Sono Giandomenico de'Francesco avvocato iscritto presso il Foro di Roma, socio e titolare dello studio de'FRANCESCO & PARTNERS nonchè socio ed amministratore della società GERCAP CONSULTING Srls. Sono iscritto nelle liste per patrocinare dinanzi le Magistrature Superiori e sono esperto in materia del lavoro (anche penale del lavoro), tributaria e societaria ma lo studio è composto di esperti anche in materia penale e commerciale. Lo studio e la società che rappresento, nonchè io personalmente, sono un punto di riferimento per le imprese che operano nei paesi ex CIS in particolar modo in Bielorussia ed in Russia.
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Master di approfondimento in diritto del lavoro presso CEIDA - ROMA
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L'irriducibilità della retribuzione - I termini della questione - La normativa fiscale - I fringe benefits in relazione al principio di irriducibilità della retribuzione L'irriducibilità della retribuzione L'art. 2103 c.c. recita che l'adibizione a mansioni diverse non può comportare una riduzione della retribuzione. Tale ultima affermazione, che viene più in generale ricondotta al c.d. principio dell'irriducibilità della retribuzione, necessita ovviamente di alcune precisazioni, in particolare per specificare quale sia la retribuzione considerata intangibile dal legislatore. Il punto di partenza è rappresentato dall'art. 36 Cost., laddove viene fatto riferimento alla qualità del lavoro prestato ( il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ). Il rinvio al livello qualitativo della prestazione lavorativa evoca immediatamente uno stretto ed intrinseco collegamento non solo al risultato della prestazione lavorativa, ma anche al patrimonio professionale del lavoratore. Se ciò è vero, ne consegue che resta fuori dall'ambito del divieto di irriducibilità quella parte di retribuzione che, in quanto strettamente ed intrinsecamente connessa a particolari modalità di svolgimento della prestazione, trae dalla specifica situazione la sua unica ragione per essere corrisposta. Un semplice esempio può contribuire a chiarire meglio i termini del problema. Supponiamo che un lavoratore svolga costantemente ed abitualmente la sua attività in locali sotterranei e che, in virtù di tale ubicazione e del disagio che la stessa comporta, percepisca un'indennità per lavoro sotterraneo in base alla previsione della contrattazione collettiva. In tal caso appare evidente che tale elemento retributivo non è collegato in alcun modo né alla qualità della prestazione resa, né al patrimonio professionale del lavoratore, ma trae la sua unica origine dalle particolari modalità logistiche di svolgimento della prestazione. Ne consegue, ovviamente, che, in relazione alla stretta inerenza esistente tra ubicazione e corresponsione dell'indennità in argomento, qualora venga meno l'anzidetto collegamento causale, e quindi l'attività non sia più svolta in locali sotterranei, deve ritenersi non dovuta la corresponsione della predetta voce retributiva. Ragionando ulteriormente, è constatabile come nell'esempio in oggetto la percezione dell'indennità possa venire meno non solo in relazione all'adibizione a mansioni per le quali non è richiesta l'ubicazione in locali sotterranei, ma, anche, in virtù di situazioni, per così dire, oggettive, quali, per ipotesi, uno spostamento di sede dell'impresa in un edificio ove non siano presenti locali sotterranei. Analogamente si può argomentare per un lavoratore che percepisca l'indennità per reperibilità. Posto che la reperibilità del lavoratore costituisce una particolare modalità della prestazione lavorativa non identificabile con il lavoro straordinario - il quale ha caratteristiche diverse, in quanto presuppone l'effettuazione attività oltre l'orario normale - deve ritenersi che la reperibilità stessa non costituisca di per sé una mansione in senso tecnico-giuridico, ma integri un obbligo accessorio ed intermedio per il lavoratore preposto ad un determinato servizio ed alle connesse specifiche mansioni. Pertanto la riduzione temporale di tale obbligo (che non può definirsi neppure lavoro di attesa), e correlativamente la riduzione quantitativa dello speciale compenso previsto, non urta contro il divieto stabilito dalla prima parte dell'art. 2103 c.c.. Ovviamente gli esempi potrebbero continuare (si pensi alle diverse voci retributive variamente denominate: indennità di rischio per maneggio contanti o valori, indennità di rischio per la salute, indennità di disagiata sede, indennità di turno, indennità di reperibilità, di cuffia, di reggenza, per lavoro notturno, ecc.) Ma, ai nostri fini, importa soprattutto definire il principio generale che costituisce la linea netta di demarcazione fra retribuzione riducibile e non riducibile. In questa direzione, quindi, ripetiamo che il tratto distintivo va rinvenuto fra la retribuzione correlata al patrimonio professionale ed alla specializzazione tecnica del lavoratore e quella invece inerente a particolari e contingenti modalità di svolgimento della prestazione lavorativa (temporali, logistiche, operative). Pertanto, mentre nella prima ipotesi nessuna riduzione della retribuzione può essere determinata da un cambiamento di mansioni, nella seconda fattispecie deve ritenersi che le voci retributive collegate a mutevoli modalità - che per comodità definiamo "indennità modali estrinseche" - possano e debbano essere legittimamente oggetto di decurtazione. Tali profili sono stati più volte esaminati dalla giurisprudenza che è assolutamente orientata nel senso da noi indicato, tant'è che più volte è stato affermato che nella retribuzione del lavoratore, non riducibile per effetto del suo trasferimento a mansioni diverse, rientrano tutti quegli emolumenti che gli vengono erogati in considerazione delle qualità essenziali delle precedenti mansioni - per la loro particolare difficoltà o per le specifiche conoscenze tecniche implicate - mentre restano fuori dalla garanzia di irriducibilità quelle indennità costituenti soltanto corrispettivo delle particolari modalità della prestazione lavorativa e cioè di caratteristiche estrinseche della stessa, non correlate alla qualità del patrimonio professionale del lavoratore. I termini della questione Posta la distinzione tra profili retributivi intrinseci (qualitativi) ed estrinseci-quantitativi alla professionalità del lavoratore ai fini della riducibilità o meno della retribuzione, e sancita così la sostanziale inequivocabilità dei termini della questione per quanto attiene la non riducibilità del c.d. "salario professionale", un problema di qualificazione, ai fini delle conseguenti decisioni, può configurarsi per alcuni casi specifici. Ci riferiamo, più in dettaglio, all'evoluzione che le forme retributive hanno avuto, soprattutto nelle aziende più orientate all'incentivazione ed alla diversificazione delle predette forme retributive. In concreto il profilo in esame concerne la concessione e l'utilizzo di alcuni beni (telefoni cellulari, autoveicoli, personal computers portatili, ecc.), che di fatto, pur non scaturendo, per lo più, dalla contrattazione collettiva e seppure non avendo la tradizionale denominazione tipica delle voci retributive "modali" (indennità), nondimeno concorrono a fornire una qualche utilità al lavoratore, ovvero, per meglio dire, possono entrare a far parte della sua retribuzione. Ora, per inquadrare correttamente queste fattispecie nell'ambito del tema in esame, bisogna preliminarmente stabilire se le stesse possano essere ricondotte al concetto di retribuzione, e, una volta accertato questo aspetto, è necessario poi valutare se si possa configurare la loro riducibilità o meno sulla base dei principi sopra esposti. A nostro avviso, per procedere ad un'analisi corretta ed evitare di addivenire a conclusioni affrettate, è necessario esaminare i principi generali e le disposizioni normative, e, in quest'ottica, un importante punto di partenza è costituito dalla normativa previdenziale e fiscale che disciplina il rapporto di lavoro. La normativa fiscale Il D. Lgs. 2 settembre 1997 n. 314, recante norme in materia di redditi di lavoro dipendente ed armonizzazione, razionalizzazione e semplificazione delle disposizioni fiscali e previdenziali e dei relativi adempimenti da parte dei datori di lavoro, ha modificato l'art. 48 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, concernente la determinazione del reddito di lavoro dipendente. In particolare il citato art. 48 stabilisce che il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme ed i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d'imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro. Precedentemente veniva considerato reddito tutto quello che si riceveva in dipendenza del rapporto di lavoro. La modifica da in dipendenza a in relazione ha svincolato il concetto di retribuzione imponibile dal vincolo di corrispettività, annoverando così nella nozione di reddito imponibile tutto quello che si riceva dal datore di lavoro indipendentemente da una causa immediata e diretta nel rapporto di lavoro. Inoltre, relativamente ai parametri di riferimento dei redditi in natura o "fringe benefit", il legislatore ha fatto ricorso al criterio del c.d. "valore normale", intendendo per tale il prezzo mediamente praticato dall'azienda alla clientela per lo specifico prodotto oggetto del benefit, in condizione di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo più prossimi. Quindi, oltre a definire in via generale il valore normale quale parametro di riferimento, il legislatore ha anche adottato altri criteri "convenzionali" che riguardano specifiche fattispecie di particolare frequenza nella vita delle aziende. Tanto per citare un caso molto ricorrente, l'art. 48 dispone che per i compensi in natura costituiti dall'utilizzo promiscuo degli autoveicoli (nonché motocicli e ciclomotori), si assume il 30% dell'importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 15.000.000 chilometri calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle nazionali che l'A.C.I. deve elaborare entro il 30 novembre di ciascun anno e comunicare al Ministero delle Finanze che provvede alla pubblicazione entro il 31 dicembre, con effetto dal periodo di imposta successivo, al netto degli ammontari eventualmente trattenuti al dipendente. I fringe benefits in relazione al principio di irriducibilità della retribuzione Sulla base delle disposizioni ora esaminate, possiamo sostanzialmente affermare che la concessione e l'utilizzo di alcuni beni è riassumibile nella seguente casistica: 1. uso nell'esclusivo interesse dell'azienda; 2. uso nell'interesse dell'azienda e del lavoratore; 3. uso nell'esclusivo interesse del lavoratore. Nel caso indicato sub 1) non vi sono particolari dubbi. Infatti l'uso del bene, in quanto strettamente inerente ad un'esigenza aziendale, deve ritenersi concesso esclusivamente in relazione alla suddetta esigenza, quindi alle mansioni svolte. Ne consegue ulteriormente che, ai fini previdenziali e fiscali, il predetto uso non può essere considerato retribuzione imponibile e quindi, in caso di variazione delle mansioni, il predetto uso può sicuramente venir meno in quanto, proprio perché non costituisce retribuzione, non rientra in assoluto nel campo di applicazione dell'art. 2103 c.c.. Un esempio può contribuire ulteriormente a chiarire i termini della questione. Supponiamo che un'azienda abbia dipendenti incaricati di svolgere attività di promozione e che, in relazione alla suddetta attività, sia loro concesso l'uso di un autoveicolo aziendale e di un telefono cellulare senza possibilità, in ambedue i casi, di uso personale. In particolare è presumibile ritenere che i beni siano concessi dall'azienda a titolo di veri e propri "strumenti di lavoro", vuoi per favorire l'azione commerciale e gli spostamenti del dipendente, vuoi per garantire la possibilità di una comunicazione immediata dell'azienda con il dipendente stesso per impartirgli direttive, fornirgli indicazioni, ecc.. E' evidente, in tale ipotesi, che l'uso dell'autoveicolo e del cellulare sono strettamente inerenti e strumentali allo svolgimento della predetta attività. Pertanto, qualora il lavoratore non svolga più le suddette mansioni "esterne", ma sia chiamato ad effettuare altre mansioni "interne", sia pure equipollenti (per esempio alla contabilità), viene meno il fattore causale che legittima la concessione degli "strumenti di lavoro", ovvero, per meglio dire, cessa la ragione tecnica, organizzativa e produttiva che ne ha determinato l'assegnazione. Per l'effetto, quindi, il lavoratore non potrà invocare il principio di irriducibilità della retribuzione per conservare l'uso dei suddetti beni. Analogamente non presenta particolari problemi l'ipotesi sub 3) in quanto, anche sulla base dei principi rinvenienti dalla normativa previdenziale e fiscale, possiamo rilevare che la natura retributiva è indubbia, trattandosi di fringe benefit concesso al lavoratore esclusivamente nel suo interesse ed indipendentemente da ogni ragione tecnica, organizzativa e produttiva (fatta eccezione, ovviamente, per l'interesse gestionale dell'azienda di attrarre o di incentivare il dipendente - in possesso di requisiti professionali di rilievo - con la concessione di redditi in natura). Ne deriva, per ciò stesso, che l'eventuale mutamento di mansioni non può determinare l'eliminazione del suddetto benefit che, sulla base di quanto esposto, entra a far parte della retribuzione irriducibile. Più attenzione bisogna rivolgere all'ipotesi sub 2), il caso, per usare la terminologia del legislatore, del c.d. "uso promiscuo". In tale situazione l'uso del bene viene concesso non solo nell'interesse dell'azienda ma pure del lavoratore, che è autorizzato a servirsi del bene medesimo anche per ragioni e situazioni non connesse all'attività lavorativa (per esempio nel tempo libero). Nella fattispecie, a nostro avviso, bisogna operare una distinzione per stabilire se tale ipotesi rientri o meno nell'ambito del principio della irriducibilità della retribuzione. Non vi sono dubbi che l'uso promiscuo costituisca reddito per il dipendente, stante l'esplicita previsione della normativa previdenziale e fiscale. Il punto è capire se e come l'uso promiscuo possa essere revocato, e quindi se la retribuzione possa essere ridotta, in caso di variazione delle mansioni. Secondo noi assumono portata decisiva le ragioni e le modalità che hanno condotto alla concessione dell'uso promiscuo, in analogia a quanto già esposto per le altre due ipotesi. Si ragioni su questo aspetto. Se l'uso del bene è stato concesso, primariamente e prevalentemente, in ragione delle esigenze aziendali e solo in seguito, promiscuamente, per favorire il lavoratore, a nostro avviso deve ritenersi che - proprio perché il momento genetico e causale della concessione si rinviene in logiche ispirate alla produzione - in caso di variazione delle mansioni l'uso promiscuo possa essere revocato qualora le esigenze produttive non consentano il mantenimento del predetto uso. Diverso è il caso qualora l'uso promiscuo sia concesso secondo una valutazione che tenga conto, quanto meno in modo paritario, sia dell'interesse aziendale che di quello del lavoratore. In tale ipotesi l'uso del bene non è più ancorato esclusivamente, e diremmo primariamente, alle esigenze datoriali, ma è legato anche all'interesse del lavoratore per il quale il predetto uso assume, nell'ambito della retribuzione percepita, non una connotazione meramente variabile o accessoria, bensì un aspetto sostanzialmente stabile e percepito come permanente. Tuttavia, proprio con riferimento alla percezione che si può avere di una voce retributiva, anche in una logica di affidamento e di certezza, accennavamo sopra come siano importanti non solo le ragioni, ma anche le modalità che improntano la concessione dell'uso promiscuo. Pertanto, con riferimento a quest'ultimo profilo, a nostro avviso è assolutamente indispensabile che siano fin dall'inizio ben stabiliti i presupposti che determinano la concessione dell'uso promiscuo e, conseguentemente, i fatti che conducono alla sua revoca. In tal senso è necessario che l'azienda formalizzi i termini della concessione con apposita lettera indirizzata al dipendente, nella quale siano previsti, oltre agli elementi fondamentali che disciplinano l'uso del bene, anche le ragioni poste a base della concessione medesima, compresa, quindi, la possibilità di revoca dell'uso in caso di variazione di mansioni che, nel loro concreto svolgimento, non rispondano più all'interesse aziendale e, quindi, al mantenimento dell'uso del bene. In caso contrario riteniamo che il datore di lavoro non possa revocare la concessione dell'uso promiscuo qualora adibisca il lavoratore a mansioni diverse, salvo dimostrare, con il conseguente e relativo onere probatorio, quanto sopra esposto, e cioè la natura sostanzialmente "modale" e variabile della fattispecie retributiva.
Tutto quello che bisogna sapere prima di ricorrere al lavoro intermittente e non correre rischi inutili Il contratto di lavoro “a chiamata” o contratto di lavoro intermittente è una particolare tipologia di rapporto di lavoro subordinato che prevede prestazioni lavorative discontinue (o intermittenti), ma limitate ai casi previsti dalla legge oppure dalla contrattazione collettiva. La peculiarità di questa tipologia di rapporto di lavoro è data dal fatto che le obbligazioni delle parti insorgono in caso di chiamata. La legge prevede che al contratto di lavoro intermittente si applica, per quanto sia compatibile, la normativa del lavoro subordinato, con una evidente eccezione rappresentata dall’inapplicabilità delle norme che limitano la reiterazione dei contratti a tempo determinato, prevista dal Decreto Legislativo n. 368 del 2001. Nell’ambito del contratto a chiamata, la legge prevede la possibilità di concordare una clausola di disponibilità del lavoratore, a fronte della quale viene riconosciuta allo stesso una specifi ca indennità, a prescindere dalla effettiva prestazione lavorativa. Se viene prevista l’indennità di disponibilità, questa è pari al 20% della retribuzione prevista dal C.C.N.L. (retribuzione composta da: paga base tabellare, contingenza, EDR, ratei di mensilità aggiuntive). In caso di impossibilità a rispondere alla chiamata, il lavoratore deve informare il datore di lavoro e giustifi carne il motivo (malattia o altro evento, e durata dell’impedimento). Per tale periodo di indisponibilità l’indennità sopra indicata non matura. Il rifi uto ingiustifi cato può comportare la risoluzione del contratto di lavoro e la restituzione dell’indennità di disponibilità già percepita, o anche il risarcimento del danno in favore del datore di lavoro. Il contratto di lavoro a chiamata deve essere stipulato in forma scritta e deve contenere i seguenti elementi: durata e ipotesi che consentono la stipula del contratto; luogo e modalità della disponibilità, eventualmente garantita dal lavoratore, e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore che non può essere inferiore a un giorno lavorativo; trattamento economico e normativo spettante al lavoratore e, se prevista, indennità di disponibilità; indicazione di forme e modalità con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l’esecuzione della prestazione, nonché modalità di rilevazione della stessa; tempi e modalità di corresponsione della retribuzione e dell’indennità; eventuali misure di sicurezza specifi che necessarie in relazione alla tipologia di attività dedotta in contratto. Il contratto a chiamata è ammesso per prestazioni di carattere discontinuo e intermittente individuate dai contratti collettivi nazionali di lavoro, oppure, in assenza, per i casi individuati dal D.M. 23 ottobre 2004 (custodi, fattorini, camerieri, personale di servizio e di cucina negli alberghi, trattorie, esercizi pubblici in genere e così via). È previsto inoltre, in via sperimentale, per l’impiego di lavoratori disoccupati di età inferiore a 25 anni o di lavoratori licenziati di età superiore a 45 anni, iscritti nelle liste di mobilità o iscritti come disoccupati ai centri provinciali dell’impiego, oppure pensionati. Ipotesi di ricorso al contratto a chiamata sono rappresentate da prestazioni lavorative da rendersi durante il fi ne settimana, i periodi di ferie estive o nelle vacanze natalizie o pasquali. Il contratto a chiamata è vietato nei seguenti casi: sostituzione di lavoratori in sciopero, unità produttive che nei sei mesi precedenti abbiano effettuato licenziamenti collettivi, unità produttive con sospensione dei rapporti o riduzione del’orario con diritto a trattamento di integrazione salariale, imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi. Il lavoratore deve essere registrato nel Libro Unico del Lavoro al momento della chiamata, ma non deve essere effettuata alcuna registrazione se non viene corrisposta la retribuzione o l’indennità di disponibilità. I vantaggi per il datore di lavoro sono rinvenibili evidentemente nell’utilizzo del lavoratore solo se necessario, nel rispetto di una condotta che evita sanzioni. Per il lavoratore, invece, si ha la possibilità di avere più datori di lavoro, evitando collaborazioni fi ttizie o il ricorso al lavoro nero.
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Legge n. 03/2012 Utilizzare il ‘fallimento del consumatore’ per cancellare i debiti anche di Equitalia. Questa la chance, chiamata ‘esdebitazione’, poco utilizzata in Italia, fino all’attuazione del decreto (previsto dalla legge n. 3/2012) pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 28 gennaio, che fissa i requisiti degli organismi deputati a gestire la procedura. In pochi infatti conoscono la possibilità di presentare, al tribunale, un ‘piano’ di uscita dalla crisi della famiglia e, in questo modo, dopo l’approvazione, far cancellare i propri debiti. Secondo il Tribunale di Busto Arsizio è possibile attivare il procedimento di fallimento del consumatore anche se il creditore è uno solo ed è l’Agente per la riscossione. Ovvero, chi ha una o più cartelle esattoriali di Equitalia che non riesce a pagare può proporre – onde evitare di vedersi ipotecata la casa, bloccato il conto corrente, pignorata la pensione o lo stipendio, fermata l’auto – una sorta di saldo e stralcio, ossia un pagamento a percentuale che, una volta autorizzato dal tribunale, sarà vincolante anche per Equitalia. La richiesta va presentata in Tribunale, con il deposito di un programma di gestione dell’uscita dalla crisi, che viene poi approvato dal giudice. Come funziona I privati o gli imprenditori che non rientrano nella soglia del fallimento (e, quindi, non possono fallire), possono invece accedere a procedure similari al concordato preventivo e al fallimento. Il requisito per accedervi è il sovraindebitamento, vale a dire la situazione di squilibrio economico tra i pagamenti da effettuare e il patrimonio del debitore. Possono attivare la procedura i debitori non soggetti al fallimento: piccoli imprenditori, professionisti, privati in genere. Il privato strozzato dalla crisi o dai debiti con il fisco deve prima rivolgersi al tribunale con una proposta che, se accolta, risulta vincolante per i creditori, anche se non si prevede il pagamento integrale di tutti i debiti. Competente è il Tribunale del luogo in cui il debitore ha la residenza o la sede. Il piano del consumatore – che indica le modalità con cui il privato intende recuperare i soldi per pagare i creditori e come tale pagamento avverrà (tempi e percentuali) – viene redatto con l’ausilio di un professionista (avvocato, commercialista, notaio) o dell’organo di composizione della crisi (d’ora in poi Occ), il che conferma la funzione di “consulenza” al debitore fornita dall’organo stesso, nominato dal Tribunale. Il contenuto del piano deve prevedere: – il pagamento integrale dei crediti impignorabili; – scadenze e modalità del pagamento degli altri creditori, anche suddivisi in classi; – garanzie rilasciate per il puntuale adempimento di quanto proposto; – modalità di liquidazione dei beni; – eventuale previsione di pagamento parziale dei crediti assistiti da privilegio, pegno, ipoteca, a condizione che sia assicurato il pagamento della misura realizzabile liquidando il bene su cui insiste il titolo di prelazione, a valore di mercato; – per i tributi che costituiscono risorse proprie della Ue, Iva e ritenute operate ma non versate è possibile solo la dilazione di pagamento non lo stralcio; – il piano può prevedere l’affidamento del patrimonio disponibile per adempiere alle obbligazioni ad un gestore che esegua la sua liquidazione con la distribuzione del ricavato ai creditori, il gestore deve essere un professionista avvocato o commercialista.
Il comodato in generale; Il comodato “oneroso” o “modale” Il comodato in generale Il contratto di comodato è regolato dall'art. 1803 c.c.. Tale disposizione, al I comma, prescrive che il comodato è il contratto col quale una parte consegna all'altra un bene mobile o immobile, affinchè se ne serva per un tempo o un uso determinato, con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. Il II comma del medesimo articolo specifica che il comodato è un negozio essenzialmente gratuito .Il comodato si perfeziona con la consegna della cosa ed ha carattere obbligatorio , nel senso che il comodatario acquista solo ed esclusivamente un diritto personale all'uso del bene pattuito, in quanto non vi è mai il trasferimento della proprietà del bene concesso in uso. Poi, il comodato è caratterizzato dalla unilateralità , ovvero dal fatto per cui detto negozio sia connotato in genere dalla sussistenza di una obbligazione solo a carico del comodatario, il quale è tenuto a restituire il bene che ha in godimento. Infine, la fattispecie in esame non necessita di forma scritta nemmeno quando riguardi beni immobili. Infine, il comodato può essere fattispecie a tempo determinato, nel senso che le parti prevedono la durata. Se no, tale rapporto, che si dice precario, viene meno quando uno dei contraenti prende l'iniziativa di interrompere il rapporto con un atto unilaterale. Il comodato “oneroso” o “modale” Il comodato è un negozio, come dice il II comma dell'art. 1803 c.c. gratuito. Generalmente si ritiene che il negozio suddetto trovi la sua causa nel rapporto di cortesia e fiducia esistente tra le parti o nella volontà a sopperire ad un’esigenza altrui. Come detto, uno degli elementi essenziali del comodato ex art 1803 II comma, sembrerebbe essere la gratuità . Infatti la previsione di un corrispettivo sarebbe incompatibile con lo schema tipico del comodato, che, come ho detto, si basa sulla fiducia, sulla cortesia o su una esigenza temporanea del comodatario. Tuttavia, la natura e la causa del negozio de quo non vengono meno nel caso in cui i contraenti si accordino per imporre un onere a carico del comodatario stesso . Infatti, il carattere essenzialmente gratuito del comodato non viene meno per l'apposizione a carico del comodatario di un modus, di un onere, purchè esso non sia di consistenza tale da snaturare il rapporto contrattuale (Ex Multis: Cass. Civ. Sent. n. 485 del 2003). In altre parole, è necessario che tale modus non si ponga come corrispettivo del godimento della cosa ed assuma così la natura di una controprestazione. Inoltre, l'elemento della gratuità o della onerosità del contratto in esame deve valutarsi avuto riguardo alla causa del contratto stesso, intesa come funzione economico-sociale che il medesimo è destinato obbiettivamente ad adempiere. Caso pratico: locazione o comodato? Nella realtà quotidiana a volte capita che il titolare di un appartamento lo ceda in uso temporaneo ad un altra persona, senza stipulare per iscritto alcun contratto, senza registrazione, senza predeterminare la durata di tale godimento ma con la previsione di una somma che l'altro deve corrispondere mensilmente al titolare stesso dell'immobile. Ora, proprio alla luce della diffusione di tale “pratica”, è necessario valutare se detta fattispecie sia giuridicamente ascrivibile o al contratto di comodato ex art. 1803 c.c. o alla locazione ex art. 1571 c.c.. L'elemento che contraddistingue tale figure, per certi versi assai simili e per altri assai differenti, al di là del nomen juris utilizzato dai contraenti per qualificare detto negozio, è la previsione, a carico di chi ha il godimento materiale dell'immobile, del pagamento di una somma a titolo di CORRISPETTIVO . Infatti, proprio con particolare riferimento alla cessione del godimento di un immobile ad uso abitativo, la Suprema Corte ha stabilito che la configurabilità di un rapporto di comodato non è esclusa della circostanza che il cessionario sia tenuto al versamento di una somma periodica a titolo di rimborso spese, ove detto contributo si mantenga nei limiti del modus, il quale è compatibile col carattere di essenziale gratuità del comodato medesimo, e non integra una controprestazione a vantaggio del concedete (Cass. Civ. Sent. n. 4976 del 1997; Cass. Civ. Sent. n. 3021 del 2001; Cass. Civ. Sent. n. 2091 del 1985). Alla luce del suddetto consolidato orientamento giurisprudenziale, la fattispecie concreta sopra descritta sarà ascrivibile alla locazione, quando la somma richiesta a colui che ha il godimento del bene integri una vero e proprio corrispettivo, cioè la controprestazione verso, per l'appunto, il godimento altrui del bene considerato, come per esempio, un cano di locazione vero e proprio. In caso contrario, nell'eventualità per cui la somma richiesta per il godimento del bene sia di lievissima entità, simbolica, fuori dal mercato, e quindi non integri una vera e propria controprestazione o un corrispettivo, la fattispecie concreta sarà qualificabile come comodato modale. Quindi, riconducendoci al nostro esempio di comodato d'immobile, il “canone” avrà un importo molto basso, quasi simbolico, fuori dal mercato locatizio. Mancato rilascio del bene immobile concesso in comodato: che fare? Allora, in tale ipotesi è necessario distinguere il caso in cui sia previsto il termine per il rilascio o meno (in questo caso il comodato si dice precario ). Nel primo, nulla questio , nel senso che sarà sufficiente attendere il decorso di tale termine, magari (è sempre meglio) inviando a tempo debito una raccomandata A.R. con cui si intima il rilascio. In tale eventualità, nel caso in cui il comodatario non voglia rilasciare l'immobile, il proprietario può agire con normale citazione o ricorso ex art. 447bis cpc (in teoria questo seconda ipotesi avrebbe dovuto essere più breve come tempi di giustizia, ma in pratica le azioni si equivalgono) Nel secondo caso, invece, la questione è più delicata, perchè il potere di cessare tale rapporto di comodato è riconosciuto all'iniziativa delle parti, le quali, quando lo vorranno e rispettando i normali tempi di disdetta, potranno fare venire meno il rapporto. Infatti, sempre in tale ipotesi, se il comodatario non restituirà l'immobile, il rapporto si trasforma da comodato in occupazione senza titolo. Sul punto la Cassazione è chiarissima, in quanto in un ormai consolidato orientamento afferma che la figura del "precario" ovvero del "comodato precario" (art. 1810 c.c.) si caratterizza per la previsione che la scadenza della validità del vincolo dipende potestativamente dalla volontà del comodante, il quale può farla maturare "ad nutum" mediante richiesta di restituzione del bene. Tale richiesta determina l'immediata cessazione del diritto del comodatario alla disponibilità e al godimento della cosa, con la conseguenza che una volta sciolto per iniziativa unilaterale del comodante il vincolo contrattuale, il comodatario che rifiuti la restituzione della cosa, viene ad assumere la posizione di detentore "sine titulo" e quindi abusivo del bene altrui , salvo che dimostri di poterne disporne in base ad altro rapporto diverso dal precario (Cass civ. 6987/00) Il proprietario, ancora, può ottenere il rilascio agendo con normale citazione o ricorso ex art. 447bis cpc. Tuttavia, sopratutto in tale ipotesi, un orientamento di merito, peraltro minoritario, ritiene esperibile la liberazione dell'immobile tramite il provvedimento d'urgenza ex art. 700 cpc (Trib. Ivrea, 12/08/2004; Pret. Sorrento 25/07/1981 ecc...) Infine, in entrambi i casi il proprietario-comodante può ottenere oltre al risarcimento danni per il mancato rilascio “tempestivo”, anche il risarcimento danni per lite temeraria ex art 96 cpc. Infatti, il Tribunale di Brescia con Sent. 1010/06 ha riconosciuto come fondata e deve essere accolta la domanda di risarcimento danni ex art. 96 cpc. nei confronti del possessore senza titolo che rifiuti di restituire l'immobile al suo legittimo proprietario solamente perche' questi, pur avendo ottenuto la risoluzione del contratto in forza del quale il possessore aveva ottenuto la disponibilita' dell'immobile, non ha ancora un titolo per ottenere la consegna del bene .
Il reato di immigrazione clandestina nell'ordinamento italiano Il fenomeno dell'immigrazione [1] , in cui si è di fronte non a migrazioni ma davanti a migrazioni di popoli, che hanno invaso in maniera presentita, quasi del tutto inaspettata e massiccia, il territorio italiano, è un fenomeno inatteso che ha cagionato situazioni emergenziali e, ancora oggi, non si è usciti dalla legislazione dell'emergenza dello straniero. Lo straniero viene visto come legislazione di emergenza e legislazioni, presumibilmente, non perfette. È ovvio anche la virulenza con cui ondate di persone, le quali si sono riversate sulle coste italiane, hanno creato problemi di sicurezza interna. Tengo a precisare che la stragrande maggioranza dei reati commessi dagli immigrati, per quanto a volte ripugnanti nei reati contro la persona, sono una parte infinitesimale dei reati che commettono gli italiani. Gran parte dei reati sono commessi da immigrati e immigrati clandestini e pare molto arduo che il reato sia cagionato da immigrati che sono in regola con il nostro ordinamento. Circa il 98% dei reati è commesso, appunto, da immigrati non regolari, soprattutto da immigrati giovani, dettata a volte dal disadattamento, dall'incapacità di integrarsi nell'ambiente che li circonda. I reati più gravi - come quelli della mafia, della camorra e via dicendo - sono di esclusiva competenza dei cittadini italiani e negli stessi gli immigrati, quando ci sono, rivestono ruoli marginali, cioè a dire che nessuno ha mai constatato uno straniero a capo di un'organizzazione malavitosa. L'unico, effettivamente, fenomeno criminale associativo, in cui gli immigrati privilegiano, è quello dello sfruttamento della prostituzione, per la ragione che non interessa i nostri fenomeni mafiosi, i quali sono impegnati su tutt'altri settori ben più lucrosi. È chiaro che anche la microcriminalità degli immigrati esige una risposta per il fatto che, di sovente, il cittadino italiano si sente più irritato dalla presenza di questa microcriminalità, mentre la grande, quella mafiosa, di solito passa inosservata per sua stessa indole e per sua stessa natura. A partire dalla legge n.40 del 6 marzo 1998 - denominata legge Turco-Napolitano che si propone di regolare organicamente l'intera materia dell'immigrazione dall'estero - e, successivamente, con la legge n.189 del 20 luglio 2002 - denominata legge Bossi-Fini che prevede l'espulsione, emessa in via amministrativa dal Prefetto della Provincia, dove viene rintracciato lo straniero clandestino, sia immediatamente eseguita con l'accompagnamento alla frontiera da parte della forza pubblica -, la legislazione, nei confronti dell'immigrato, ha subito sempre una maggiore pressione in senso repressivo. Con la legge n.40/1998 (legge Turco-Napolitano) si puniva essenzialmente il traffico di immigrati, la tratta delle persone. Vennero modificati anche gli articoli 600, 601 e 602 del codice penale proprio per venire incontro al tragico fenomeno dello sfruttamento delle giovani donne avviate alla prostituzione e introdotte clandestinamente nello Stato italiano. Con la precedente legge n.39 del 28 febbraio 1990, denominata legge Martelli , con lo scopo di regolare organicamente l'immigrazione, ridefinire lo status di rifugiato, introdurre la programmazione dei flussi dall'estero, precisare le modalità di ingresso e respingimento alla frontiera e il soggiorno in Italia, si era cercato di dare una risposta al problema del diritto d'asilo, garantito dalla costituzione della Repubblica italiana e da tutta una serie di trattati internazionali, problema che sino ad oggi non è stato risolto del tutto, più per motivi procedurali delle lungaggini che per altre ragioni. L'evoluzione normativa in tema di immigrazione clandestina ha subito un primo giro di vite con la legge n.189 del 20 luglio 2002 (legge Bossi-Fini), in cui, e forse per una sorta di nemesi storica, anche questa legge è stata voluta in maniera forte da persone che appartengono alla stessa ideologia. L'impianto della legge non era superficiale, anzi era meritevole per la ragione che questa legge del 2002 prevedeva che il cittadino straniero potesse entrare nel territorio italiano, che tuttora lo prevede, con il mero contratto di lavoro. Si puntava, in sostanza, a garantire la circostanza che il cittadino straniero, il quale doveva fare ingresso nello Stato italiano, entrasse già con un contratto di lavoro e questo gli impediva, ovviamente, di delinquere, per il fatto che se l'immigrante entra in uno Paese, in cui già deve lavorare onestamente, viene sottratto ad eventuali usi o reclutamenti da parte della criminalità. Era previsto, in aggiunta, che doveva essere in possesso di un'abitazione, era previsto lo sponsor cioè a dire il soggetto che doveva prestare la garanzia all'immigrato. Questa idea, pur tuttavia, in sé benefica, è stata stravolta da una circostanza che, in seguito, si è rivelata a quella che oggi ha costretto il legislatore alla nuova legge - c.d. "Pacchetto Sicurezza", n.94 del 15 luglio 2009 - vale a dire la durata del contratto di lavoro, anello perverso della catena. Cosa è accaduto? Avveniva che queste persone entravano come regolari, lavoravano, di seguito, perdevano il lavoro, andavano via o dovevano lasciare il territorio italiano; al contrario, questi individui vivevano o di espedienti o lavoravano a nero. L'articolo 10-bis disciplina il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato. Tale reato si configura come una contravvenzione che sanziona con l'ammenda da 5mila a 10mila € lo straniero che faccia ingresso o si trattenga nel territorio dello Stato [2] . L'ingresso nel territorio italiano è consentito ai cittadini dei Paesi non appartenenti all'UE solamente nel caso in cui siano in possesso di taluni requisiti come: - passaporto valido ed un visto di ingresso non significa aver diritto all'ingresso. L'ingresso dello straniero e soggetto a 3 condizioni quali: il possesso di idonea documentazione atta a confermare il fine e le condizioni del soggiorno; la disponibilità dei mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno medesimo; il fatto che l'ingresso sia avvenuto mercé uno dei valichi di frontiera. Visto di ingresso . Su tale ultima tipologia di atto è compito del Ministero degli esteri il definire le diverse specifiche dei vari visti di ingresso e disciplinare le modalità della concessione. Non possono ottenere il rilascio del visto gli stranieri che sono considerati una minaccia per l'ordine pubblico da parte dell'Italia o di uno dei Paesi dell'area Schengen. Non possono altresì fare ingresso nel nostro territorio gli stranieri espulsi, quelli da espellere, quelli segnalati ai fini della non ammissione per gravi motivi di ordine pubblico, di sicurezza nazionale e di tutela delle relazioni internazionali; quelli condannati per reati legati all'immigrazione clandestina e per altri gravi reati. Circa l'immigrazione per ragioni di lavoro, l'ingresso degli stranieri è limitato e determinato secondo quote annuali, pertanto, le autorità diplomatiche rilasciano i visti di ingresso entro tali quote e secondo le modalità definite dal testo unico che prevede anche la possibilità di rilasciare visti per soggiorni di breve durata validi per non più di 90 giorni. In base all'ordinamento vigente, i documenti che legittimano la permanenza dello straniero nel territorio italiano sono: il permesso di soggiorno rilasciato per un periodo variabile a seconda dei motivi del soggiorno e la carta di soggiorno a tempo indeterminato, il cui rilascio è previsto per gli stranieri stabilizzati. Una volta fatto ingresso nel territorio nazionale, ogni straniero deve fare richiesta del permesso di soggiorno al questore della provincia in cui si trova, entro 8 giorni viene rilasciata. Nella precedente legislatura, con la legge 28 maggio 2007 n.68 , è stata approvata una disciplina legislativa, che non è parte integrante del T.U. sull'immigrazione, relativa ai soggiorni di breve durata, in cui è sancito che per fare ingresso in Italia per un soggiorno che non sia superiore ai 3 mesi e sia volto solamente per motivi di visita, affari, turismo o studio, non necessita del permesso di soggiorno. Inoltre, essa determina che per i soggiorni brevi lo spatium temporis per cui è consentita la permanenza nel nostro territorio sia quello presente nel visto di ingresso. In sostituzione della richiesta di permesso di soggiorno, la legge n. 68/2007 evidenzia, per gli stranieri non dell'UE, una mera dichiarazione di presenza sul lembo territoriale italiano in cui debba esserci la sottoscrizione autografa del richiedente, quale titolo alla permanenza nel nostro Paese per un periodo di tempo ridotto. Per questa dichiarazione sono previste due modalità diverse, a seconda del caso che l'ingresso sia avvenuto da una frontiera esterna all'area dell'accordo di Schengen [3] ovvero dai Paesi dell'aera Schengen: nel primo caso la dichiarazione dovrà essere resa all'autorità di frontiera, nel secondo la dichiarazione dovrà essere presentata entro 8 giorni al questore della provincia in cui lo straniero si trova. Ai fini dell'esecuzione dell'espulsione dello straniero denunciato per il reato di cui stiamo trattando, non è richiesto il rilascio del nulla-osta da parte dell'autorità giudiziaria competente all'accertamento dello stesso reato; nulla-osta che deve, di solito, essere richiesto dal questore nel momento in cui lo straniero viene sotto-posto a procedimento penale e non si trovi in stato di custodia cautelare [4] . Il questore comunica all'autorità giudiziaria, competente all'accertamento del reato, l'avvenuta esecuzione dell'espulsione o, meglio, del respingimento con accompagnamento alla frontiera [5] . Il questore dispone il respingimento con accompagnamento alla frontiera sia per gli stranieri che siano entrati nel territorio dello Stato, sottraendosi ai controlli di frontiera e siano stati fermati all'ingresso o subito dopo, sia nell'ipotesi in cui gli stessi siano stati momentaneamente ammessi nel territorio per necessità di pubblico soccorso e debbano essere allontanati in seguito. Se, tuttavia, lo straniero dovesse fare nuovamente ingresso illegalmente nel territorio dello Stato [6] , verrà attuata l'azione penale per il medesimo fatto e nei riguardi della stessa persona, pur in presenza di una sentenza di non luogo a procedere. È previsto, in aggiunta, che allo straniero espulso venga inibito di rientrare nel nostro territorio per un periodo di 10 anni se non sia in possesso di una speciale autorizzazione del Ministro dell'Interno. È sancito anche che nel decreto di espulsione possa essere previsto un termine breve, che non sia inferiore a 5 anni. Quando viene presentata una domanda di protezione internazionale, il procedimento subirà un arresto [7] . Se, al contrario, nel corso del processo il giudice dovesse acquisire la comunicazione del riconoscimento della protezione internazionale o, meglio, del rilascio del permesso di soggiorno stabilite dal T.U. sull'immigrazione, dovrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere [8] . Il testo che stiamo trattando, inoltre, estendendo al caso in cui il giudice pronunci sentenza di condanna per il reato di ingresso e di soggiorno illegale nel lembo territoriale italiano [9] , novella la facoltà di sostituire la pena con la misura dell'espulsione per un periodo non inferiore a 5 anni. Egli potrà avvalersi di tale facoltà quando riterrà di dovere irrogare una pena detentiva contenuta entro una soglia di due anni senza che ricorrano né le condizioni per ordinare la sospensione condizionale della pena [10] , né le cause ostative [11]. Sotto il profilo processuale, premesso che si tratta con tutta evidenza di un reato perseguibile d'ufficio, la novella prevede uno specifico processo dedicato; la competenza è attribuita al Giudice di Pace ed esclusivamente per l'ipotesi di cui all'art. 10 bis. E' palese, infatti, che tutta la disciplina prevista dal T.U. è orientata a realizzare l'allontanamento dello straniero irregolare dal territorio nazionale; la condanna alla pena pecuniaria di cui al nuovo art. 10 bis non è quindi l'obiettivo principale dell'ordinamento. Inoltre è probabile che l'accertamento della violazione della nuova norma possa avvenire in occasione di altre fattispecie di reato, più gravi, più complesse, che comportino anche provvedimenti di limitazione della libertà personale e di competenza del Tribunale.
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