibile a querela della persona offesa, non essendo contestata in fatto alcuna aggravante che lo renda perseguibile d'ufficio; il richiamo, nel capo d'imputazione, all'art. 576 n. 2 c.p. è errato, dovendosi, invece, fare correttamente riferimento - per quanto indicato in fatto - all'art. 577 n. 1 c.p., aggravante quest'ultima non ostativa alla perseguibilità a querela del reato (art 582/2° c.p.). La sentenza impugnata va, quindi, annullata senza rinvio anche in relazione a questi ultimi due reati con la formula corrispondente. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, con riferimento ai maltrattamenti, perché il fatto non costituisce reato; con riferimento alle lesioni di cui al capo b), perché il reato è estinto per prescrizione; con riferimento alle lesioni di cui al capo e), per remissione di querela. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE La questione rimessa al vaglio della Suprema Corte ha ad oggetto un rapporto familiare caratterizzato da anomalie comportamentali di tutti i suoi componenti, da un uso smodato di alcol da parte di entrambi i coniugi e da gravi patologie a livello psichiatrico di uno di essi, dando frequentemente luogo a litigi verbali, aggressioni reciproche, provocazioni e minacce, nonché determinando l’indiretto coinvolgimento dei figli minori nel clima di permanente tensione che aveva sempre caratterizzato la vita familiare. Il Tribunale di Roma aveva già condannato in primo grado l’imputato per i reati di maltrattamenti e lesioni volontarie lievi commesse in danno della moglie e della figlia, ed anche la Corte d’Appello aveva deciso di confermare la decisione del giudice di prime cure, limitandosi a ridurre la misura della pena inflitta. I giudici di merito avevano ritenuto sussistente la responsabilità dell’imputato fondando il proprio convincimento su una puntuale ricostruzione offerta dalla figlia, che aveva riferito in ordine al clima di permanente tensione che aveva caratterizzato la vita familiare, ai continui litigi tra i suoi genitori, al comportamento violento e vessatorio del padre anche dopo la morte della madre, testimonianza che trovava ulteriore conferma nella deposizione resa dal maresciallo della locale stazione dei Carabinieri, intervenuto più volte a causa dei litigi verificatisi in famiglia. Contro la condanna inflitta dalla Corte d’Appello di Roma l’imputato ha proposto ricorso in Cassazione, contestando tra l’altro la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di maltrattamenti in famiglia, ed in particolare la mancanza dell’elemento soggettivo richiesto dal delitto per il quale era stato condannato. Investita della questione, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’imputato ritenendo che sia difettata nell’agente la coscienza e la volontà di sottoporre i soggetti passivi ad una serie di sofferenze in modo continuativo ed abituale. Pur essendo indubitabile che siano stati posti in essere i singoli atti lesivi, osservano i giudici di legittimità, non vi è prova che gli stessi siano cementati dalla coscienza e volontà da parte dell’agente di sottoporre le vittime ad una serie di ingiuste sofferenze fisiche o morali. Né, a giudizio del supremo collegio, può essere trascurato il grave clima familiare nel quale si sono verificati, caratterizzato e condizionato da anomalie comportamentali di tutti i suoi componenti, dall'uso smodato e incontrollato dell'alcool da parte di entrambi i coniugi, nonché dalle gravi patologie a livello psichiatrico di cui risultava affetta la moglie, rendendo in qualche modo tutte le persone coinvolte nella presente vicenda “vittime di una situazione familiare difficile”. Proprio in considerazione del contesto nel quale sono avvenuti, dunque, i singoli atti di sopraffazione e vessazione reciproca, seppur frequenti, non sarebbero connotati da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo, costituendo piuttosto una reazione agli altrettanto frequenti atti di violenza fisica e morale subiti da ciascun componente della famiglia. La soluzione alla quale perviene la Corte di legittimità costituisce un utile spunto di riflessione sulle questioni che di seguito si ritiene opportuno evidenziare. Preliminarmente, tutti i protagonisti della vicenda vengono qualificati come vittime di una situazione, senza che sia possibile individuare alcun colpevole. L’unico responsabile è lo scenario nel quale si è ambientata questa triste vicenda, qualificata come “situazione familiare difficile”; una situazione, tuttavia, creata dagli stessi soggetti che per legge sarebbero tenuti all’osservanza dei doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione. I genitori saranno anche vittime del contesto familiare, ma è innegabile come siano al tempo stesso autori, e come tali responsabili, del profondo degrado che per lungo tempo ha caratterizzato la vita familiare. Vieppiù, le risultanze processuali assunte nel corso del giudizio di merito hanno dimostrato come entrambi i coniugi facessero uso abituale di sostanze alcooliche, e che la moglie fosse affetta da gravi patologie psichiatriche. A tal proposito, è indubitabile come lo stato di malattia, fisica o psichica, della vittima non escluda affatto il dolo del soggetto agente, ma semmai accentui la gravità del fatto, essendo l'offesa arrecata a persona psichicamente o fisicamente menomata. Né alcuna giustificazione o di limitazione di responsabilità può essere attribuita al frequente stato di ubriachezza dei coniugi, certamente inidoneo ad escludere il dolo da parte del soggetto agente secondo quanto espressamente disposto dall’art. 91 c.p., ed anzi tale da aggravarne la colpevolezza quando è abituale, ex art. 94 c.p., o preordinato allo scopo di commettere il delitto. Ciò nonostante, pur affermando l’ascrivibilità soggettiva all’imputato dei singoli atti di violenza fisica commessi in danno della moglie, la Corte ritiene che gli atti posti in essere, seppur frequenti, non siano tra loro connessi e cementati dalla volontà unitaria e persistente dell'agente di sottoporre i soggetti passivi a ingiuste sofferenze morali o fisiche, sì da rendere abitualmente doloroso il loro rapporto relazionale. A questo proposito giova ricordare come in passato largo consenso, specie in giurisprudenza, ha avuto la tesi che riteneva necessaria la sussistenza del dolo specifico, individuato in un fine di malvagità e vessazione che l'autore dei maltrattamenti avrebbe dovuto avere nei confronti della vittima. Oggi, invece largamente prevalente, sia in dottrina che in giurisprudenza, è la tesi che ritiene sufficiente il dolo generico, inteso come consapevolezza di ledere l'integrità fisica ed il patrimonio morale della persona offesa in modo da sottoporlo ad un regime di vita dolorosamente vessatorio, non occorrendo affatto a questo fine che l'agente sia mosso da animo malvagio, né rileva che abbia agito a causa di una condotta ritenuta non esemplare dal familiare. Non si richiede, pertanto, che l'agente sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, risultando sufficiente la coscienza e volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva (Cassazione penale, sez. VI, 08 gennaio 2004, n. 4933). La giurisprudenza, inoltre, è allineata nel richiedere la sussistenza di un dolo unitario, ma non anche l'esistenza di uno specifico programma criminoso, essendo sufficiente la consapevolezza dell'autore del reato di persistere in un'attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima (cfr. Cass. Penale, Sez. VI, 14 luglio 2003). Non mancano, tuttavia, altre decisioni (Cass. Penale, Sez. VI, 11 dicembre 2003) che identificano quale elemento soggettivo, nel reato de quo, il dolo unitario e programmatico, fungendo esso da elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima, che si concretizza nell'inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va progressivamente realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte (in senso conforme, v. Cass, Penale, Sez. VI, 1 febbraio 1999; Cass. Penale, Sez. IV, 2 dicembre 2003). In ordine alla prova dell’elemento soggettivo richiesto per integrare il delitto in esame, recenti pronunce della Suprema Corte hanno chiarito come essa possa correttamente desumersi dalla stessa reiterazione e sistematicità delle condotte di maltrattamento, in quanto i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l'esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo (cfr. Cassazione penale, sez. VI, 11 gennaio 2007, n. 4139). La recentissima pronuncia della Cassazione che si commenta in questa sede sembra invece discordarsi dalle precedenti decisioni, da un lato accogliendo la tesi della necessità di un dolo unitario che funga da elemento unificatore dei singoli atti lesivi posti in essere e, dall’altro, richiedendo la dimostrazione che i singoli atti di vessazione e sopraffazione risultino collegati da un nesso di abitualità e avvinti nel loro svolgimento dall'unica intenzione criminosa di ledere l'integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo. A giudizio della Corte, la prova della sussistenza del vincolo unificatore tra di essi non può desumersi indirettamente dalla frequenza con la quale gli atti di violenza venivano esercitati nei confronti dei familiari, essendo necessario dimostrare per altra via che l’agente abbia avuto la coscienza e la volontà di sottoporre i soggetti passivi ad una serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuativo ed abituale, con conseguente necessità di assolvere il prevenuto dal delitto di cui all’art. 572 c.p. perché il fatto non costituisce reato. Avv. Francesco Morelli

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