Mi chiamo Giovanni Orlando, mi occupo di diritto civile, penale, amministrativo e tributario. Ritengo che alla base di ogni causa, specialmente nel settore civile, vi sia necessità di coniugare interessi diversi, dal che, l'importanza dei servizi di mediazione. Tramite una comprensione profonda dei punti di vista reciproci, applicando quelli che sono i principi del diritto e, in generale, strumenti deflattivi e alternativi al contenzioso, si possono trovare soluzioni ragionevoli in tempi che la giustizia non sarebbe in grado di fornire. Ciò permette, inoltre, di avere costi molto competitivi. Opero in tutta Italia.
Lunga esperienza in ambito civile con importanti successi professionali nel settore contenzioso.
Lunga esperienza esperienza in ambito commerciale specie in ambito stragiudiziale (consulenze pre contenzioso).
Lunga esperienza in ambito penale con importanti successi professionali.
Diritto amministrativo, Diritto di famiglia, Unioni civili, Eredità e successioni, Separazione, Divorzio, Matrimonio, Affidamento, Adozione, Tutela dei minori, Incapacità giuridica, Fusioni e acquisizioni, Antitrust e concorrenza sleale, Fallimento e proc. concorsuali, Proprietà intellettuale, Brevetti, Marchi, Franchising, Diritto bancario e finanziario, Investimenti, Usura, Diritto assicurativo, Recupero crediti, Pignoramento, Contratti, Diritto tributario, Diritto del lavoro, Mobbing, Sicurezza ed infortuni sul lavoro, Licenziamento, Previdenza, Diritto sindacale, Violenza, Stalking e molestie, Reati contro il patrimonio, Omicidio, Discriminazione, Sostanze stupefacenti, Diritto penitenziario, Appalti pubblici, Ricorso al TAR, Aste giudiziarie, Diritto internazionale ed europeo, Immigrazione e cittadinanza, Diritto immobiliare, Edilizia ed urbanistica, Diritto condominiale, Locazioni, Sfratto, Diritto dei trasporti terrestri, Incidenti stradali, Multe e contravvenzioni, Diritto marittimo, Diritto aeronautico, Tutela del consumatore, Malasanità e responsabilità medica, Diritto ambientale, Tutela degli animali, Diritto agrario, Diritto del turismo, Diritto dello sport, Tutela degli anziani, Diritto dell'informatica, Privacy e GDPR, Diritto militare, Diritti umani, Arbitrato, Mediazione, Negoziazione assistita, Domiciliazioni.
Il presente commento, prende le mosse dal procedimento penale avviato dalla Procura di Milano nel corso del 2005, a carico degli amministratori dei siti www.coolstreaming.it e www.calciolibero.com. In particolare, la Procura di Milano aveva disposto il sequestro preventivo dei suindicati portali con annessi indirizzi IP dei dati di trasmissione dalla Cina aventi specifiche numerazioni, per aver trasmesso partite di calcio delle quali la querelante aveva i diritti di trasmissione in esclusiva per il territorio italiano. La Procura ne aveva successivamente richiesto la convalida al GIP del Tribunale di Milano che, con provvedimento dell’8 febbraio 2006 aveva rigettato la richiesta. Occorre effettuare, in via preliminare, una panoramica generale sul sistema di trasmissione telematica usato dai siti oggetto di sequestro. Si tratta della Peer –to –Peer Tv, ossia del live streaming P2P. Il primo esempio di trasmissione via streaming, risale al 18 novembre 1994, quando la rockband statunitense “The Rolling Stones” si esibì in un concerto al Cotton Bowl di Dallas davanti a 50.000 fans. La Band decise di rendere disponibile a scopo promozionale i primi 20 minuti dello spettacolo che diventò così il primo concerto in multicast della rete internet. Il precursore delle trasmissioni P2pTv fu senza dubbio coolstreaming, un aggregatore di televisioni online provenienti da vari broadcaster poi tramutato in un portale IpTv/Net-Tv. La particolarità della rete peer to peer è che non consiste in una rete di client e server in senso tradizionale, ma si struttura in una serie di nodi equivalenti (peer) che funzionano al contempo da client e server verso altri nodi della rete aventi gli stessi requisiti. Caratteristica dello streaming live è che ogni soggetto comunica con gli altri per riuscire ad ottenere il file che ricerca. A differenza dello streaming on demand, il file non può essere salvato su hard disk poiché il suo contenuto è disponibile una sola volta, ossia nel momento in cui il flusso di dati audio-video viene trasmesso. La comunicazione tra peer prevede inoltre la condivisione di parti del file in maniera da aumentare la capacità di trasmissione dell’applicazione. Poste le doverose premesse tecniche in forma necessariamente sintetica, passiamo alle norme che vengono in considerazione e che si assumevano violate dall’Ufficio di Procura di Milano: l’art. 2 del Decreto Legge 15/99, convertito con modifiche dalla Legge 78/99 che attribuisce la titolarità dei diritti di trasmissione televisiva in forma codificata alla singole società di calcio di serie A e di serie B; l’art. 171, comma 1, lett. a-bis), della Legge 633/41, così come inserito dall’art. 3 del Decreto Legge 7/05 convertito con modifiche dalla Legge 43/05 che testualmente recita: “salvo quanto previsto dall’art. 171-bis e dall’art. 171-ter, è punito con la multa da lire 100.000 a lire 4.000.000 chiunque, senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma mette a disposizione del pubblico, immettendola in un sistema di reti telematiche, mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera dell’ingegno protetta, o parte di essa”. Orbene, la semplice violazione dei diritti di trasmissione in esclusiva delle partite di calcio, non ha tutela penale. A questa corretta conclusione perviene il GIP di Milano, sancendo l’applicabilità all’eventuale condotta illecita dell’emittente cinese che forniva il servizio di trasmissione delle partite, poi diffuse dai siti sequestrati attraverso la pubblicazione dei cd. “link” (anche) sul territorio italiano, delle norme che sanzionano l’illecito civile, in particolare l’art. 2043 e l’art. 2598 del codice civile, quest’ultimo riguardante fatti integranti concorrenza sleale. Tuttavia, c’è ancora da chiedersi quale sia il bene oggetto di tutela della norma di cui all’art. 171, comma 1, lett. a-bis), della Legge cit. L’oggetto della ripresa televisiva, ossia la partita di calcio, o la trasmissione televisiva in sé? Secondo la Legge sul diritto d’autore cit., le opere dell’ingegno sono espressioni di carattere creativo del lavoro intellettuale appartenenti alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro ed alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione. Occorre, in particolare, che essa sia nuova e diversa rispetto alla realtà preesistente. Ed allora, già questo riferimento alla realtà preesistente, nonché ai caratteri specifici perché si possa parlare di opera dell’ingegno, ma anche la stessa locuzione “opera dell’ingegno”, dovrebbero portare l’interprete ad escludere dalla tutela apprestata dalla legge, semplici manifestazioni della realtà (che è preesistente) all’opera, opera intesa come un lavoro personale, il frutto di un elaborazione, materiale o intellettuale che deve presentare l’apporto ulteriore della novità e dell’originalità. Con ciò, pare evidente doversi escludere la mera partita di calcio quale manifestazione sportiva, dal novero dei beni tutelati dalla Legge cit., espressione di quella realtà preesistente all’opera. Quest’ultima, al contrario, dev’essere intesa quale elaborazione personale della realtà da parte dell’autore, materiale o intellettuale che sia. In verità, il problema non è di così scontata soluzione, se il Tribunale di Milano con ordinanza del 3 settembre 2003, ha avuto modo di affermare che “ l’attività svolta dalla Società Parma A.C. manca di qualsiasi elemento di creatività, talché non può considerarsi opera dell’ingegno. Lo spettacolo della società organizzato, costituito dalla partita casalinga disputata, non è affidato ad altri elementi precostituiti se non le regole tecniche che sovrintendono allo svolgimento delle partite calcistiche, mentre lo spettacolo-partita è privo di qualsiasi connotazione ideativa ma è frutto di casualità e improvvisazione, conseguenza di impegno atletico e di applicazione di regole, senza spazio inventivo ovvero predeterminazione spettacolare”. Tuttavia, e nonostante i giustificati dubbi insorti nella giurisprudenza di merito, è la trasmissione televisiva (ossia l’opera, in senso etimologico quale lavoro materiale) effettuata con mezzi tecnici ad avere (eventualmente) i requisiti dell’opera dell’ingegno. E alla stessa corretta conclusione addiviene il GIP, anzi va oltre, e considerando anche la cd. “telecronaca”, nega alle semplici riprese televisive, anche se effettuate con l’ausilio di imponenti mezzi tecnici e comprensive della telecronaca, i caratteri che delineano l’opera dell’ingegno. Ma c’è di più. Il problema che sta alla base è che, l’emittente cinese non aveva sottratto illecitamente, eludendo le predisposte misure di sicurezza, e così trasmettendo, il flusso audio-video di proprietà dell’emittente italiana. Quelle riprese audio-video, successivamente diffuse in Italia attraverso i link dai portali sequestrati dalla Procura, erano riprese cedute dall’emittente italiana e quindi nella legittima disponibilità dell’emittente cinese, e non riprese televisive dell’emittente italiana (ri)trasmesse illecitamente dall’emittente cinese. Secondo l’informativa della Guardia di Finanza di Milano depositata in Procura, l’illecito penale era palese: “gli operanti accertavano che la violazione del diritto d’autore, documentato dal querelante anche in ragione delle particolari riprese effettuate con le telecamere Sky che valorizzavano la trasmissione dell’evento sportivo, era palese alla luce della comparsa sulle trasmissioni illecitamente ritrasmesse del logo Sky, che ne attestava inequivocabilmente la provenienza”. Sul punto, al contrario, il GIP, ha precisato che “le immagini non recano, infine, il logo di Sky, cioè il segno distintivo che ne indica la provenienza da tale emittente. Va osservato che in ordine a questo aspetto appare essere incorso in una imprecisione il PM laddove ha osservato nella sua richiesta che sulle trasmissioni illecitamente ritrasmesse sarebbe presente il logo di Sky che ne attestava inequivocabilmente la provenienza. Tale circostanza non emerge dalla querela, né dai CD ad essa allegati, né dagli accertamenti della Guardia di Finanza. L’equivoco si deve verosimilmente alla presenza tra i documenti filmati allegati alla querela di alcuni stralci di trasmissioni Sky, regolarmente commentati in italiano, indicati dalla denunciante allo scopo di dimostrare che le riprese trasmesse dalle televisioni cinesi erano identiche a quelle da lei stessa trasmesse in Italia”. Ultima notazione, sull’interessante differenza che, ancora una volta molto correttamente, il giudicante mette in risalto, fra le condotte di immissione nella rete telematica, fatto che dev’essere addebitato all’emittente cinese e che comunque sarebbe avvenuto in Cina, e le diverse condotte di diffusione, nel caso di specie, tramite semplice “link” che rinviavano ad altri siti dai portali sequestrati, ascrivibili agli indagati ma del tutto neutre rispetto alla norma penale contestata. In conclusione, nonostante l’ampiezza e l’importanza dei temi sollevati dal procedimento penale avviato dalla Procura di Milano, che avrebbe potuto costituire una buona occasione per chiarire definitivamente alcuni aspetti non marginali relativi all’essenza stessa dell’opera dell’ingegno e della sua tutela, i presupposti che hanno dato la stura alle indagini, costituiscono solo il frutto di un errore marchiano, presumibilmente dovuto ad una disattenta e superficiale lettura valutativa delle fonti di prova da parte degli investigatori. -avv. Giovanni Orlando-
I. La riscossione esattoriale mediante ruolo è disciplinata in via generale dal Decreto Legislativo 46/1999, che estende alla riscossione coattiva delle entrate dello Stato, anche diverse dalle imposte sui redditi e di quelle degli altri enti pubblici anche previdenziali (INPS, INAIL) l’applicabilità del capo II del titolo I e del titolo II del Decreto del Presidente della Repubblica 602/73 relativo alla riscossione delle imposte sul reddito. Le norme di cui al capo II del titolo I e del titolo II del DPR 602/73 applicabili dunque ad ogni forma di riscossione esattoriale, riguardano, in particolare, la possibilità di adottare la misura cautelare del fermo amministrativo di beni mobili registrati (cosiddette ganasce fiscali), e la possibilità di iscrivere ipoteca sugli immobili del debitore e dei coobbligati per un importo pari al doppio delle somme complessivamente iscritte. Prima di passare all’esame dei singoli casi oggetto della presente disamina, è bene richiamare alcune delle norme fondamentali. L’art. 50 del DPR 602/73, comma 2: se l’espropriazione non è iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l’espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica da effettuarsi con le modalità previste dall’art. 26 di un avviso che contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni. L’art. 57 del DPR 602/73 (con riferimento all’espropriazione tributaria): non sono ammesse: a) le opposizioni regolate dall’art. 615 del codice di procedura civile, fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni; b) le opposizioni regolate dell’art. 617 del codice di procedura civile relative alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo esecutivo. In proposito, è utile precisare che per la riscossione di entrate non tributarie e previdenziali è ammissibile l’opposizione ex art. 615 del codice di procedura civile non solo per questioni attinenti la pignorabilità dei beni ma anche per fatti estintivi del credito, sopravvenuti alla formazione del titolo (come la prescrizione); è ammissibile inoltre l’opposizione ex art. 617 del codice di procedura civile anche per vizi formali del titolo esecutivo o della cartella. L’art. 24 del D. Lgs. 46/1999 comma 5: contro l’iscrizione a ruolo (di crediti aventi natura previdenziale) il contribuente può proporre opposizione al giudice del lavoro entro il termine di 40 giorni dalla notifica della cartella di pagamento. L’art. 21 del D. Lgs 546/92 in materia di impugnativa davanti le Commissioni Tributarie: il ricorso deve essere proposto a pena di inammissibilità entro sessanta giorni dalla data di notificazione dell'atto impugnato. La notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del ruolo. II. Le notifiche eseguite ai sensi dell’art. 139 c.p.c, ovvero ai sensi dell’art. 7 della Legge 890/82, richiedono che si dia espressamente atto oltre che dell’inutile tentativo di consegna a mani proprie per l’assenza del destinatario, e altresì, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto, (onde, nel riferire al riguardo, sebbene non debba necessariamente fare uso di formule sacramentali, deve, nondimeno attestare chiaramente l’assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dal comma 2° dell’art.139 c.p.c. --la successione preferenziale dei quali è tassativamente prevista--), è, pertanto, nulla la notificazione nelle mani dei soggetti diversi dal destinatario quando la relazione dell’ufficiale notificante non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate nella norma citata. Ulteriore elemento di nullità della notificazione nelle mani dei soggetti diversi dal destinatario, consegue alla omessa spedizione della raccomandata stabilita dal quarto comma dell’art 139 c.p.c. In ordine alla notifica della cartella di pagamento, bisogna considerare inoltre la sentenza n. 909 del 23 ottobre 2009, della Commissione tributaria provinciale di Lecce che, ha affermato come inesistente la notifica a mezzo posta degli atti di Equitalia eseguita direttamente e non tramite agente all’uopo abilitato. Difatti, sebbene l’art. 26, comma 1, secondo periodo, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, rubricato “Notificazione della cartella di pagamento”, preveda la possibilità, per gli Agenti della riscossione, di notificare i propri atti per posta mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento, esso, tuttavia, individua espressamente quali agenti notificatori gli ufficiali della riscossione o altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge ovvero, previa eventuale convenzione tra comune e concessionario, i messi comunali o gli agenti della polizia municipale. In base all'art. 26, comma 1, primo periodo, citato, quindi, la notificazione deve sempre essere effettuata da un agente notificatore abilitato, il quale può anche avvalersi del servizio postale, mentre sono certamente illegittime le notifiche eseguite a mezzo del servizio postale direttamente e non tramite agente all’uopo abilitato. Poiché, tuttavia, nel caso de quo, le condizioni di cui all’art. 26 cit. non sono state rispettate, è evidente l’inesistenza della notifica. A nulla vale invece, il solo secondo periodo del succitato art. 26, primo comma, secondo il quale "la notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento". Infatti, mentre il primo periodo del comma 1 dell'art. 26 si limiterebbe a individuare - con un’elencazione tassativa - i soggetti legittimati all'esecuzione della notifica, il secondo periodo del comma 1 indicherebbe il modo attraverso il quale i soggetti di cui al periodo precedente possono eseguirla. In pratica, pur rimanendo fermi i soggetti autorizzati, questi, a loro volta, invece che direttamente, possono ricorrere all'ausilio del servizio postale per la notifica degli atti. Per quanto riguarda la mancanza della relata di notifica sull’originale dell’atto notificato, sul punto, v’è da considerare l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione, il quale afferma che costituendo la relata di notifica momento fondamentale del procedimento notificatorio, sia ai sensi del codice di rito che delle norme speciali, la mancata apposizione della stessa sull'originale o sulla copia consegnata al destinatario, ai sensi dell'art. 3 della legge n. 890 del 1982, comporta, non l'irregolarità,ma la nullità della notificazione (Corte di Cass., sent. n. 9377 del 21 aprile 2009; Corte di Cass., sent. n. 9493 del 22 aprile 2009). III. Nel merito della illegittimità della maggiorazione di cui al 6° comma dell’art. 27 della legge 689/81 “secondo cui in caso di ritardo nel pagamento la somma dovuta è maggiorata di un decimo per ogni semestre a decorrere da quello in cui la sanzione è divenuta esigibile e fino a quello in cui il ruolo è trasmesso all’esattore”, sussistono sufficienti elementi di logica giuridica di disamina della subiecta materia per dedurre la illegittimità e/o la nullità della cartella esattoriale che tali maggiorazioni riporta, quantificate in ragione delle semestralità la cui decorrenza è rimessa alla libera volontà e decisione dell’Ente Creditore, quell’ente, cioè, che ad libitum provvede alla formazione ed alla trasmissione dei ruoli -resi esecutivi dalla sottoscrizione del titolare dell’ufficio –al Concessionario che curerà la riscossione delle somme iscritte. Il ricorso alla suddetta norma, richiamata dall’art. 206 del c.d.s., postula, necessariamente, o il mancato pagamento in misura ridotta —pari alla sanzione minima prevista dalla norma violata--, entro giorni 60 dalla notifica della sanzione pecuniaria amministrativa connessa alla violazione di norme sulla circolazione stradale, oppure il mancato pagamento entro trenta giorni dalla notifica della ordinanza –ingiunzione emessa dal Prefetto a seguito del rigetto del ricorso avverso il verbale di contestazione. Nell’uno e nell’altro caso, esauriti i mezzi di impugnazione con esito negativo, sia il verbale di contestazione che la ordinanza-ingiunzione costituiscono titoli esecutivi, rispettivamente, il primo per una somma pari alla metà del massimo della sanzione edittale e, la seconda, per l’ammontare della somma ingiunta pari al doppio del minimo edittale oltre le relative spese. Per la riscossione di tali somme-divenute esigibili, l’art. 206 del c.d.s. rimanda alle norme di cui all’art. 27 della legge 689/81 la cui formulazione -contestuale alla depenalizzazione— doveva servire alla riscossione delle sanzioni comminate in ordinanze-ingiuntive emesse dal Prefetto per violazione diverse dalla tipologia delle violazioni alle norme del codice della strada. In tale contesto, l’ordinanza-ingiunzione, quale provvedimento di cornice di un iter procedurale di cui agli artt. 17 e 18 della legge 689/81 diveniva titolo esecutivo per una somma determinata –motu proprio—dal Prefetto con ordinanza motivata nella quale pure si riporta l’avviso che l’eventuale ritardo nel pagamento comporterà l’applicazione della sanzione accessoria costituita dalla maggiorazione sopra indicata. Soltanto in tal caso, il mancato pagamento delle somme ingiunte comportava e comporta la maggiorazione del 10% semestrale a decorrere da quel semestre in cui la sanzione era ovvero diviene esigibile –quindi subito—e fino a quello in cui il ruolo è trasmesso dall’Ente creditore al Concessionario. Diversamente avviene nel sistema configurato del nuovo codice della strada ove, a parte che non vi è traccia della notifica di alcuna sanzione accessoria, e comunque, a seguito della violazione alle norme sulla circolazione stradale, il verbale di contestazione la cui sanzione non è stata corrisposta nella misura ridotta entro il termine di sessanta giorni, automaticamente, ex lege e secondo la previsione normativa di cui all’art. 203 comma 3°del cds, diviene titolo esecutivo, proprio in deroga alle disposizioni di cui all’art. 17-18 della legge 689/81 che trovano applicazione, ut supra, per la emissione della ordinanza ingiunzione relativa a fattispecie che partecipano ad una tipologia di violazioni diverse da quelle del c.d.s. Similmente, ex lege—art- 204 comma 3° del cds--, diviene esecutiva l’ordinanza-ingiunzione, emessa dal Prefetto a seguito di rigetto del ricorso avverso il verbale di contestazione qualora non si provveda al pagamento entro trenta giorni dalla sua notificazione. La cognizione, a priori, del quantum debeatur, per i menzionati due titoli esecutivi, costituisce un ulteriore elemento di differenziazione con la ordinanza-ingiunzione disciplinata dalla legge 689/81, avulsa da ogni riferimento alle norme del c.d.s. ed emessa dal Prefetto che ne determina il quantum a posteriori, con l’avviso debitamente notificato dell’applicazione della sanzione accessoria costituita dalla maggiorazione di che trattasi. Ne consegue che il legislatore con la formulazione dell’art. 27 della l. 689/81 –quando, cioè non era ancora in vigore la nuova normativa del c.d.s.—DLgs 30 aprile 1992 n. 285—ha inteso sanzionare ulteriormente il responsabile della violazione, prevedendo con tale norma –in sostituzione degli interessi legali o risarcitori o corrispettivi una maggiorazione della sanzione principale mediante una sanzione accessoria nella misura, alquanto penalizzante, del 10% semestrale dal giorno della esigibilità fino a quello della trasmissione del ruolo esecutivo all’esattore. Seri dubbi di legittimità subentrano se una simile maggiorazione, per una presunzione di estensibilità coinvolgesse i due titoli esecutivi che trovano la loro fonte nella violazione di norme sulla circolazione stradale e la cui sanzione principale --già predefinita nei termini di cui al 3°comma dell’art .203 cds, per il verbale di contestazione, ed al 1° comma dell’art. 204 per la ordinanza-ingiunzione --venisse ulteriormente aggravata da una sanzione aggiuntiva del 10% semestrale ai sensi del 6° comma dell’art. 27 della legge 689/81. Di talché è da ritenere che il legislatore con l’art. 206 del cds abbia fatto richiamo al menzionato art. 27 non per estendere al primo l’applicabilità del 6° comma, bensì per mutuare le modalità di riscossione delle somme dovute a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria. Allo stato è a dire che il legislatore -tam dixit quam voluit- con dedotta esclusione della maggiorazione semestrale non rilevabile aliunde: maggiorazione illegittima se applicata alle somme di cui ai titoli esecutivi originati dalla violazione di norme del codice della strada. Sotto altro profilo si appalesa la illegittimità di una cartella esattoriale che tali maggiorazioni espone –in aggiunta alla sanzione principale –nell’ottica delle modalità di riscossione in base alle norme per le imposte dirette ai sensi del ricordato art. 27 comma 1° L.689/81. Ciò che accomuna l’art. 27 L.689/81 e l’art. 206 cds, che ad esso fa richiamo sul tema, riguarda la predisposizione e la trasmissione dei ruoli dall’ente creditore al concessionario una volta divenuti titoli esecutivi il verbale di contestazione e l’ordinanza –ingiunzione. L’univoca interpretazione delle modalità di riscossione non risucchia affatto la maggiorazione del 10% semestrale di cui al 6° comma dell’art. 27, bensì circoscrive il riferimento alle sole norme delle imposte dirette previste per l’esazione di queste e delle ordinanze-ingiunzione della prima tipologia non connessa alla violazione delle norme del cds. La ratio di tale richiamo consegue evidentemente all’intento del legislatore di prevenire comportamenti scorretti, ai sensi dell’art. 1175 c.c., da parte di enti creditore tentati a formalizzare e trasmettere i ruoli esecutivi alla fine del 5° anno –termine di prescrizione del credito—per lucrare della sanzione aggiuntiva del 10% semestrale. In ultimo, v’è da segnalare la sentenza n. 3701/2007, con la quale la Suprema Corte ha sancito inequivocabilmente il principio dell'illegittimità della maggiorazione, sempre conteggiata nelle cartelle di pagamento. Infatti, l’applicazione omnia di detta maggiorazione determinerebbe in capo alla Pubblica Amministrazione un paradossale interesse che il debitore possa provvedere al pagamento il più tardi possibile. Pertanto si rileva la nullità della cartella esattoriale e della notifica del verbale, anche in considerazione che la nullità della notificazione del verbale di accertamento, come sopra dedotto, infirma e rende nulla per trasmissione la stessa cartella di pagamento comunque da considerarsi autonomamente viziata per quanto anzidetto, determinando l’impossibilità giuridica dell’acquisto dell’efficacia di titolo esecutivo e, conseguentemente la nullità del citato atto di riscossione, qual è appunto la cartella esattoriale. IV. Il Decreto Legge n. 223/2006 (c.d. decreto Bersani) convertito nella legge 248/06, ha modificato l’art.19 comma 1 del D. Lgs 546/92 inserendo due nuove previsioni in ordine agli atti impugnabili presso le Commissioni Tributarie e cioè quelli inerenti l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’art. 77 del DPR 602/73 e quelli inerenti il fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 del cit. DPR; ciò non ha impedito alla giurisprudenza (cfr., Cassazione Civile, Sez. Un., 07 maggio 2010 n. 11087) di fare chiarezza, stabilendo che la giurisdizione si determina in dipendenza della natura del credito azionato. Pertanto, se la pretesa fatta valere è di carattere tributario, il contribuente potrà opporsi ricorrendo alla competente Commissione Tributaria. Ad espropriazione forzata avviata, vale a dire con il pignoramento, si dovrà però tener conto dei limiti di cui all’art. 57 sopra citato. Se la pretesa azionata avrà natura previdenziale, oltre a trovare applicazione l’art. 24 del D. Lgs. 46/1999 per i soli motivi attinenti al merito della pretesa, la giurisdizione sarà del giudice del lavoro ai sensi dell’art. 618 bis del codice di procedura civile per quanto riguarda sia l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.,1 comma che l’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, 1comma, c.p.c. La giurisprudenza di merito ha avuto modo di affermare che “il termine previsto dal 5 comma del citato art. 24 è accordato per l’opposizione nel merito della pretesa contributiva e non per disciplinare la sola azione esecutiva; prova di ciò si ha nella circostanza che (comma 6) il giudizio di opposizione contro il ruolo è regolato dagli artt 442 e seguenti cpc, mentre le opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi si propongono nelle forme ordinarie (art. 29 cit. D. Lgs. 46/99), dunque con le modalità di cui agli artt. 615 e seguenti c.p.c.” (fra le tante, Tribunale di Lecce, sez. lavoro, n. 10633 del 29/10/2009). Invero, con l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., avente ad oggetto una domanda di accertamento negativo in ordine alla sussistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata, il contribuente potrebbe sempre rilevare l’illegittimità dell’azione esecutiva avviata dal concessionario per cause sorte successivamente alla notifica della cartella, facendo valere, come nel caso in esame, la prescrizione del credito. In tutti gli altri casi la giurisdizione è del giudice ordinario e sarà ripartita in base ai consueti criteri di competenza per valore. In ultima analisi, per le pretese extratributarie, se si vuole contestare non il merito della pretesa, bensì i vizi formali dell’atto esecutivo o degli atti prodromici all’esecuzione vera e propria (vizi intrinseci, difetto di notifica o di motivazione, etc.), il rito applicabile è quello della opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 del codice di procedura civile da proporsi entro venti giorni dalla notifica. Se invece si vuole contestare l'insussistenza del diritto a procedere in via esecutiva per fatti sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo, ovverosia, come nel caso in esame, la prescrizione maturata dopo l’irrogazione della sanzione, il contribuente potrà sempre proporre (in caso di pretesa extratributaria) l’opposizione all'esecuzione ai sensi dell’art. 615 del codice di procedura civile; qualora si tratti di un credito avente natura previdenziale, l’opposizione si presenterà nelle forme di cui all'articolo 618 bis del codice di procedura civile. In merito alle sanzioni amministrative, ai fini dell’esercizio dell’opposizione all’esecuzione contro la cartella di pagamento, il preavviso di fermo o la cd. ipoteca esattoriale per importi non superiori ai 15.490,00 Euro, la competenza per materia attribuita al giudice di pace dall’articolo 22 bis della legge 24 novembre 1981 n. 689 si estende anche alle opposizioni all’esecuzione con cui si faccia valere l’inesistenza del credito o la sua successiva estinzione (cfr., Cass., 18 luglio 2005 n. 15149, secondo la quale ove si contesti, prima dell’inizio dell’esecuzione, la legittimità dell’iscrizione al ruolo per la mancanza di un titolo idoneo, o si adducano fatti estinti sopravvenuti alla formazione del titolo, giudice competente deve ritenersi, in applicazione del criterio ex art. 615 primo comma c.p.c., quello ritenuto idoneo dal legislatore a conoscere della sanzione, cioè quello stesso indicato dalla legge come competente per l’opposizione al provvedimento sanzionatorio). La Cassazione ha anche affermato l’autonoma impugnabilità della comunicazione di avvio della procedura di fermo amministrativo, cioè del c.d. preavviso di fermo, costituente l’unico atto di una sequenza procedimentale –emanazione del provvedimento di fermo, preavviso ed iscrizione del provvedimento emanato- mediante il quale il contribuente viene a conoscenza dell’esistenza, nei suoi confronti, di una procedura di fermo amministrativo del veicolo, e che è quindi finalizzato ad assicurare, mediante una pronta conoscibilità del provvedimento, un’ampia tutela del contribuente destinatario, svolgendo una funzione assolutamente analoga a quella dell’avviso di mora nel quadro della comune procedura esecutiva esattoriale (cfr., Cass., Sezioni Unite, n.ro 10672 dell' 11 maggio 2009). Passando al merito, nel prosieguo delle avviate riscossioni esattoriali sarà verosimilmente adottato l’avviso avente ad oggetto l’intimazione ad adempiere, e la conseguente comunicazione di avvio della procedura di fermo amministrativo; presumibilmente, il concessionario della riscossione potrà altresì iscrivere ipoteca sugli immobili del contribuente. Conclusivamente, il limitato portato applicativo dell’art. 57 del DPR 602/73 alla singola ipotesi della riscossione tributaria, limitatamente alla sola fase dell’espropriazione, e la natura del fermo quale misura cautelare, inducono a ritenere che, sia la cartella di pagamento che gli atti successivi, segnatamente, gli ultimi due atti dianzi indicati (il fermo e/o l’ipoteca) saranno impugnabili: a) in caso di pretesa tributaria, con esclusione della fase espropriativa, davanti alla Commissione Tributaria Provinciale entro i termini di cui all’art. 21 del D. Lgs 546/92; b1) in caso di pretesa previdenziale, per motivi attinenti esclusivamente al merito ex art. 24, D. Lgs. 46/99, con ricorso in opposizione al giudice del lavoro entro il termine di 40 giorni dalla notifica della cartella di pagamento; b2) con l’opposizione all’esecuzione per fatti sopravvenuti alla formazione del ruolo (prescrizione) ex art. 615 del codice di procedura civile nelle forme di cui all’art. 618 bis dello stesso codice davanti al giudice del lavoro; c) nel caso di credito di altra natura (sanzioni amministrative) con l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 del codice di procedura civile davanti al giudice ordinario (Giudice di Pace fino ad Euro 15.490,00). Senza attendere gli ulteriori atti della riscossione, è sempre possibile –in caso di intervenuta prescrizione- avanzare domanda di sgravio ai singoli enti impositori interessati. Lo sgravio è il provvedimento attraverso il quale l’ente dispone la cancellazione totale o parziale dal ruolo di un importo precedentemente iscritto, qualora sia dimostrata l'inesistenza totale o parziale della pretesa creditizia per l’avvenuta prescrizione. In considerazione delle modifiche in materia introdotte dal D. L. 40 del 25 marzo 2010 (convertito, con modifiche, nella legge 22 maggio 2010 n. ro 73), si rammenta che in caso di sgravio o pagamento, l’ente creditore deve rilasciare al contribuente, in triplice copia, una dichiarazione attestante l’avvenuto pagamento ovvero lo sgravio totale riconosciuto. La liberatoria così rilasciata è opponibile al concessionario direttamente da parte del contribuente medesimo. V. La Corte costituzionale con l’ordinanza n. 377 ha dichiarato illegittima la cartella di pagamento priva dell'indicazione del responsabile del procedimento. L'indicazione del responsabile del procedimento costituisce infatti un requisito fondamentale della cartella esattoriale dal momento che «l'obbligo imposto ai concessionari di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa, la piena informazione del cittadino e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione predicati dall'art. 97, primo comma, della Costituzione». Non appena è stata resa pubblica la citata ordinanza Equitalia s.p.a. che gestisce la riscossione dei tributi su tutto il territorio nazionale ha adottato, nel giro di pochissimi giorni, tutti gli accorgimenti tecnici necessari perché le nuove cartelle contenessero tutte le indicazioni. Oggi tutte le cartelle sono regolari. Il problema rimane per tutte le cartelle emesse sino alla data dell’ordinanza che sono, in genere, prive della suddetta indicazione. Queste cartelle hanno acceso un numero incalcolabile di liti ed i contribuenti non intendono darsi per vinti. L'ordinanza vale anche "in ritardo„ Migliaia di cittadini che hanno fatto ricorso contro le Cartelle da "multe pazze" sono tuttora in attesa di udienza davanti al Giudice di Pace. Può darsi che al momento in cui è stato depositato il ricorso, la Corte Costituzionale non avesse ancora emesso l'esplosiva ordinanza N. 377. Come si fa a introdurla, nel giudizio pendente, come motivo di illegittimità della cartella? Le 'strade sono due. La prima: depositare una memoria con il nuovo motivo di ricorso alla cancelleria dei giudice al quale è stata assegnata la pratica (nome del giudice e numero di ruolo della causa vengono forniti al momento del deposito del ricorso). Seconda strada: aggiungere i motivi di ricorso durante la prima udienza. Qualora i termini sono scaduti, immaginiamo il caso più complesso: Tizio ha ricevuto una Cartella da multe. Nella Cartella non c'è l'indicazione del responsabile del procedimento (dunque è illegittima) ma entro i fatidici trenta giorni non è stato fatto ricorso. Si può ancora fare qualcosa? La risposta è si. Il cittadino, non potendo più aggredire" la Cartella, dovrà fare opposizione alla sua esecuzione. Potrà farlo con un ricorso al Giudice di Pace se la richiesta di pagamento nella Cartella non supera un certo limite (in genere 2.580 euro) oppure al Tribunale Civile. La procedura è più complessa del solito, ma vale la pena tentare. Va preliminarmente osservato che le opposizioni nel processo esecutivo trovano la loro prima ragion d'essere nella cosiddetta efficacia incondizionata del titolo esecutivo e più precisamente, nell'attitudine del titolo a fondare l'avvio e lo svolgimento indisturbato del processo esecutivo in funzione dell'attuazione coattiva del diritto. Principio quello sopra indicato che si ritiene ben si adatti anche alla procedura espropriativa promossa dall'agente della riscossione in base al ruolo. Anche il ruolo - così come qualsivoglia altro titolo esecutivo tassativamente indicato nell'art. 474 del Cod. di proc. civ. - può essere considerato l'unica condizione necessaria e sufficiente che legittima l'azione esecutiva dell'agente della riscossione allorquando agisce in forza delle disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito recate dal D.P.R. n. 602/1973. Con la conseguenza che, analogamente a quanto avviene nell'esecuzione disciplinata dal codice processuale, le eventuali discordanze tra la situazione che risulta dal titolo e la realtà giuridica, nonchè le eventuali illegittimità degli atti del processo esecutivo o della loro direzione soggettiva od oggettiva, non possono essere fatte valere che in una sede diversa dal processo esecutivo. In quella separata sede - che allorquando si proceda con il rito ordinario è un autonomo giudizio di cognizione - l'opponente tende a contestare: a) il fondamento dell'esecuzione intrapresa (cioè del processo esecutivo) e, quindi, il “se” dell'esecuzione stessa e, pertanto spiega "opposizione all'esecuzione"; b) la legittimità dello svolgimento dell'esecuzione e, quindi, il "come " dell'esecuzione e, spiega "opposizione agli atti esecutivi"; c) insieme fondamento e legittimità di svolgimento dell'esecuzione in sede di distribuzione della somma ricavata dall'espropriazione. Nessuna opposizione può essere proposta se un processo esecutivo (anche fiscale) non è iniziato o preannunziato con la notificazione del precetto (o del ruolo, tramite la cartella esattoriale). Esecuzione ed opposizione sono caratterizzate da una netta autonomia strutturale e da una stretta coordinazione funzionale. Le opposizioni nel processo esecutivo sono disciplinate nel titolo quinto del libro terzo del codice processuale, cioè dagli articoli dal 615 al 622 c.p.c., e dal disposto dell'art. 512 dello stesso codice. Il suddetto titolo è suddiviso in due capi: a) il Capo 1° che si occupa delle opposizioni del debitore e del terzo assoggettato all'esecuzione e, più precisamente: nella prima sezione, delle opposizioni all'esecuzione (art. 615 c.p.c.); nella seconda Sezione (art. 617 c.p.c.) delle opposizioni agli atti esecutivi; b) il Capo 2° che si occupa delle opposizioni di Terzi (art. 619 c.p.c.). L'art, 512 inserito nella fase satisfattiva del procedimento espropriativo, cioè nella fase relativa alla distribuzione della somma ricavata dall'esecuzione, concerne le controversie che possono insorgere tra i creditori in sede di riparto. Nel nostro sistema non esistono altre forme di opposizione nel processo espropriativo disciplinato dal codice di procedura civile oltre quelle sopra indicate. Conversione del pignoramento (art. 495..c.p.c.) e riduzione del pignoramento (art, 496 c.p.c.) - ritenute inammissibili nella esecuzione fiscale disciplinata dal D.P.R. n. 602/1973 - non rientrano nella categoria delle opposizioni di cui non evidenziano le caratteristiche. Infatti, con le iniziative in discorso non si contesta nè il "Se" nè il “Come" dell'esecuzione, salva, si intende, la possibilità che nel relativo procedimento incidentale si compiano degli sconfinamenti sul "se" o vengano commesse delle irregolarità: sconfinamenti e irregolarità ovviamente denunciabili, con l'opposizione all'esecuzione gli uni, e con l'opposizione agli atti esecutivi le altre" . Vedremo appresso che le disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito stabiliscono che le opposizioni regolate dagli arti. 615 e 617, del codice di procedura civile non sono ammesse (art. 57 del Dpr. n.602/73). VI. La contestazione dell'esistenza del titolo esecutivo o della legittimità della direzione soggettiva od oggettiva dell'impiego del titolo stesso, così come l'affermazione che il titolo esecutivo non dovrebbe esistere, sono i diversi concreti aspetti che la legge prende in considerazione in modo globale con l'impiego della formula della constestazione del diritto a procedere ad esecuzione forzata . Consegue che il contenuto minimo dell'opposizione all'esecuzione è rappresentato dalla domanda di accertamento negativo del diritto di procedere ad esecuzione forzata . L'opposizione agli atti esecutivi, come già osservato, investe il come dell'esecuzione forzata, cioè la regolarità formale del titolo esecutivo e degli altri atti della procedura espropriativa. La funzione tipica dell'opposizione agli atti esecutivi è individuabile, pertanto, "nella contestazione delle modalità dell'esercizio concreto dell'azione esecutiva e nell'individuazione del metro di valutazione di tali modalità nella loro regolarità formale . Contestandosi la regolarità formale del titolo, non si pone in discussione il diritto di procedere all'esecuzione di cui il titolo costituisce la necessaria condizione. E la giurisprudenza ha avuto occasione di affermare che la contestazione della regolarità formale del titolo esecutivo rimane praticamente limitata al difetto di spedizione in forte esecutiva . Va, però, subito precisato che "le irregolarità (del titolo esecutivo) che danno luogo a nullità investono il “ se “ dell'esecuzione e perciò costituiscono materia di opposizione all'esecuzione". Le opposizioni regolate dagli articoli da 615 a 618 del codice di procedura civile non sono ammesse, ma il debitore esecutato non è lasciato senza tutela. Il legislatore, infatti, ha apprestato in favore del contribuente debitore alcuni. rimedi per contestare la procedura di riscossione coattiva illegittima. Il primo di tali rimedi è ravvisabile nel disposto dell'art. 19 del D. Lgs. N. 546/1992.(atti impugnabili), che offre al contribuente di predisporre una sorta di difesa preliminare: infatti esso prevede la possibilità di adire la competente Commissione tributaria provinciale per impugnare il ruolo, o meglio, la cartella esattoriale notificata, cioè, un atto che precede ancora la vera e propria fase della riscossione coattiva in queste due ipotesi: 1) che il ruolo non sia stato preceduto da un avviso di accertamento o da un provvedimento di irrogazione di sanzioni pecuniarie; 2) che il ruolo presenti dei vizi intrinseci propri. I rimedi apprestati dagli articoli 57-58-e-59 del D.P.R. n. 602/1973 riguardano, invece, la riscossione coattiva vera e propria, cioè, l'esecuzione fiscale intrapresa dall'agente della riscossione in base al ruolo. I rimedi sopra surrichiamati hanno sicuramente natura giurisdizionale e, concernono, rispettivamente, l'opposizione di terzi e l'azione giudiziaria. Si richiedono al giudice ordinario competente per territorio con ricorso contro gli atti esecutivi dell'agente della riscossione. Con il rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi che si propone con ricorso alla Commissione Tributaria vanno denunziati anche i vizi formali della cartella di pagamento e del pignoramento. La dottrina non ha mancato, però, di ricordare che nell'ipotesi di nullità insanabili della cartella di pagamento, le opposizioni possono proporsi, anche avverso l'atto conclusivo dell'espropriazione.( pignoramento ) in quanto, la nullità della cartella di pagamento investe e travolge tutti gli atti successivi , in omaggio al principio che l'atto nullo non può produrre alcun effetto. L'atto conclusivo dell'espropriazione ha la natura di provvedimento giurisdizionale impugnabile dinanzi al giudice dell’esecuzione. I terzi che pretendano di avere la proprietà e altro diritto reale sui beni pignorati possono proporre opposizione, con le limitazioni stabilite dall'art. 57, secondo comma del D.P.R. n. 602/1973, e, quindi far valere l'inefficacia del pignoramento, mediante ricorso al giudice dell'esecuzione, prima della data fissata per il primo incanto. VII. Non sono ammesse :a) le opposizioni regolate dall'articolo 615 del codice di procedura civile, fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni; b) le opposizioni regolate dall'articolo 617 del codice di procedura civile relative alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo esecutivo. 2. Se è proposta opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, il giudice fissa l'udienza di comparizione delle parti avanti a sé con decreto steso in calce al ricorso, ordinando al concessionario di depositare in cancelleria, cinque giorni prima dell'udienza, l'estratto del ruolo e copia di tutti gli atti di esecuzione. Per le garanzie giurisdizionali relative alle entrate non devolute alle commissioni tributarie, vedi l'art.29 del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n.46, Le disposizioni del presente articolo vanno correlate con quelle del successivo articolo 60, concernente la sospensione dell'esecuzione da parte del giudice dell'esecuzione. La materia disciplinata da tali disposizioni e da quelle del seguente articolo 59 (risarcimento dei danni) era in precedenza regolata, sino al 30 giugno 1999, dall'articolo 53 dello stesso decreto n. 602/73 ora modificato. Secondo tale previgente disciplina 1e opposizioni all'esecuzione e quelle contro gli atti esecutivi regolate dagli articoli da 615 a 618 c.p.c. non erano ammesse, la sospensione dell'esecuzione da parte del giudice ordinario era consentita solo in caso di opposizione di terzo ex art.619 e l'azione giudiziaria per il risarcimento del danno - in alternativa, ma anche a conferma dei predetti limiti posti alla tutela giurisdizionale - era data solo dopo il compimento dell'esecuzione, Nel sistema introdotto con la riformulazione delle norme concernenti la specifica materia, per un verso, si è soppressa la speciale "giurisdizione" in precedenza accordata, dal previgente articolo 53 del D.P.R. n.602/73, all'Autorità amministrativa, ivi compreso il quasi esclusivo potere di sospensione dell'esecuzione, e, per altro verso, si è ricostituita la piena tutela giurisdizionale del debitore nelle rispettive sedi di competenza. La copiosa giurisprudenza, anche costituzionale, sul precedente sistema normativo si è formata prevalentemente, per non dire esclusivamente, proprio con riferimento al preesistente difetto assoluto di giurisdizione dell'A.G.O. che è stato ora normativamente eliminato. Quindi il sistema, ora, risulta profondamente modificato poiché tra i principi e i criteri direttivi contenuti nella legge di delega di riforma della riscossione si trova quello che prevede la necessità di introdurre adeguate forme di tutela per le entrate non tributarie e di eliminare talune preclusioni o limitazioni di tutela per quanto attiene alle entrate tributarie. Tali previsioni hanno trovato puntuale realizzazione essendo stato attribuito al giudice dell'esecuzione il potere di sospendere l'esecuzione, se ricorrono gravi motivi e vi sia fondato pericolo di grave e irreparabile danno; viene inoltre ammessa l'opposizione all'esecuzione da parte dell'esecutato quando il pignoramento ha per oggetto beni impignorabili. Quanto ai crediti di natura tributaria, si rinviene, oltre alla sospensione giudiziale, in presenza per il contribuente del pericolo di danno grave e irreparabile, la sospensione amministrativa della riscossione. L'articolo 39 del nuovo decreto n. 602/73 stabilisce, infatti, che l'ufficio delle entrate hanno la facoltà di disporre la sospensione della riscossione con provvedimento motivato notificato al concessionario e al contribuente; tale atto ha efficacia fino alla data di pubblicazione della sentenza della Commissione Tributaria Provinciale. II provvedimento suddetto, peraltro, può essere revocato -se sopravviene un fondato pericolo per la riscossione. Conseguentemente, a seguito delle introdotte innovazioni, nel nuovo regime permane l'inammissibilità delle opposizioni previste dagli articoli 615 (relative all'avviso di intimazione di pagamento, ma non alla pignorabilità dei beni) e 617 (riguardanti la regolarità formale e la notificazione del ruolo) del codice di procedura civile. Il procedimento di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi del concessionario si potrà svolgere solo dinanzi al giudice dell'esecuzione giacché è definitivamente venuto meno ogni intervento in materia da parte dell'ex Intendente di Finanza. Il giudice potrà, inoltre, sospendere l'esecuzione in presenza di gravi motivi e ricorrendo il fondato pericolo di grave e irreparabile danno. Quanto al coniuge, ai parenti e agli affini sino al terzo grado del debitore iscritto a ruolo, nonché dei coobbligati, viene ad essi riconosciuta la facoltà di opporsi all'esecuzione sui beni pignorati solo se siano in grado di provare il loro diritto di proprietà su tali beni secondo le modalità previste dal novellato articolo 58 del D.P.A. n. 602/73 (vedi anche l’ articolo 76 sulla procedura immobiliare). Si ritiene che la natura dell’opposizione in questione previsto dallo art. 57 del, D.P.R. n. 602/1973 sia assimilabile a quella dell'opposizione agli atti esecutivi disciplinata dall'art. 617 del codice di procedura civile. E’ stato osservato che il ricorso previsto dall'art. 57 del D.P.R. n. 602/1973 "è informato al principio della garanzia giuridica delle situazioni giuridiche dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, essendo concepito come un mezzo predisposto dall'ordinamento non a tutela esclusiva dell'interesse generale, bensì prevalentemente a tutela dei cittadini, come è fatto palese dalla circostanza che di esso possono avvalersi quei cittadini, che lamentino di essere stati lesi dagli atti esecutivi dell'agente della riscossione." . La tutela cautelare nella fase espropriativa consegue, pertanto, al ricorso prodotto dal contribuente o dall'interessato avverso i materiali atti di esecuzione compiuti dall'agente della riscossione direttamente o, su sua istanza, dall'Ufficiale procedente. Ma è essenziale tener presente che la speciale competenza attribuita al giudice con il disposto del surrichiamato art. 57 del D.P.R. n. 602/1973 "è diretta a garantire il contribuente - e colui che come tale va considerato nei riguardi dell'obbligazione tributaria - contro irregolarità od abusi che possono verificarsi nella condotta della procedura tramite ruolo. Investe, cioè, solo la fase della riscossione del tributo e non può, pertanto, estendersi al titolo per il quale si procede, a meno che tale titolo o il precetto sia affetti da nullità totale. La giurisdizione si estende al controllo della regolarità formale degli atti esecutivi dell'agente della riscossione che procede al recupero coattivo di entrate non erariali in base a ruolo . Il Ministero delle Finanze, ritenuto che nella fattispecie prevista dall'art. 57 del D.P.R. n. 602/1973 vengono in considerazione quei ricorsi che si sostanziano in una opposizione agli atti esecutivi, in quanto deducono irregolarità del relativo procedimento, ha precisato che il giudice è chiamato ad accertare non la legittimità dell'imposizione, sia con riguardo all'autorizzazione che alla misura del tributo, ma la regolarità della procedura intrapresa dall'Agente della riscossione per il recupero del credito, con la conseguenza che deve ritenersi di competenza dello stesso l'intervento in materia, e l'eventuale sospensione del procedimento esecutivo, qualora ne ricorrano le condizioni stabilite dalla normativa vigente". E' stato ritenuto che detta giurisdizione trova la propria giustificazione non soltanto nella necessità della unicità della giurisdizione, ma anche nella circostanza che i ruoli formati dagli Enti diversi dallo Stato sono resi esecutivi dall’Agente della riscossione e nella ulteriore circostanza che le norme dettate dal D.P.R. n. 602/1973) si applicano anche per la riscossione delle entrate di Enti di-versi dallo Stato , e, infine, "nell'esigenza di garantire ai soggetti destinatari dell'imposizione, anche nel caso di ruoli emessi da Enti diversi dallo Stato, la necessaria tutela giuridica nella fase esecuti-va, fase che non può che essere assoggettata alla verifica della regolarità degli atti da parte del giudice. E' stato autorevolmente affermato che la norma dell'art. 57 del D.P.R. n. 602/1973 ha lo scopo di dare al contribuente una difesa equa e sollecita attraverso il giudice, il quale in tal modo è messo in grado di riparare gli errori e gli abusi dell' agente della riscossione con un mezzo semplice e immediato". Il Consiglio di Stato ha avuto occasione di chiarire che: 1) condizione per l'ammissibilità dell’opposizione che l'atto impugnato sia dell'agente della riscossione; 2) non si ritiene necessario invece, che l'atto dal quale il contribuente si ritiene gravato sia un atto esecutivo, bastando che si tratti di atto diretto ad assicurare la riscossione; Ne consegue che il ricorso deve perciò ritenersi ammesso anche contro l'avviso di intimazione di pagamento, specie se sfornite del nominativo del funzionario responsabile del procedimento, al fine di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, l’informazione del cittadino e la garanzia del diritto di difesa. Una autorevole dottrina, peraltro, ha ritenuto che nell'ambito dell’opposizione in questione rientrano non solo le controversie insorte, in sede di esecuzione forzata, ma anche quelle che investono la responsabilità del contribuente, in tema di pagamento dell'imposta . Non si possono denunziare i vizi che attengono alla regolarità formale degli atti esecutivi posti in essere dall'agente della riscossione e, pertanto, il suo contenuto essenziale deve ravvisarsi nella denunzia di una violazione alle regole procedurali dell'esecuzione, violazione che può comportare tanto l'annullamento , quanto l'annullabilità dell'atto. Ond'è che, se il vizio non comporta la nullità (assoluta) dell'atto, alla dichiarazione di nullità non potrà pervenirsi, quando l'atto abbia raggiunto lo scopo o, comunque, quando il vizio sia stato sanato col compimento di ulteriori atti provenienti da chi aveva interesse a fare valere la nullità. Le disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito non stabiliscono alcun termine per la proposizione dell’opposizione contro gli atti esecutivi dell'agente della riscossione che procede in esecutivis in base a ruolo. Per cui nella fattispecie si dovrebbe ritenere, ugualmente applicabile il termine perentorio fissato dall'art .617 del Codice di procedura civile (20 giorni). Ciò per un diverso ordine di motivi: a) innanzitutto perché, in genere sussiste la possibilità di un rinvio formale, alla disciplina del Codice di procedura civile per tutto quanto non diversamente stabilito dalle disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito che, sul punto, nulla precisano; b) in secondo luogo, un termine più lungo di quello fissato per la procedura ordinaria si porrebbe in evidente contrasto con il particolare sistema dei mezzi di tutela apprestati dal legislatore e da esso riconosciuti come i più compatibili con i modi dell'esecuzione tramite ruolo; c) sarebbe in contrasto con la ratio della particolare espropriazione tramite ruolo stabilire per la proposizione delle censure, d’invalidità dei relativi atti di procedura, termini meno brevi di quelli stabiliti per la proposizione delle questioni incidentali (quali sono appunto le opposizioni in parola) nel normale processo esecutivo. Attesa la brevità dei termini concessi all'agente della riscossione per il compimento degli atti esecutivi, sembra doversi ritenere che il termine non possa essere diverso da quello di venti giorni previsto dal rito ordinario. Un termine maggiore, invero, potrebbe far perdere al ricorso il requisito della attualità in senso stretto e potrebbe, a volte, determinare le sanatorie conseguenti al compimento dell'atto successivo a quello viziato. Ma l’opposizione agli atti esecutivi con la quale si impugna un atto radicalmente nullo, al punto da potersene raffigurare l’inesistenza, non può essere soggetto al suddetto termine perentorio di venti giorni. Non vi è dubbio, pertanto, che l’opposizione in parole contro gli atti esecutivi dell’agente della riscossione, può essere proposto sino a che non sia compiuto la vendita dei beni pignorati. Successivamente è inammissibile.
Dal primo ottobre, ai sensi dell’art. 23, comma 30 del D.L. 6 luglio 2011 n.98 convertito con modificazioni dalla legge 111 del 2011 (manovra finanziaria 2011), l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate diventa titolo esecutivo decorsi sessanta giorni dalla notifica senza che si sia provveduto al pagamento. L’art. 29 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 (manovra correttiva 2010) che inizialmente prevedeva come termine per l’entrata in vigore il primo luglio 2011, riserva altri mutamenti di rilievo relativi al procedimento di riscossione esattoriale, ai quali si aggiungono quelli introdotti dal decreto sviluppo, ossia il decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito con modifiche dalla legge 12 luglio 2011, n. 106. In un facile parallelismo, si consideri anche l’avviso di addebito emesso dall’Inps per contributi previdenziali non corrisposti; in entrambi i casi non sarà emessa la tradizionale cartella di pagamento che, in funzione garantista e dal punto di vista della tutela del diritto di difesa del contribuente, rappresenta il vero punctum dolens dell’attuale sistema della riscossione esattoriale così come da ultimo riformato, per come si dirà infra. La prima modifica degna di nota è quella introdotta dall’art. 29, comma 1, lett. a) del D.L. 78/2010 che testualmente recita: “l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta sulle attività produttive e dell’imposta sul valore aggiunto ed il connesso provvedimento di irrogazione delle sanzioni, devono contenere anche l’intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all’obbligo di pagamento degli importi negli stessi indicati, ovvero, in caso di tempestiva proposizione del ricorso ed a titolo provvisorio, degli importi stabiliti dall’articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602…omissis..”. In caso di tempestiva proposizione del ricorso davanti alla Commissione Tributaria è dovuto quindi un pagamento nella misura della metà del debito contestato; recita infatti l’art. 15 del DPR 602 del 73 che “Le imposte, i contributi ed i premi corrispondenti agli imponibili accertati dall’ufficio ma non ancora definitivi, nonché i relativi interessi, sono iscritti a titolo provvisorio nei ruoli, dopo la notifica dell’atto di accertamento, per la metà degli ammontari corrispondenti agli imponibili o ai maggiori imponibili accertati.” Tale ultima disposizione mal si concilia con la norma di cui all’art. 29, comma 1, lettera b), del D.L. 78/2010, aggiunta dal decreto sviluppo 2011, D.L. 70/2011 secondo cui: «L’esecuzione forzata e’ sospesa per un periodo di centottanta giorni dall’affidamento in carico agli agenti della riscossione degli atti di cui alla lettera a); tale sospensione non si applica con riferimento alle azioni cautelari e conservative, nonché ad ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore». In buona sostanza, l’obbligo di pagare la metà del debito contestato anche in caso di proposizione del ricorso giurisdizionale, abiliterebbe l’Agente della riscossione a procedere con la riscossione esattoriale, salvo poi specificare che l’esecuzione è sospesa (!!) e che la sospensione non si applica all’ipoteca e al fermo amministrativo. La prima nota critica riguarda la terminologia approssimativa adottata dal legislatore. Fare riferimento alla sospensione dell’esecuzione, ovviamente, rendeva inutile specificare l’esclusione dalla sospensione “ex lege” degli atti cautelari che non sono atti esecutivi in senso stretto. Posto che gli atti cautelari sono adottabili, ci si domanda se debbano avere ad oggetto, a seguito della proposizione del ricorso giurisdizionale, l’intero debito ovvero la metà di esso, ai sensi del richiamato art. 15 del DPR 602/73. La seconda soluzione pare più aderente alle finalità della norma, sempre che il Giudice, a seguito della proposizione del ricorso non abbia sospeso l’efficacia dell’avviso. In quest’ultimo caso, non sarebbe possibile porre in essere neanche gli atti meramente cautelari. Sul punto, è utile chiarire che, in caso di accertamenti di cui all’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (cd. clausola antielusiva) nulla sarà dovuto fino alla sentenza sfavorevole di primo grado. Recita infatti il richiamato art. 37. comma 6, che “Le imposte o le maggiori imposte accertate in applicazione delle disposizioni di cui al comma 2 sono iscritte a ruolo, secondo i criteri di cui all’articolo 68 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecuniarie in pendenza di giudizio, unitamente ai relativi interessi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale.” Ci si domanda se l’iscrizione a ruolo per la metà dell’importo dovuto (a titolo provvisorio) nei casi di presentazione del ricorso sia da considerarsi esecuzione frazionata del tributo. Può verificarsi, peraltro, che il ricorso venga presentato l’ultimo giorno utile, e in questo caso, sia spirato il termine di pagamento che coincide con quello per la presentazione del ricorso. In caso di risposta affermativa, l’Amministrazione dovrebbe riemettere un nuovo avviso con la rideterminazione delle somme dovute che, nella sequenza procedimentale, si inserirebbe prima dell’eventuale avviso di mora previsto dall’art. 50 del DPR 602/73. Nei casi di riscossione frazionata, dunque, prima di adottare evenutali misure cautelari e conservative, l’Amministrazione dovrà necessariamente notificare un ulteriore avviso di rideterminazione delle somme dovute. Per espressa previsione della richiamata norma di cui all’art. 29, lett a) ciò è previsto: 1) ai sensi dell’articolo 8, comma 3-bis del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218; 2) dell’articolo 68 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, 3) dell’articolo 19 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472. Per dovere di completezza si riporta il comma 1, lettera c) dell’art. 29 del D.L. cit., che aggiunge: «Nell’ipotesi di cui alla presente lettera, e ove gli agenti della riscossione, successivamente all’affidamento in carico degli atti di cui alla lettera a), vengano a conoscenza di elementi idonei a dimostrare il fondato pericolo di pregiudicare la riscossione, non opera la sospensione di cui alla lettera b)». Altra modifica. Ai centottanta giorni di sospensione ex lege del procedimento di riscossione, se ne devono aggiungere novanta. E’ questa la conclusione imposta dal comma 9 dell’art. 39 della manovra 2011, D.L. 98/2011, che ha introdotto l’art. 17 bis nel corpo delle norme disciplinanti il processo tributario, il D. Lgs. 546/92 che troverà applicazione a decorrere dal 1° aprile 2012: 1. Per le controversie di valore non superiore a ventimila euro, relative ad atti emessi dall’Agenzia delle entrate, chi intende proporre ricorso e’ tenuto preliminarmente a presentare reclamo secondo le disposizioni seguenti ed e’ esclusa la conciliazione giudiziale di cui all’articolo 48. 2. La presentazione del reclamo e’ condizione di ammissibilita’ del ricorso. L’inammissibilita’ e’ rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio. 3. Il valore di cui al comma 1 e’ determinato secondo le disposizioni di cui al comma 5 dell’articolo 12. 4. Il presente articolo non si applica alle controversie di cui all’articolo 47-bis. 5. Il reclamo va presentato alla Direzione provinciale o alla Direzione regionale che ha emanato l’atto, le quali provvedono attraverso apposite strutture diverse ed autonome da quelle che curano l’istruttoria degli atti reclamabili. 6. Per il procedimento si applicano le disposizioni di cui agli articoli 12,18, 19, 20, 21 e al comma 4 dell’articolo 22, in quanto compatibili. 7. Il reclamo puo’ contenere una motivata proposta di mediazione, completa della rideterminazione dell’ammontare della pretesa. 8. L’organo destinatario, se non intende accogliere il reclamo volto all’annullamento totale o parziale dell’atto, ne’ l’eventuale proposta di mediazione, formula d’ufficio una proposta di mediazione avuto riguardo all’eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilita’ della pretesa e al principio di economicita’ dell’azione amministrativa. Si applicano le disposizioni dell’articolo 48, in quanto compatibili. 9. Decorsi novanta giorni senza che sia stato notificato l’accoglimento del reclamo o senza che sia stata conclusa la mediazione, il reclamo produce gli effetti del ricorso. I termini di cui agli articoli 22 e 23 decorrono dalla predetta data. Se l’Agenzia delle entrate respinge il reclamo in data antecedente, i predetti termini decorrono dal ricevimento del diniego. In caso di accoglimento parziale del reclamo, i predetti termini decorrono dalla notificazione dell’atto di accoglimento parziale. 10. Nelle controversie di cui al comma 1 la parte soccombente e’ condannata a rimborsare, in aggiunta alle spese di giudizio, una somma pari al 50 per cento delle spese di giudizio a titolo di rimborso delle spese del procedimento disciplinato dal presente articolo. Nelle medesime controversie, fuori dei casi di soccombenza reciproca, la commissione tributaria, puo’ compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti solo se ricorrono giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno indotto la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione.” E’ interessante notare come il reclamo in via amministrativa non si ponga come una vera e propria condizione di procedibilità rispetto al ricorso giurisdizionale; anche se impropriamente definita “condizione di ammissibilità del ricorso” non rappresenta una fase amministrativa, distinta ed esterna rispetto al procedimento davanti al giudice. La norma sul punto è chiara, il reclamo produce gli effetti del ricorso, e i termini di cui agli artt. 22 e 23 decorrono dallo scadere dei 90 giorni. In questo senso il reclamo è il ricorso, o meglio il reclamo deve contenere tutti gli elementi del ricorso ed eventualmente una motivata proposta di mediazione, nel rispetto delle regole di cui “agli artt. 12,18, 19, 20, 21 e al comma 4 dell’articolo 22, in quanto compatibili”. In tal senso più che introdurre una fase amministrativa di mediazione finalizzata alla conciliazione cui addivenire con una serie di proposte e controproposte, si è stabilito in sostanza che la proposizione del reclamo equivalga a tutti gli effetti alla notifica del ricorso; in altre parole, si è “allungato” il processo tributario di novanta giorni entro i quali l’Amministrazione e il contribuente possono chiudere “in via breve” con la conciliazione il contenzioso insorto. Ai novanta giorni iniziali si deve aggiungere il tempo necessario acchè il Giudice provveda sull’eventuale istanza di sospensiva. Il tutto deve concludersi entro 180 giorni ai sensi del D.L. 70/2011 (decreto sviluppo) che all’art. 7, comma 2, lett. gg novies) ha aggiunto il comma 5 bis all’art. 47 del D. Lgs. 546/92 che recita: ” L’istanza di sospensione e’ decisa entro centottanta giorni dalla data di presentazione della stessa». Quindi in totale 180 + 90 = 270 i giorni effettivi, inevitabilmente destinati a scontrarsi con i 180 giorni di sospensione ex lege del procedimento di riscossione decorrenti dall’affidamento in carico degli atti all’Agente della riscossione. Anche considerando il termine dilatorio di trenta giorni (gli atti divengono esecutivi decorsi 60 gg. dalla notifica e in caso di inadempimento, decorsi trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento, la riscossione delle somme risultanti dagli avvisi di accertamento, è affidata in carico agli agenti della riscossione anche ai fini dell’esecuzione forzata) affinchè gli atti passino all’Agente della riscossione, lo spatium temporis di 210 giorni rischia di essere affatto poco realistico, giacchè di gran lunga inferiore a quello previsto per ottenere (l’eventuale) sospensiva. Conclusivamente alcune considerazioni di carattere generale. L’efficacia esecutiva dell’avviso di accertamento si inserisce in un sistema concepito e funzionale ad una molteplicità di atti che caratterizzano la fase iniziale, quella in cui avviene l’iscrizione a ruolo del tributo. Il ruolo era successivamente reso esecutivo e trasmesso all’Agente della riscossione che estrapolava uno schema sintetico (analogamente a quanto avviene per la notifica del titolo esecutivo e del precetto quali atti preliminari all’esecuzione forzata ordinaria) costituito dalla cartella di pagamento da portare a conoscenza del debitore e contro la quale il debitore medesimo poteva opporsi avvalendosi degli ordinari strumenti di impugnazione. Le note limitazioni di cui all’art. 57 del DPR 602/73 che interessano le opposizioni ex artt. 615 e 617 cpc contro gli atti esecutivi dell’esattore, trovano giustificazione proprio nella più ampia tutela del diritto di difesa del contribuente nella fase iniziale della riscossione esattoriale, che poteva esprimersi pienamente attraverso l’impugnazione di tutti gli atti compresi nella riscossione mediante ruolo il cui punto culminante era la notifica della cartella di pagamento senza rientrare nell’esecuzione forzata vera e propria. Con la scomparsa di tale istituto, viene meno in buona parte la funzione garantista che a tale istituto era riconosciuta, vale a dire, si è ideato un sistema la cui celerità e la concentrazione in un unico atto sono indiscutibili, ma al quale è connaturale una difesa ridotta per il contribuente che, in ipotesi non si integrino le condizioni di cui all’art. 50 del DPR 602/73, non riceverebbe neppure l’avviso di mora. In questa prospettiva, le disposizioni di cui all’art. 57 cit. non hanno senso e, a dire il vero, sarebbe auspicabile un intervento legislativo che disponesse l’esatto contrario, allargando (ove possibile) le ipotesi di oppugnabilità, affinchè la funzione garantista prima assicurata dalla cartella di pagamento, venga altrimenti recuperata. -avv. Giovanni Orlando-
La diffusione sempre maggiore di nuove tecnologie ha fatto sorgere simmetricamente nuove esigenze di tutela penale, in particolare, degli interessi cd. “immateriali” diversi dalle “cose” in senso tradizionale che difficilmente avrebbero trovato la giusta collocazione sistematica nell’ambito del catalogo originario delle fattispecie del codice Rocco, la cui ratio è diretta a preservare, in un’ottica general preventiva, interessi ontologicamente estranei al mondo informatico e telematico. Un primo passo in questo senso si ebbe agli albori degli anni novanta, davanti al dirompente avanzare e al diffondersi dell’elettronica di consumo ma anche di quella su scala industriale e professionale, con le conseguenti implicazioni di carattere criminale meritevoli di particolare attenzione anche in forza della straordinaria pericolosità dei crimini informatici, direttamente proporzionale alla loro grande attitudine offensiva pur non immediatamente evidente per via delle caratteristiche modalità di consumazione dei reati informatici, i cui autori si identificano con soggetti altamente specializzati, in genere addetti ai lavori che facendo uso delle loro speciali competenze tecniche non lasciano tracce, il che spiegherebbe, fra l’altro, anche (l’iniziale) scarsità giurisprudenziale in materia. Stante le predette condizioni strutturali del processo di informatizzazione esistenti in Italia, la manifestazione patologica rappresentata dalla criminalità informatica che si suole ricondurre alla criminalità dei colletti bianchi, non poteva non trovare adeguata attenzione in dottrina, che in prima battuta si domandò quale condotta poteva ritenersi illecita in presenza di sistemi di elaborazione elettronica e/o sistemi telematici collegati in rete. Sebbene le ipotesi di reato riconducibili ai crimini informatici sia un genus contraddistinto da sostanziale eterogeneità, possono tuttavia essere ricondotte sotto un’unica categoria il cui denominatore comune è la presenza del computer, sia inteso come strumento per la realizzazione dell’illecito, sia inteso come oggetto tutelato dalla norma penale. In questa seconda ipotesi, le fattispecie delittuose si concentrano in due sottocategorie: a) accesso abusivo e uso indebito dell’elaboratore e/o del sistema telematico; b) appropriazione e manipolazione di dati e/o programmi che comportano (anche) violazione della privacy. 2 Il problema che ci si trova subito ad affrontare è quello dell’accesso all’elaboratore o al sistema, dovendosi tuttavia distinguere, in via preliminare, fra “accesso fisico” e “accesso logico”. Quello che qui viene in considerazione è l’accesso logico, in una certa misura indipendente dall’accesso fisico, in quanto mentre per quest’ultimo è necessario l’ingresso nel locale dove si trova la postazione informatica o di rete, per il primo è condizione sufficiente una postazione remota, dalla quale è possibile sia l’accesso in rete, sia l’accesso alla stessa postazione informatica e telematica collegata in rete con funzione di server. Il sistema ovviamente riconosce la persona autorizzata ad accedervi mediante quelle che comunemente si definiscono le “credenziali di accesso” e cioè username e password, il che è indipendente dalla identità fisica. Le intrusioni dell’esterno, cioè gli accessi non autorizzati dal dominus, in questo ambito sono un fenomeno abbastanza diffuso anche e soprattutto per l’attività dei cd. “hackers” i quali attraverso postazioni remote collegate in rete (internet) riescono ad accedere abusivamente sia alla postazione server, sia alla stessa postazione informatica usata dall’utente. Ci si domandò, dunque, se il semplice accesso abusivo senza ulteriore attività criminale rappresenti un disvalore tale da implicare la necessità di sanzionare penalmente il fatto. Inizialmente, con riguardo all’accesso fisico nei locali in cui vi è la presenza di un elaboratore, si sostenne la possibilità di applicare la norma che punisce la violazione di domicilio; tale tesi incontrò tuttavia forti critiche soprattutto perché il bene tutelato dalla norma di cui all’art. 614 c.p. tutela un bene affatto diverso. Per quanto riguarda l’accesso logico si propugnò l’applicabilità dell’art. 494 c.p. o dell’art. 617 bis c.p., quest’ultimo solo in presenza di ulteriori atti criminali. E’ agevole notare che gli sforzi interpretativi in dottrina e in giurisprudenza rappresentano già di per sé una prima risposta all’allarme sociale che il solo accesso abusivo costituiva nell’ambito delle attività criminali informatiche percepite come altamente lesive. La risposta definitiva arrivò dal legislatore con il primo intervento in materia di criminalità informatica, e cioè con la legge 547 del 27 dicembre 1993 che introdusse nel codice penale l’art. 615-ter che così recita: “Chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza 3 ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, è punito con la reclusione fino a tre anni.” La norma si riferisce alla violazione del sistema informatico o telematico. Occorre quindi distinguere le due ipotesi. E’ evidente che la scarsa diffusione della rete internet al momento della entrata in vigore della legge n. 547 obbliga a ritenere quale sistema informatico il singolo computer e quale sistema telematico più computer connessi in rete, che questa poi sia collegata solo in locale o via internet non è rilevante, in quanto all’accesso logico si potrebbe sempre accompagnare l’abusivo accesso fisico con tutto quello che ne conseguirebbe in termini di rilevanza penale del fatto. Quello che caratterizza il reato è piuttosto la necessaria esistenza di misure di sicurezza percepibili, atte ad impedire l’accesso ai terzi senza le quali non si potrebbe ipotizzare alcuna intrusione non autorizzata. Nella fattispecie rientrano tutte quelle condotte di interferenza mediante ingresso o permanenza non autorizzata nella memoria di un sistema informatico o telematico “chiuso” cioè protetto da una chiave di ingresso che sta ad indicare la volontà di dissenso del titolare dello ius excludendi. Nonostante l’apparenza letterale, il bene tutelato non è l’integrità del sistema informatico o telematico ma il diritto fondamentale alla riservatezza. Si tratta di un reato istantaneo che si consuma nel momento dell’introduzione del sistema; il dolo consiste nella coscienza e volontà di introdursi nel sistema nella consapevolezza dell’esistenza di misure di sicurezza. Nei suoi aspetti pratici e applicativi, la richiamata fattispecie criminale ha dimostrato tuttavia diversi aspetti problematici, sia in ragione dell’individuazione dei limiti dell’antigiuridicità espressa dal dissenso del titolare del sistema, sia in ordine alla presenza, ai limiti e alle modalità di un’eventuale autorizzazione all’accesso al sistema che renderebbe la condotta penalmente irrilevante. L’analisi di diversi casi concreti nella giurisprudenza di merito, mette in risalto il fatto di colui che si introduce nel sistema informatico per scopi diversi da quelli per cui l’autorizzazione è stata concessa. In altre parole, l’autorizzazione è presente, ma ha dei limiti ben definiti che consistono nel perseguimento degli scopi d’ufficio o istituzionali. Al di fuori di questa ipotesi, e cioè travalicando le modalità tipiche proprie 4 dell’autorizzazione concessa, l’accesso o la permanenza nel sistema informatico è (o dovrebbe essere) abusiva. Di diverso avviso il GUP del Tribunale di Brescia che, con una sentenza del 2011, ha prosciolto l’imputato che si era introdotto nel sistema informatico “per mera curiosità” giacché la locuzione “con scopi diversi da quelli consentiti” deve essere interpretata –secondo il giudicante- nel senso del “perseguimento di finalità illecite” andando così molto oltre non solo la ratio della norma ma anche oltre il semplice senso letterale della norma stessa. (G.U.P. Tribunale di Brescia, Sentenza 3 marzo 2011, n. 293) L’impostazione del giudice di merito tradisce, invero, l’esistenza nella giurisprudenza di legittimità di due orientamenti opposti che hanno contribuito a creare non poca confusione: il primo, per il quale a nulla rileva lo scopo per il quale si è eseguito l’accesso né l’utilizzazione dei dati, ben sintetizzato nella pronuncia della Suprema Corte del 25 giugno 2009 n. 40078 Il secondo, per il quale se l’accesso non è autorizzato, si tratta indubbiamente di un’intrusione abusiva; i problemi insorgono se si è in presenza di un autorizzazione all’accesso; in questo caso il baricentro si sposta sull’utilizzazione dei dati; se l’utilizzazione dei dati e cioè lo scopo dell’accesso non è conforme all’autorizzazione si ricadrebbe comunque nell’alveo di punibilità di cui all’art. 615-ter c.p. Significativa, sul punto, la sentenza della Suprema Corte del 22 settembre 2010 n. 39620 L'esistenza del sopra richiamato conflitto giurisprudenziale ha indotto la Sezione V° della Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 11714 del 11 febbraio 2011, a rimettere alle Sezione Unite un fatto riguardante l'utilizzazione di un sistema informatico da parte di un pubblico dipendente per la consultazione di banche dati cui egli aveva accesso per ragioni di servizio, sulla base del seguente quesito” Se costituisca il reato previsto dall’art. 615 ter c.p. l’accesso di soggetto abilitato ad un sistema informatico protetto per scopi e finalità estranee a quelle per le quali la chiave di accesso gli era stata attribuita”. Con la sentenza del 7 febbraio 2012 n.4694, le Sezioni Unite hanno risolto il conflitto creatosi, sostenendo la fondatezza dell'orientamento diretto a ricomprendere nell'art 615-ter c.p., anche quelle condotte di accesso o permanenza che si pongono al di fuori del complesso di prescrizione impartite dal dominus, a nulla rilevando però gli scopi perseguiti né l’utilizzazione successiva dei dati. 5 In buona sostanza, taluna giurisprudenza aveva confuso il complesso delle direttive costituenti autorizzazione all’acceso con gli scopi (soggettivi) perseguiti dal soggetto che accede al sistema, la cui manifestazione principale era data dall’utilizzo (successivo) dei dati informatici che doveva essere conforme all’autorizzazione, compiendo, in ultima analisi, un’operazione additiva relativa a due elementi (lo scopo soggettivo e l’utilizzo successivo dei dati) del tutto estranei al dettato normativo, seppur in fattispecie residuali nelle quali l’autorizzazione del titolare del sistema è presente, onde individuare i limiti dell’autorizzazione medesima con l’evidente intento di ricondurle nell’area applicativa dell’art. 615-ter del codice penale. La Suprema Corte a Sezioni Unite ha chiarito tuttavia ogni dubbio enunciando, in definitiva, il seguente principio: ”Va affermato, in conclusione, il principio di diritto secondo il quale "integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall'art. 615-ter cod. pen., la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del resto, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l'ingresso al sistema". -avv. Giovanni Orlando-
1) Sulla responsabilità del dipendente. La dottrina ha avuto modo di soffermarsi più volte sull’art. 2105 c.c. Tale norma prevede due differenti obblighi facenti capo al lavoratore, entrambi di contenuto negativo (obblighi di non fare) e finalizzati alla tutela di un interesse del datore distinto da quello primario alla prestazione di lavoro: l’interesse alla capacità di concorrenza dell’impresa e quindi alla sua posizione di mercato. Si tratta di obblighi accessori rispetto alla prestazione di lavoro ascrivibili alla categoria dei cd. obblighi di protezione. Il primo obbligo di cui all’art. 2105 c.c. è quello di non concorrenza , implica l’astensione del lavoratore da ogni atto di concorrenza che possa potenzialmente arrecare danno all’impresa. Si tratta di un obbligo specifico del lavoratore più ampio del divieto di concorrenza sleale sancito dall’art. 2598 c.c. ed è da intendersi limitato ai comportamenti specificati dalla norma qualificati dalla violazione di certe regole di lealtà correttezza e buona fede di cui alle direttive degli artt. 1175 e 1375 c.c. Proprio per il suo fondamento contrattuale l’obbligo dianzi descritto ha vigore solo per la durata del rapporto di lavoro. L’altro obbligo, quello avente ad oggetto la riservatezza , sempre specificato dall’art. 2105 c.c., si riferisce invece a tutte le notizie attinenti all’organizzazione e alla produzione dell’impresa e comunque conosciute dal lavoratore in ragione dell’attività lavorativa svolta in seno all’impresa stessa, la cui divulgazione o utilizzo possa essere pregiudizievole. Per la particolare natura dell’interesse protetto, l’opinione unanime ritiene che tale dovere persista in capo al lavoratore finché persista l’esigenza a cui è finalizzato, quindi anche dopo la cessazione del rapporto. E’ bene precisare che il dovere di riservatezza, ossia il dovere di rispettare i segreti aziendali non esclude che il lavoratore possa usare le competenze e conoscenze professionali acquisite nello svolgimento della propria prestazione, ma si riferisce bensì a tutte le notizie sia esclusive dell’azienda (know-how) sia in sé neutre la cui conoscenza esterna possa comunque costituire un potenziale pericolo per l’impresa. In quest’ultimo senso si è espresso il Tribunale di Monza affermando che :” a differenza della tutela generale accordata alla invenzione per mezzo del brevetto, il quale conferisce il monopolio temporaneo di sfruttamento della stessa al suo autore a fronte di un obbligo di pubblicità, l'ordinamento offre una tutela giuridica solo parziale al c.d. know-how, e cioè al patrimonio conoscitivo aziendale, consistente in una protezione limitata alla previsione di una serie di fattispecie in cui è posto a carico non già della generalità bensì di determinate categorie di persone un obbligo di segretezza: così gli art. 2105 c.c., 6 bis r.d. n. 1127 del 1939 (legge brevetti), nonché l'art. 623 c.p. che sanziona penalmente il comportamento lesivo del segreto industriale .” ( Tribunale Monza, 25 gennaio 2005). Il segreto aziendale trova anche tutela penale negli artt. 621, 622 e 623 c.p. E’ utile sottolineare che, mentre le prime due norme puniscono la rivelazione o l’uso di documenti segreti e/o di segreti professionali del cui contenuto il soggetto sia venuto a conoscenza per ragioni del proprio stato o ufficio, professione o arte qualora possa derivarne un danno, l’art. 623 del codice penale punisce la rivelazione o l’uso di scoperte o invenzioni scientifiche da chi ne abbia avuto notizia a prescindere dalla possibilità di danno. In proposito, la Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che:” in tema di delitti contro la inviolabilità dei segreti, non costituisce condizione per la configurabilità del reato di rivelazione di segreti industriali (art. 623 c.p.) la sussistenza di presupposti per la brevettabilità, ex art. 2585 c.c., della scoperta o dell'applicazione rivelata. ” ( Cassazione penale , sez. V, 07 giugno 2005, n. 25174). Peraltro, la cd. Legge brevetti ( R.D. 1127/39) è stata interamente abrogata dal codice della proprietà industriale (D. Lgs. 30/2005); le disposizioni ivi contenute sembrerebbero tuttavia andare oltre la tradizionale distinzione dicotomica fra obbligo di fedeltà del dipendente di cui all’art. 2105 c.c. che comunque cesserebbe con l’esaurimento del rapporto di lavoro e patto di non concorrenza la cui necessità sarebbe imprescindibile per la tutela dell’imprenditore dalla divulgazione di notizie e informazioni riservate ai sensi dell’art. 2125 c.c. Ed infatti, il D. Lgs. 30/2005 all’art. 98 dà una definizione del cd. know-how secondo cui: “ c ostituiscono oggetto di tutela le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni: a) siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore; b) abbiano valore economico in quanto segrete; c) siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete. ” Continua poi l’art. 99 del medesimo decreto espressamente disponendo che: “ salva la disciplina della concorrenza sleale, è vietato rivelare a terzi oppure acquisire od utilizzare le informazioni e le esperienze aziendali di cui all'articolo 98 ” . In ultima analisi, è evidente che al di fuori dello schema tipico sopra descritto rientrante nelle disposizioni di cui agli artt. 2105 e 2125 c.c., resterebbe valida nella fattispecie in esame, la direttiva generale di cui all’art. 2043 c.c., di talché ben può affermarsi la responsabilità civile del dipendente, avendo altresì l’opportunità di avvalersi della piena tutela attivabile astrattamente (entro tre mesi dal fatto a querela di parte) ai sensi dell’art. 623 del codice penale. 2) Sulla responsabilità del datore di lavoro per concorrenza sleale. A mente dell’art. 2598 c.c. circa i mezzi considerati sleali e quindi vietati bisogna distinguerne tre categorie: le prime due afferiscono alla pubblicità e agli atti diretti a ingenerare confusione con i prodotti o comunque con l’attività del concorrente. La terza , che è quella che qui interessa, ha carattere generico e comprende “ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”, nella quale pertanto rientrano sia i casi di cd. spionaggio industriale, sia i casi di storno dei dipendenti . Ovviamente nella fattispecie in esame si riscontrerebbe sia l’assunzione di personale del concorrente attirandolo molto probabilmente con la promessa di un trattamento migliore, sia lo spionaggio industriale, giacché lo storno del personale sarebbe avvenuto al precipuo scopo di conoscere indebitamente i segreti detenuti dal personale e attinenti all’impresa concorrente. In altre parole, gli ex dipendenti pur non essendo imprenditori concorrenti, avrebbero dolosamente compartecipato alla condotta anticoncorrenziale finalizzata presumibilmente anche all'accaparramento dei clienti dell’impresa precedente, all'uopo avvalendosi verosimilmente, unitamente all’imprenditore che li ha assunti, anche delle conoscenze personali maturate durante il pregresso rapporto di lavoro. Non sussisterebbe quindi solo un semplice transito del collaboratore alle dipendenze dell'impresa concorrente e della prestazione in suo favore delle attività costituenti espressione delle conoscenze ( e dei segreti) precedentemente acquisiti nonché della professionalità maturata durante e per effetto del precedente rapporto lavorativo, ma sarebbe fondato ritenere la commissione di azioni e fatti specificamente e intenzionalmente diretti a cagionare, mediante modalità non conformi ai canoni della correttezza, un rilevante danno da divulgazione del know-how nonché anche da perdita di clientela al datore di lavoro abbandonato. In proposito, il Tribunale di Bologna ha avuto modo di affermare che: “ il danno determinato dallo storno di dipendenti e dal conseguente sviamento di clientela, difficilmente risarcibile in forma specifica, può essere neutralizzato solo attraverso l'inibizione allo stornante - per un periodo di tempo determinato e in via equitativa - dell'assunzione di altri dipendenti appartenenti alla sfera del ricorrente, nonché dell'utilizzo delle prestazioni che i dipendenti «stornati» svolgevano nella precedente impresa e nei confronti della medesima clientela.” ( Tribunale Bologna, 04 ottobre 2005) Risulta pertanto indubitabile anche la responsabilità civile dell’impresa che ha assunto successivamente il dipendente, sia a titolo di illecito concorrenziale ex art. 2598 c.c., sia secondo la direttiva generale di cui all’art. 2043 c.c. -avv. Giovanni Orlando-
Giovanni Orlando
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