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Aggiornamento e perfezionamento in “Diritto Minorile e di Famiglia” organizzato da Camera dei Minori e della Famiglia di Basilicata in collaborazione con l’Ordine degli Avvocati di Potenza, il Tribunale per i minorenni di Potenza e la Procura della Repubblica per i Minorenni in Potenza
IL PROCESSO PENALE MINORILE § 1. COMPOSIZIONE DELL'ORGANO GIUDICANTE 1.1. Il “rito speciale” come strumento di recupero § 2. IL CODICE DI PROCEDURA PENALE MINORILE 2.1. Peculiarità e obiettivi 2.2. Centralità della partecipazione del minore 2.3. “Adattamento” del codice ordinario § 3. LE INDAGINI PRELIMINARI 3.1. L’accertamento della minore età 3.2. L’imputabilità 3.3. Accertamenti sulla personalità (art. 9 D.P.R. 448/1988) 3.4. Le esigenze educative § 4. LE RESTRIZIONI DELLA LIBERTA' PERSONALE DEL MINORE (cenni) § 5. LA CHIUSURA DELLE INDAGINI PRELIMINARI 5.1. L’irrilevanza del fatto § 6. L’UDIENZA PRELIMINARE 6.1. Definizione del processo all’udienza preliminare 6.2. Possibilità di pronunciare sentenza di condanna 6.3. Provvedimenti civili provvisori § 7. IL PERDONO GIUDIZIALE 7.1. Natura e presupposti 7.2. Effetti 7.3. Unicità del beneficio e interventi della Corte Costituzionale § 8. LA MESSA ALLA PROVA 8.1. Presupposti per la sospensione del processo con messa alla prova 8.2. Struttura e contenuti del progetto di messa alla prova 8.3. Ambito di applicazione e durata 8.4. Possibili esiti della prova 8.5. Valutazione complessiva: un istituto “cardine” del processo minorile § 9. IL DIBATTIMENTO 9.1. Differenze rispetto al dibattimento ordinario 9.2. Conclusione e sentenza § 10. I PROCEDIMENTI SPECIALI NEL PROCESSO MINORILE (cenni) 10.1. Riti speciali inammissibili 10.2. Rito ammesso a determinate condizioni: il giudizio direttissimo 10.3. Riti ammessi incondizionatamente § 11. L’INNOVAZIONE DELL'ART. 27-bis D.P.R. 448/1988 (“Percorso di rieducazione del minore”) 11.1. Genesi e ratio della novella 11.2. Ambito di applicazione e presupposti 11.3. La “proposta di definizione anticipata del procedimento” 11.3.1 Notifica al minore e ai soggetti esercenti la responsabilità genitoriale 11.3.2 Necessaria ammissione (anche generica) dei fatti 11.3.3 L’interrogatorio e il coinvolgimento del difensore 11.4. Il programma rieducativo e la trasmissione al GIP 11.4.1 Stesura del programma 11.4.2 Sub-procedimento dinanzi al GIP 11.5. Esito del percorso e conseguenze 11.6. Osservazioni e prime prassi applicative 11.7. Conclusioni **** **** **** Il Tribunale per i Minorenni fu introdotto nell’ordinamento italiano nei primi decenni del Novecento, attraverso il R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404, convertito con modificazioni nella legge 27 maggio 1935, n. 835. Da allora, ha subito un’evoluzione che lo ha portato a rivestire un ruolo esclusivo nell’esame dei reati commessi da persone che, al momento del fatto, non avevano ancora raggiunto la maggiore età. 1. Composizione dell’organo giudicante Oggi, il Tribunale per i Minorenni opera normalmente in composizione collegiale di quattro membri: Due magistrati togati, uno dei quali assume la presidenza. Due giudici onorari (detti anche “componenti privati”), scelti dal Consiglio Superiore della Magistratura tra figure di comprovata esperienza nel campo delle scienze umane (quali psicologi, pedagogisti, psichiatri, criminologi, assistenti sociali, antropologi). Questa composizione “mista” assicura l’apporto di competenze interdisciplinari, essenziali per valutare il minore non solo in base alla condotta, ma anche sotto il profilo psicologico, sociale e familiare. Il Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) svolge le sue funzioni in veste monocratica, mentre il Giudice dell’Udienza Preliminare (GUP), agisce in composizione collegiale “anomala e ristretta”: un giudice togato e due onorari (uomo e donna). Tale configurazione conserva la presenza di membri non togati proprio a tutela della specializzazione dell’organo. Originariamente, la competenza del Tribunale per i Minorenni era suscettibile di deroga in presenza di maggiorenni coimputati nello stesso procedimento. Tale limitazione è stata però superata negli anni Ottanta a seguito di una pronuncia della Corte Costituzionale, che ha eliminato l’eccezione: anche in ipotesi di concorso con soggetti adulti, la giurisdizione resta attribuita al giudice minorile. La Consulta ha motivato questa scelta sottolineando la rilevanza costituzionale della protezione dei minori, nonché la necessità di uno sguardo specializzato e interdisciplinare per valutare adeguatamente la personalità del ragazzo e individuare il percorso educativo più adatto. La peculiarità del Tribunale per i Minorenni risiede nella finalità di recupero del minore deviante, accanto all’ordinaria funzione punitiva del processo penale. Questo obiettivo discende tanto dal terzo comma dell’art. 27 Cost. (che richiama la finalità rieducativa della pena) quanto da fonti internazionali, come il Patto internazionale sui diritti civili e politici, che espressamente raccomanda procedure adeguate all’età del minore per promuoverne la rieducazione. In quest’ottica, il giudice minorile deve possedere una formazione specifica per interagire con il ragazzo, favorendo la comprensione reciproca e l’emergere di elementi utili a una valutazione globale. Egli deve dedicarsi esclusivamente (o prevalentemente) alla giurisdizione minorile, così da maturare un bagaglio di competenze teoriche e pratiche inerenti l’età evolutiva; avvalendosi, in ogni collegio giudicante, del contributo di esperti delle scienze umane, grazie ai quali risulta possibile analizzare le dinamiche familiari e le possibili cause che hanno spinto il giovane all’illecito, nonché progettare interventi personalizzati di reinserimento. 1.1. Il “rito speciale” come strumento di recupero La struttura specializzata del Tribunale per i Minorenni si completa con un impianto processuale ad hoc (disciplinato dal D.P.R. 448/1988), che “piega” gli istituti del codice di procedura penale alle esigenze di tutela dei minori. È un rito che mira non solo a definire responsabilità penali, ma anche a “ricucire” il percorso educativo del giovane, impedendo che l’allontanamento dalla legalità si trasformi in una devianza consolidata. In altri termini, il giudice minorile è l’unica figura giurisdizionale chiamata ad affiancare alla repressione un’attività di prevenzione, puntando a responsabilizzare il ragazzo e a sostenerlo nella costruzione di un futuro conforme alle regole di convivenza civile. Proprio in questo risiede la “sfida” peculiare della giustizia minorile: riconoscere la gravità del reato ma, al contempo, prevenire che l’illecito diventi l’inizio di un percorso deviante permanente. 2. Il codice di procedura penale minorile L’ordinamento italiano prevede uno statuto processuale specifico per gli imputati minorenni, disciplinato dal D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, comunemente detto “codice di procedura penale minorile”. Tale normativa – pur mantenendo saldi i principi costituzionali generali e le garanzie tipiche del processo penale ordinario – introduce regole speciali, formulate in considerazione delle esigenze educative e dell’età del minore. Il legislatore non ha creato un sistema processuale del tutto slegato da quello generale, bensì ha stabilito che, per i profili non disciplinati espressamente dal D.P.R. 448/1988, trovino applicazione le norme del codice di procedura penale ordinario. L’art. 1, in particolare, chiarisce che: Si utilizzano le disposizioni del D.P.R. 448/1988 e, in quanto compatibili, quelle del c.p.p. ordinario. Tali disposizioni vanno “adattate alla personalità ed alle esigenze educative del minorenne”. In sostanza, il rito minorile si configura come un impianto speciale (e prevalente), integrato dalle norme di procedura penale comune in via residuale, purché piegate alle finalità educative proprie del procedimento a carico di minori. 2.1. Peculiarità e obiettivi Oltre alle garanzie generali (diritto di difesa, contraddittorio, presunzione di non colpevolezza), nel processo minorile si introducono forme protettive pensate per tutelare lo sviluppo e la dignità del ragazzo, ad esempio: Udienze a porte chiuse per salvaguardarne la riservatezza. Riduzione dei termini di custodia cautelare: più brevi rispetto ai soggetti maggiorenni, in ragione della minore età. Facoltatività dell’arresto (e non obbligatorietà) come ulteriore garanzia. Preclusione della parte civile nel procedimento penale minorile, per evitare appesantimenti e possibili effetti dannosi sul minore (la vittima potrà comunque agire in sede civile). Obbligo, per il giudice, di illustrare al minore le ragioni etico-sociali della decisione, soprattutto in caso di sentenza di condanna. Possibilità di adottare provvedimenti civili d’urgenza qualora emergano situazioni di grave rischio per il ragazzo. L’ottica che permea l’intero rito minorile è quella di porre la personalità del minore al centro dell’attenzione processuale. La valutazione non investe solo “il fatto di reato”, ma mira a comprendere la globalità del giovane, i suoi bisogni e il contesto di vita. 2.2. Centralità della partecipazione del minore La legge sottolinea il diritto del minore a comprendere quanto accade durante il processo, e a essere costantemente informato delle ragioni delle scelte giudiziali. L’art. 1, comma 2, D.P.R. 448/1988, richiede infatti al giudice di spiegare, in maniera idonea all’età e al livello di maturità del ragazzo, il significato delle attività processuali e delle decisioni adottate. Ciò rafforza il concetto di “occasione educativa” del processo penale: anche un eventuale esito sfavorevole – ad esempio la condanna o la revoca di una messa alla prova per esito negativo – deve essere percepito come conseguenza delle scelte comportamentali del minore, stimolandone la responsabilizzazione. 2.3. “Adattamento” del codice ordinario Molte regole del codice di procedura penale (D.P.R. 22 settembre 1988, n. 447) trovano applicazione anche nel procedimento minorile, ma in chiave diversa, poiché la personalità del minore e le sue esigenze educative rappresentano un filtro costante attraverso cui reinterpretare gli istituti processuali. L’approccio è multidisciplinare: il giudice minorile, con l’ausilio dei servizi sociali e dei componenti onorari, valuta approfonditamente il contesto familiare e sociale del ragazzo. Sono ammesse, a volte, limitazioni agli strumenti di coercizione e misure a protezione del minore (come l’eventuale svolgimento di taluni atti senza la presenza dell’imputato, se la sua partecipazione diretta potrebbe pregiudicarne lo sviluppo psico-fisico). In definitiva, la “filosofia” del codice di procedura penale minorile è quella di preservare la funzione rieducativa del processo, senza sacrificare le basilari garanzie difensive del soggetto imputato. Il dato essenziale non è soltanto punire il reato, ma comprendere la condizione globale del minore per avviare, quando possibile, un percorso di recupero e reintegrazione sociale. 3. Le indagini preliminari Nel procedimento penale a carico di un minorenne, la fase delle indagini preliminari segue in linea di massima lo stesso schema previsto per gli adulti: la Polizia Giudiziaria, raccolti gli elementi iniziali, trasmette al Pubblico Ministero presso il Tribunale per i Minorenni (PMM) un’informativa di reato. Questi valuta se le informazioni raccolte siano sufficienti e, in caso contrario, può delegare ulteriori accertamenti alla Polizia Giudiziaria o svolgerli personalmente. Tuttavia, in ragione della distanza geografica di molte Procure minorili dai luoghi in cui si verificano i fatti, il PMM spesso non ha la possibilità di eseguire di persona tutti gli atti istruttori. Ciò comporta che siano impiegati anche gli uffici di Polizia specializzati, costituiti presso ogni Procura per i Minorenni, il cui personale è selezionato per competenze e attitudini specifiche nel settore minorile. 3.1. L’accertamento della minore età Affinché si applichi la giurisdizione minorile, è imprescindibile che il soggetto indagato risulti, al momento del fatto, di età inferiore ai 18 anni. A volte l’età può essere subito chiara (es. per la presenza di validi documenti anagrafici); in altri casi — tipicamente se il ragazzo è straniero senza documenti — occorre procedere ad accertamenti medico-legali (ad esempio, esami radiologici del polso) volti a stabilirne l’età “biologica”. L’art. 8 D.P.R. 448/1988 prevede, in caso di dubbio, che il giudice disponga una perizia. Se anche dopo tale esame rimangono incertezze, vige il principio del favor minoris, per cui l’imputato si considera minorenne. È altresì fondamentale che, non appena emergano motivi per ritenere che l’indagato sia infra-18enne, gli atti vengano trasmessi all’Autorità Giudiziaria Minorile, poiché la competenza a determinare l’età appartiene in via esclusiva al giudice minorile. Regola pratica: se un giovane risulta “circa diciottenne” all’esito degli esami e non si dispone di elementi certi in senso contrario, si applicano le tutele della giustizia minorile. D’altro canto, qualora una perizia certa attesti la maggiore età e i documenti prodotti dall’interessato risultino inattendibili, si procede come per un soggetto adulto. 3.2. L’imputabilità Secondo il codice penale: Chi non ha compiuto 14 anni non è mai imputabile, dunque non soggetto a pene. In questi casi, il procedimento penale si estingue attraverso una declaratoria di non luogo a procedere per mancanza di imputabilità, sebbene resti possibile il ricorso a misure di sicurezza (art. 224 c.p.) se il minore risulta socialmente pericoloso. Tra i 14 e i 18 ann i , l’imputabilità richiede una valutazione concreta della capacità di intendere e di volere al momento del fatto. Il giudice, se del caso, deve motivare specificamente la propria decisione, avvalendosi di indagini specialistiche (art. 9 D.P.R. 448/1988) per comprendere la maturità del ragazzo. Il legislatore valorizza quindi l’idea che il minore possa non aver ancora consolidato la capacità di rendersi pienamente conto delle proprie azioni (immaturità intellettiva o scarsa autodeterminazione). Questa valutazione, priva di presunzioni automatiche, deve basarsi sulla personalità del giovane, sul suo vissuto e sugli elementi emergenti dall’istruttoria. 3.3 Accertamenti sulla personalità (art. 9 D.P.R. 448/1988) Il fulcro del processo minorile è dato dall’attenzione alla personalità del ragazzo. L’art. 9 D.P.R. 448/1988 stabilisce che giudice e Pubblico Ministero “acquisiscono” (e non soltanto possono acquisire) ogni informazione utile circa: Condizioni personali e familiari; Risorse sociali e ambientali; Livello di maturità e assetto psicologico. Tali indagini servono a valutare l’imputabilità, il grado di responsabilità, la rilevanza penale del fatto ed eventuali misure da adottare. L’obiettivo è conoscere il minore per decidere se interrompere precocemente il processo (es. con irrilevanza del fatto o perdono giudiziale) o se è più opportuno attivare percorsi di messa alla prova, ovvero, nei casi più gravi, arrivare a una sentenza di condanna, scegliendo la misura più adeguata. In concreto, per raccogliere tali informazioni si ricorre spesso ai servizi sociali minorili (Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni – USSM) e, se necessario, a specialisti in ambito psicologico. Il Pubblico Ministero può avviare queste indagini già in fase investigativa, così da disporre di un quadro chiaro prima dell’udienza preliminare. 3.4 Le esigenze educative Il codice minorile pone in primo piano la valorizzazione del percorso educativo: ogni passaggio processuale va attuato, per quanto possibile, in modo da non interrompere o pregiudicare la crescita del ragazzo. Questo orientamento permea numerosi istituti del D.P.R. 448/1988: Applicazione di misure cautelari calibrate (ad es. collocamento in comunità anziché in carcere) per non danneggiare i processi educativi. Possibilità di definire anticipatamente il procedimento (es. irrilevanza del fatto) se l’ulteriore corso del giudizio sarebbe controproducente per il minore. Specifiche prescrizioni inerenti allo studio o al lavoro, in caso di misure restrittive della libertà personale. Divieto di riti sommari (come il giudizio direttissimo) se tale rapidità dovesse privare il minore di un percorso di assistenza e comprensione adeguato. Tale impostazione risulta ulteriormente ribadita dalle norme di attuazione del processo minorile, che, ad esempio, esigono che le comunità di accoglienza abbiano una funzione non soltanto “custodiale”, ma anche formativa e protettiva. L’intero sistema cerca così di trasformare il processo penale in un’“occasione educativa”, nella speranza di favorire un reinserimento sociale effettivo e di prevenire ulteriori condotte illecite. 4. Le restrizioni della libertà personale del minore: cenni. Sebbene la libertà del minore sia un bene particolarmente protetto, il codice prevede alcune misure cautelari e restrittive, da adottare con estrema cautela e solo quando strettamente necessarie: Custodia cautelare in istituto di pena minorile (artt. 19 ss. D.P.R. 448/1988): misura “estrema”, limitata a reati di particolare gravità e solo se ogni altra misura risulti inidonea. Collocamento in comunità : misura meno afflittiva rispetto alla custodia cautelare in carcere, ma che comunque implica una restrizione della libertà; è spesso preferita come soluzione in linea con le finalità educative. Obblighi di permanenza in casa o altre misure analoghe. Prescrizioni : si tratta della misura meno afflittiva che consiste sostanzialmente in un obbligo di fare. Sono dei veri e propri ordini sulla condotta da tenere che il minore deve seguire per un determinato periodo di tempo. La regola generale è quella della minor offensività e massima attenzione all’interesse del minore, bilanciando comunque le esigenze di tutela sociale e probatoria. 5. La chiusura delle indagini preliminari Una volta concluse le indagini preliminari, il Pubblico Ministero presso il Tribunale per i Minorenni (PMM) ha tre principali opzioni: A) Esercitare l’azione penale , formulando richiesta di rinvio a giudizio (art. 416 c.p.p.) dopo aver notificato il previsto avviso di conclusione delle indagini (art. 415-bis c.p.p.). In alternativa, ricorrendone i presupposti, può richiedere: Giudizio immediato (art. 453 c.p.p.) , qualora vi sia evidenza della prova e siano stati compiuti gli interrogatori necessari entro 90 giorni dall’iscrizione del ragazzo nel registro degli indagati. Giudizio direttissimo , purché siano stati già effettuati gli accertamenti sulla personalità (art. 9 D.P.R. 448/1988) e venga garantita l’assistenza prevista dall’art. 12 dello stesso decreto. Tuttavia, la brevità dei termini del direttissimo mal si concilia con la necessità di svolgere approfondite indagini sulla personalità del minore, motivo per cui, nella pratica, questo rito è raramente utilizzato in ambito minorile. Giudizio abbreviato (artt. 438 ss. c.p.p.) , applicabile anche ai minori secondo le regole comuni. Si noti invece che, per espressa previsione dell’art. 25 D.P.R. 448/1988, non trovano applicazione nei confronti del minore: il patteggiamento (art. 444 c.p.p.), il procedimento per decreto (art. 459 c.p.p.). B) Richiedere l’archiviazione , in conformità alle disposizioni del codice di procedura penale comune (art. 408 c.p.p. e ss.) quando gli elementi raccolti non appaiano idonei a sostenere l’accusa in giudizio o manchino le condizioni di procedibilità. C) Domandare la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (art. 27 D.P.R. 448/1988) , qualora il PM ritenga il fatto di scarsa gravità e il comportamento del minore occasionale, valutando altresì che il proseguimento del procedimento arrecherebbe un pregiudizio alle esigenze educative del ragazzo. 5.1 L’irrilevanza del fatto L’art. 27 D.P.R. 448/1988 introduce un istituto peculiare del processo penale minorile, definito come “non luogo a procedere per irrilevanza del fatto”. Esso rappresenta una causa di non punibilità (come stabilito anche dalla Corte Costituzionale), attivabile durante le indagini preliminari oppure successivamente (fino al dibattimento), in presenza dei seguenti presupposti: (i) Tenuità del fatto illecito; (ii) Occasionalità del comportamento del minore; (iii) Convinzione che il prosieguo del processo possa nuocere allo sviluppo educativo del ragazzo. La norma mira a evitare che il contatto con il sistema penale produca un effetto controproducente o stigmatizzante in tutti quei casi in cui la condotta sia oggettivamente di scarso allarme sociale e abbia carattere episodico. L’esempio tipico è un furto di modico valore, posto in essere in modo avventato e senza reale consapevolezza delle conseguenze. In tali ipotesi, il mero avvio del procedimento può fungere da deterrente e responsabilizzare il minore, rendendo superflua la prosecuzione formale del giudizio. Se il PM valuta sussistenti i requisiti, richiede al Giudice (di norma il GIP) la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere. Quest’ultimo, dopo un’udienza in contraddittorio e l’ascolto del ragazzo, può: Accogliere la richiesta , pronunciando sentenza di proscioglimento. Rigettarla e restituire gli atti al PM , il quale dovrà necessariamente procedere (es. depositando richiesta di rinvio a giudizio). In caso di rigetto, non è più possibile “tornare indietro” verso l’archiviazione, poiché il PM ha già esercitato di fatto l’azione penale avanzando la richiesta di declaratoria di irrilevanza. L’unico sbocco è dunque la prosecuzione del procedimento (anche attraverso riti alternativi, se ammissibili). L’irrilevanza del fatto può essere dichiarata anche dopo l’udienza preliminare o durante il dibattimento, d’ufficio o su istanza di parte, purché le condizioni di legge siano rimaste invariate e compatibili con la fase processuale in corso. In sintesi, la chiusura delle indagini preliminari nel processo minorile presenta meccanismi deflattivi più marcati rispetto all’ordinario rito penale: oltre alla tradizionale archiviazione, l’irrilevanza del fatto – quale strumento di rapida definizione e di tutela del minore – riveste un ruolo cruciale nel prevenire un inutile aggravio della procedura e nel favorire un immediato riorientamento educativo. 6. L’udienza preliminare Nel processo penale minorile, l’udienza preliminare è concepita come il luogo privilegiato per la definizione anticipata del giudizio, perseguendo le finalità essenziali di r iduzione del carico processuale (deflazione), evitando dibattimenti inutili o controproducenti; e r apida conclusione dell’iter , consentendo al minore di fuoriuscire al più presto dal circuito penale. Sebbene la disciplina di riferimento resti quella del codice di procedura penale ordinario, il rito minorile si arricchisce di ulteriori previsioni, dirette a tutelare la personalità in formazione del ragazzo L’ avviso di fissazione dell’udienza è inviato, oltre che al minore e al suo difensore, anche alla persona offesa (senza la possibilità di costituirsi parte civile, preclusa nel procedimento minorile), all’esercente la responsabilità genitoriale (ove il ragazzo sia ancora minorenne), ai servizi minorili (Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni - USSM) che hanno già svolto attività di supporto o osservazione. Funzione dei genitori e dei servizi sociali è quella di facilitare la ricostruzione della personalità del minore (art. 9 D.P.R. 448/1988) e orienta il giudice nella scelta eventuale di percorsi alternativi alla prosecuzione del processo (irrilevanza del fatto, perdono giudiziale, sospensione con messa alla prova, ecc.). Se il ragazzo, nel frattempo, è divenuto maggiorenne, non sussiste più l’obbligo di avviso ai genitori. 6.1 Definizione del processo all’udienza preliminare L’udienza preliminare nel processo minorile è stata pensata per favorire una chiusura rapida ed evitare che un giovane debba affrontare un dibattimento completo se non strettamente necessario. Da qui discendono varie opzioni: Proscioglimento per cause previste dal codice di rito (art. 425 c.p.p.), quando il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, oppure per mancanza di una condizione di procedibilità. Perdono giudiziale (art. 169 c.p. e art. 29 D.P.R. 448/1988), se ricorrono le condizioni (fatto di contenuta gravità e prognosi di recuperabilità del minore). Irrilevanza del fatto (art. 27 D.P.R. 448/1988), qualora si ritenga che la tenuità della condotta e l’occasionalità dell’illecito rendano il prosieguo del processo pregiudizievole per lo sviluppo educativo. A seguito delle modifiche introdotte dalla legge 63/2001 (cd. “giusto processo”), il giudice chiede all’imputato se acconsente a una pronuncia “allo stato degli atti”. Se l’imputato acconsente, il giudice può definire il processo con sentenza di non luogo a procedere per le ragioni poc’anzi richiamate (proscioglimento pieno, perdono giudiziale, irrilevanza del fatto). Se l’imputato non presta il consenso, o in caso di situazioni non coperte dalla sentenza di proscioglimento, il giudice dispone il rinvio a giudizio, avviando la fase dibattimentale. Tuttavia, la Corte Costituzionale ha precisato che il consenso non può ostacolare pronunce di proscioglimento “pieno” (perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso), giacché sarebbe illogico subordinare a un atto di volontà del minore l’emissione di una sentenza liberatoria in assenza di responsabilità. 6.2 Possibilità di pronunciare sentenza di condanna La condanna in udienza preliminare, nel rito minorile, è ammissibile solo se il Pubblico Ministero la richiede espressamente (il giudice non può procedere d’ufficio), e la pena non supera i due anni di detenzione, cosicché sia sostituibile con una pena pecuniaria o con le sanzioni previste dal sistema delle “pene sostitutive” (ad esempio libertà controllata o semidetenzione). Queste restrizioni evitano che si arrivi a una condanna “piena” senza un dibattimento per reati di particolare gravità. Al contempo, preservano la possibilità di chiudere rapidamente casi meno gravi, con una sanzione ridotta e/o sostituibile, coerentemente con la logica rieducativa. 6.3 Provvedimenti civili provvisori L’art. 32, comma 4, D.P.R. 448/1988 consente, se necessario, che il giudice adotti provvedimenti urgenti di natura civile in favore del minore (analoghi a quelli previsti dagli artt. 330-333 c.c.). Tali misure, volte a garantire l’adeguata tutela del ragazzo (ad esempio, in caso di gravi carenze genitoriali o situazioni familiari critiche), sono immediatamente esecutive e hanno efficacia di 30 giorni, entro i quali devono essere confermate o modificate dal Tribunale per i Minorenni in composizione collegiale. Non sono invece adottabili in questa fase i provvedimenti amministrativi di cui agli articoli 25 e 25-bis R.D.L. 1404/34 (ad esempio misure rieducative di tipo amministrativo), giacché riservati alla competenza del Tribunale per i Minorenni nella sua composizione ordinaria (due giudici togati e due componenti privati), mentre il GUP minorile, sebbene anch’esso collegiale, ha una composizione “anomala” (un giudice togato e due esperti onorari). In sintesi, l’udienza preliminare nel procedimento a carico di minori costituisce un passaggio fondamentale per garantire rapidità, semplificazione e massima personalizzazione dell’intervento giudiziario. Il giudice, dopo aver raccolto gli elementi sulla personalità del ragazzo e valutato le istanze della Pubblica Accusa, può scegliere la soluzione più idonea e meno traumatica: proscioglimento, definizione con condanna a pena sostitutiva o, se necessario, rinvio al dibattimento. Tutto ciò in un’ottica che, pur riconoscendo il profilo sanzionatorio del processo, resta orientata a tutelare lo sviluppo educativo del minore. 7. Il perdono giudiziale Nell’ambito del processo penale minorile, tra le modalità di definizione anticipata del giudizio riveste particolare importanza il perdono giudiziale, disciplinato dall’art. 169 c.p. e riconducibile a una causa di estinzione del reato che si fonda su un positivo accertamento della responsabilità del minore, ma comporta la scelta dello Stato di non irrogare alcuna sanzione. 7.1 Natura e presupposti Il perdono giudiziale è un istituto di diritto sostanziale, in quanto incide sulla punibilità del ragazzo, e si applica qualora: Il reato sia stato commesso prima del compimento dei 18 anni . La pena da irrogare in concreto (valutate circostanze, diminuenti per la minore età, eventuali comparazioni ecc.) non superi i due anni di reclusione o arresto (oppure la pena pecuniaria non ecceda un certo limite). Il giudice formuli una prognosi favorevole circa la futura condotta del ragazzo, reputando che non commetterà ulteriori illeciti. È dunque possibile che il perdono venga riconosciuto anche in relazione a fatti astrattamente puniti con pene più elevate, purché la pena concretamente quantificata non oltrepassi i due anni. Ciò evidenzia la funzione rieducativa dell’istituto: qualora l’illecito appaia un episodio isolato e il minore abbia dimostrato di aver proseguito positivamente il proprio percorso di crescita (riprendendo la scuola o inserendosi in attività lavorative, astenendosi da ulteriori condotte illecite, ecc.), lo Stato rinuncia alla punizione. 7.2 Effetti Il perdono giudiziale produce l’estinzione del reato, ma presuppone un formale accertamento di responsabilità penale. Per questo rimane traccia nel certificato penale, almeno sino al compimento del ventunesimo anno di età, e non potrà essere concesso nuovamente se il minore, in seguito, si rende autore di altri reati. Dal punto di vista logico, è concepito come l’atto finale di un percorso in cui il giudice accerti che non vi è necessità di ulteriori interventi correttivi o rieducativi (come, invece, accade nella sospensione del processo con messa alla prova). L’illecito viene considerato un “incidente di percorso” che il giovane riesce a superare senza un vero e proprio regime sanzionatorio. 7.3 Unicità del beneficio e interventi della Corte Costituzionale La legge prevede che il perdono giudiziale sia concedibile una sola volta, salvo i casi in cui, nei reati connessi, l’intero comportamento illecito del minore possa essere inquadrato come un unicum (continuazione o commistione temporale dei fatti). In queste circostanze la Consulta ha ammesso, in modo residuale, l’applicabilità del beneficio anche a fatti commessi antecedentemente alla pronuncia di perdono, purché la pena complessiva non superi i limiti stabiliti. Al contrario, la commissione di un nuovo reato dopo il perdono giudiziale denota l’“insufficienza della funzione ammonitrice del perdono” e giustifica il divieto di ripetere l’istituto, in quanto la reiterazione criminale indica un fallimento del percorso di autorieducazione. In definitiva, il perdono giudiziale si inserisce nel quadro degli strumenti deflattivi e rieducativi previsti dal sistema minorile, offrendo al minore un’occasione di rapido reinserimento e di estinzione delle conseguenze penali, qualora abbia dimostrato di non richiedere ulteriori interventi punitivi o correttivi. Sottolinea, al contempo, la necessità di una valutazione puntuale della personalità e del comportamento complessivo del giovane, assicurando che la scelta di non punire non sia casuale, ma si basi su una solida prognosi di recupero. 8. La messa alla prova La messa alla prova, disciplinata dagli artt. 28 e 29 del D.P.R. 448/1988, è uno degli istituti più significativi del processo penale minorile, in quanto consente una definizione del procedimento senza arrivare a una vera e propria condanna, all’esito di un periodo di “prova” dedicato alla rieducazione e al recupero del ragazzo. L’idea di fondo è che, specie nei casi di minore gravità (ma non solo), la detenzione possa rivelarsi inidonea o addirittura controproducente, poiché favorisce fenomeni di stigma e “etichettamento”, mentre un percorso di sostegno o di impegni riparativi può rivelarsi più efficace per il reinserimento sociale. Il modello della probation ha radici nel sistema anglosassone ed è stato rilanciato a livello internazionale dalle cosiddette Regole di Pechino (1985) e, più in generale, dalle raccomandazioni del Consiglio d’Europa, che incoraggiano forme di “diversion” (allontanamento del minore dal circuito penale) e giustizia riparativa. A differenza di alcuni ordinamenti stranieri, in cui la probation interviene dopo la pronuncia di condanna nella fase dell’esecuzione, nel sistema italiano minorile l’istituto opera prima della decisione di merito, sospendendo il processo per un periodo stabilito dal giudice. Se, all’esito, la prova risulta positiva, il reato si estingue. In caso di esito favorevole, la messa alla prova è considerata una causa di estinzione del reato (art. 29 D.P.R. 448/1988). Ciò ha sollevato, in passato, questioni di costituzionalità in quanto introdotta da una norma processuale (legge-delega per il nuovo rito minorile), ma la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione hanno confermato la legittimità dell’istituto, sottolineandone la funzione rieducativa e l’assenza di ingiustificate disparità di trattamento rispetto agli adulti. 8.1 Presupposti per la sospensione del processo con messa alla prova Sussistenza di un reato (notitia criminis) e l’esercizio dell’azione penale (non è possibile disporre la messa alla prova nelle mere indagini preliminari, occorre il rinvio a giudizio o l’avvio del dibattimento). Responsabilità penale dell’imputato: benché la legge non lo dichiari esplicitamente, la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria ritengono che il giudice debba avere riscontri idonei a ritenere credibile la colpevolezza del minore, nonché la sua imputabilità (capacità di intendere e di volere). Qualora emergano cause di esclusione della punibilità (es. archiviazione, perdono giudiziale, irrilevanza del fatto), la messa alla prova non risulta necessaria. Valutazione discrezionale del giudice : il Tribunale per i Minorenni, all’esito di apposite indagini sulla personalità (art. 9 D.P.R. 448/1988), deve formulare un giudizio prognostico favorevole, ritenendo che il minore possa avvalersi di un percorso educativo, così da maturare competenze e valori tali da evitare future condotte devianti. Consenso dell’imputato : la sospensione del processo richiede l’adesione volontaria del ragazzo al progetto di intervento elaborato dai servizi sociali. Ciò è coerente con la logica responsabilizzante dell’istituto: senza una partecipazione attiva e consapevole del minore, la prova sarebbe destinata a fallire. 8.2 Struttura e contenuti del progetto di messa alla prova Una volta valutate positivamente le condizioni per la messa alla prova, il giudice (GUP o Tribunale in dibattimento) emette un’ordinanza di sospensione del processo. Contestualmente, approva un progetto elaborato con la collaborazione dei Servizi minorili (USSM) e dei servizi territoriali (enti locali, associazioni, centri di volontariato), che può prevedere: Attività di studio o formazione professionale : frequenza scolastica, corsi di formazione, attività di recupero didattico. Attività lavorativa : inserimento in contesti lavorativi formali o tirocini. Percorsi di sostegno o psicoterapia: laddove siano emersi disagi personali o familiari. Riparazione del danno o mediazione con la vittima : la dimensione riparativo-riconciliativa può includere risarcimenti economici, prestazioni di volontariato, dialogo assistito con la persona offesa, ecc. Attività di volontariato o prestazioni di utilità sociale, più o meno collegate al tipo di reato, per sviluppare un senso di responsabilità civica. Il progetto deve adattarsi alle effettive risorse personali del minore, al suo contesto familiare, nonché alle strutture disponibili sul territorio (non sempre, purtroppo, le risorse locali sono sufficienti). È previsto inoltre che, durante l’intero periodo di prova, i servizi aggiornino periodicamente il giudice sull’andamento del ragazzo. 8.3 Ambito di applicazione e durata Tipologia di reati: di regola, la messa alla prova è applicabile a qualunque reato commesso dal minore, senza limiti di gravità. Tuttavia: Se il fatto è bagatellare , si preferiscono istituti come l’irrilevanza del fatto (art. 27), che non comportano alcun periodo di prova. Per i reati più gravi , si valuta se la prova sia concretamente utile e se la frattura tra autore e società possa essere ricomposta nel termine concesso dalla legge. Durata: per i reati puniti con reclusione non inferiore nel massimo a 12 anni, la sospensione può arrivare fino a 3 anni; negli altri casi, fino a 1 anno. L’ampiezza di tale forbice riflette la maggiore complessità nell’affrontare reati di gravità elevata. 8.4 Possibili esiti della prova Esito positivo Se, terminato il periodo di sospensione, il giudice accerta (sulla base delle relazioni dei servizi e della valutazione dei progressi compiuti) che il minore ha rispettato le prescrizioni e dimostrato un’adeguata evoluzione personale, pronuncia sentenza di non luogo a procedere (o di non doversi procedere), con conseguente estinzione del reato. Questa pronuncia non compare nel casellario giudiziale ai fini di nuove iscrizioni, così da evitare la stigmatizzazione del ragazzo. Esito negativo Se il minore viola ripetutamente le prescrizioni o commette nuovi reati, o si dimostra incapace di portare avanti il progetto, il giudice revoca la sospensione e il processo riprende secondo le forme ordinarie. In tal caso si potrà pervenire a una condanna, eventualmente con concessione di altri benefici (es. perdono giudiziale), purché ne ricorrano i presupposti. 8.5 Valutazione complessiva: un istituto “cardine” del processo minorile La messa alla prova si è affermata come uno strumento centrale per attuare la finalità costituzionale e internazionale di rieducare e reinserire i minori devianti. La sua importanza si comprende valutandone i tratti caratteristici quali: la Personalizzazione del progetto, che si modella sulle esigenze specifiche del minore e tiene conto del contesto familiare e sociale; la Deflazione che evita il dibattimento (spesso lungo e stigmatizzante) e può estinguere il reato, impedendo che i ragazzi restino etichettati come criminali; la Responsabilizzazione , infatti l’esito positivo dipende dall’impegno effettivo del minore, sostenuto e sorvegliato dai servizi sociali; ed infine la Flessibilità , perchè la durata e le modalità si adattano al tipo di reato e al percorso evolutivo del soggetto. Non mancano, in concreto, alcune criticità (ad es. carenza di risorse territoriali, resistenze culturali, scarsa disponibilità alla mediazione), ma l’istituto continua a rappresentare un caposaldo di ogni riforma orientata a umanizzare e razionalizzare il sistema di giustizia minorile, nella direzione della prevenzione e del recupero. 9. Il dibattimento Nell’economia del processo penale minorile, il dibattimento rappresenta una fase residuale, alla quale si dovrebbe giungere soltanto nei casi in cui la definizione anticipata non sia percorribile (ad es. reati di maggiore allarme sociale o situazioni in cui gli accertamenti risultano particolarmente complessi). Se l’udienza preliminare funziona secondo i criteri di snellezza e specialità per cui è stata concepita, la maggior parte dei procedimenti dovrebbe concludersi prima del dibattimento. 9.1 Differenze rispetto al dibattimento ordinario Pur richiamando in larga misura la disciplina del codice di procedura penale comune, il dibattimento minorile presenta alcune peculiarità: Pubblicità dell’udienza Regola generale: l’udienza si svolge a porte chiuse, per tutelare la riservatezza e la dignità del minore. Eccezione: l’imputato ultra-sedicenne può chiedere che la seduta sia pubblica; tuttavia, il collegio ammette la pubblicità soltanto se ciò non contrasta con l’interesse superiore del ragazzo. Esame dell’imputato L’esame è condotto direttamente dal presidente del collegio, con esclusione della “cross-examination” tipica dei processi ordinari. Questa modalità mira a ridurre l’impatto emotivo di un controesame incalzante e a favorire un clima meno conflittuale, rispettando la personalità in formazione del minore. Applicabilità di norme proprie dell’udienza preliminare minorile Il D.P.R. 448/1988 prevede che, anche in dibattimento, siano utilizzabili gli strumenti previsti per l’udienza preliminare (artt. 31 e 32, comma 4), ad esempio: Accompagnamento coattivo del minore se, pur convocato, non compare; Allontanamento dall’aula dell’imputato per l’acquisizione di prove su elementi delicati legati alla sua personalità; Partecipazione dei genitori o di chi esercita la responsabilità genitoriale, nonché dei servizi minorili e della persona offesa; Possibilità di adottare provvedimenti civili provvisori (art. 32, comma 4) con efficacia limitata a 30 giorni, in attesa della conferma collegiale. 9.2 Conclusione e sentenza Quanto ai contenuti decisori, il Tribunale per i Minorenni, in composizione collegiale, dopo aver espletato gli adempimenti dibattimentali: Può pronunciare sentenza di assoluzione (per insussistenza del fatto, mancanza di prove, estraneità dell’imputato ecc.). Oppure sentenza di condanna , eventualmente con concessione di benefici (ad es. perdono giudiziale) o con dosaggio delle pene in linea con i principi educativi (eventuale sostituzione della pena detentiva). In ogni caso, l’istruttoria dovrà rispettare sempre la finalità di salvaguardia della personalità del minore, anche mediante un dibattimento rapido e non spettacolarizzato. 10. I procedimenti speciali nel processo minorile (cenni) Uno degli aspetti più innovativi del codice di procedura penale ordinario del 1988 è rappresentato dai procedimenti speciali – nati per sfoltire il ricorso al dibattimento e riservarne l’utilizzo ai casi più complessi. Nel processo penale minorile, tuttavia, tali riti non trovano integrale e automatica applicazione, bensì sono “filtrati” dai principi di specialità ed adeguatezza (art. 1 D.P.R. 448/1988). Il legislatore delegato ha optato per un’applicazione selettiva di alcuni di essi, escludendone altri in ragione delle finalità rieducative proprie della giustizia minorile. 10.1 Riti speciali inammissibili L’art. 25 D.P.R. 448/1988 esclude esplicitamente due procedimenti speciali: il patteggiamento e il procedimento per decreto. Patteggiamento (art. 444 c.p.p.) La sua esclusione si spiega con: La presunta immaturità del minore, che spesso non dispone di una piena capacità di valutazione delle conseguenze processuali e sanzionatorie. Il carattere potenzialmente antieducativo della “contrattazione sulla pena”, in contrasto con il principio per cui è necessario un approfondimento sulla personalità e una ricostruzione del percorso deviante. La preclusione di altri istituti rieducativi (irrilevanza del fatto, perdono giudiziale, messa alla prova, ecc.) se si procedesse direttamente a una definizione sanzionatoria concordata. Tale scelta legislativa è stata avallata dalla Corte Costituzionale, che ha evidenziato come la negoziazione della pena possa risultare incoerente con l’impostazione pedagogico-rieducativa propria del processo minorile. Procedimento per decreto (art. 459 c.p.p.) Implica una definizione della vicenda esclusivamente sanzionatoria (perlopiù pecuniaria), senza alcuna valutazione della personalità del minore. Ciò è chiaramente in contrasto con le esigenze educative del processo minorile, inoltre il ragazzo (spesso privo di reali capacità patrimoniali) non trarrebbe alcun effettivo beneficio rieducativo da un provvedimento meramente pecuniario. 10.2 Rito ammesso a determinate condizioni: il giudizio direttissimo Il giudizio direttissimo (artt. 449 ss. c.p.p.) è teoricamente applicabile anche ai minori, ma solo se siano già stati eseguiti gli accertamenti sulla personalità (art. 9 D.P.R. 448/1988), e sia garantita l’assistenza psicologica e affettiva del ragazzo (art. 12 D.P.R. 448/1988). Nella prassi, però, l’utilizzo del direttissimo è raro. Ciò perché il giudizio direttissimo presuppone termini molto brevi (48 ore se l’arresto non è convalidato, 30 giorni se già convalidato, o in caso di confessione), insufficienti per svolgere un’approfondita indagine sulla personalità. Inoltre, il minore, salvo casi in cui sia già noto ai servizi sociali e quindi si disponga già di informazioni di base, difficilmente potrà essere sottoposto a una valutazione psico-sociale adeguata in così poco tempo. In astratto, il rito direttissimo può avere un senso quando il ragazzo è stato arrestato in flagranza e si hanno già elementi completi sulla sua personalità. Tuttavia, il criterio di tutela educativa suggerisce, di solito, forme processuali più flessibili (es. giudizio immediato, udienza preliminare “ordinaria”, ecc.). 10.3 Riti ammessi incondizionatamente Due procedimenti speciali trovano, invece, normale applicazione anche nel processo minorile: il giudizio abbreviato e il giudizio immediato. Giudizio abbreviato (artt. 438 ss. c.p.p.) Vale la stessa disciplina prevista per gli adulti, con riduzione di un terzo della pena in caso di condanna. Prima di pronunciarsi, il giudice minorile deve aver acquisito i dati sulla personalità ex art. 9 D.P.R. 448/1988. La valutazione del minore e del contesto, però, è inevitabilmente più compressa rispetto alla procedura ordinaria. Ciò non toglie che, in molti casi, il rito abbreviato possa costituire una rapida definizione processuale compatibile con la finalità rieducativa, specie se si tratta di reati con prova già consolidata. Giudizio immediato (art. 453 c.p.p.) Presupposti essenziali sono: l’evidenza della prova, il previo interrogatorio dell’indagato e richiesta del PM entro 90 giorni dall’iscrizione nel registro. Non sono previsti ostacoli normativi in tema di compatibilità con la giustizia amministrativa, purché l’accertamento sulla personalità possa comunque svolgersi entro i tempi necessari (la legge non obbliga a completarlo prima della richiesta del PM, ma certamente è essenziale che sia avviato). Alcuni Uffici di Procura minorile lo usano spesso in caso di reato commesso in flagranza o con prove particolarmente solide, specie quando il minore è in stato di custodia cautelare. Questo anche per rispettare i termini ridotti di custodia vigenti per i minori e fornire una risposta giudiziaria in tempi rapidi. Capita di frequente che, instaurato il giudizio immediato, l’imputato opti per il rito abbreviato, di fatto riportando la questione nelle mani del GUP. 11. L’innovazione dell’art. 27-bis D.P.R. 448/1988 (“Percorso di rieducazione del minore”) Con la conversione in legge (L. 13 novembre 2023, n. 159) del D.L. 16 settembre 2023, n. 123, il legislatore ha introdotto e poi parzialmente modificato l’art. 27-bis del D.P.R. 448/1988, rubricato “Percorso di rieducazione del minore”. La nuova disposizione, collocandosi in un segmento antecedente all’esercizio dell’azione penale, mira a offrire al minore, sotto determinati presupposti, una definizione anticipata del procedimento attraverso un percorso di reinserimento e rieducazione civica e sociale. Di seguito se ne illustrano i tratti salienti e le linee di indirizzo operative, anche alla luce di prassi applicative (come quelle delineate nelle recenti Linee guida della Procura presso il Tribunale per i Minorenni di Bari). 11.1 Genesi e ratio della novella L’art. 27-bis nasce come misura di contrasto al disagio giovanile e alla criminalità minorile, nonché di promozione di percorsi di responsabilizzazione sin dalle prime fasi delle indagini preliminari. In particolare, il legislatore intende fornire un nuovo strumento “deflattivo”, simile per spirito alla messa alla prova (art. 28 D.P.R. 448/1988), ma attivabile prima dell’esercizio dell’azione penale. La logica di fondo è evitare che il minore rimanga ingabbiato nel circuito penale ove il fatto non rivesta particolare gravità e vi siano prospettive concrete di recupero. Da ciò deriva un potere discrezionale del Pubblico Ministero minorile, chiamato a valutare, in base ai presupposti di legge, se proporre al ragazzo un percorso di reinserimento e di educazione civica e sociale, in alternativa alle strade tradizionali (archiviazione, rinvio a giudizio ecc.). 11.2 Ambito di applicazione e presupposti Il raggio d’azione della definizione anticipata ex art. 27-bis è limitato a reati per i quali sia prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria (sola o congiunta a pena detentiva entro lo stesso limite). All’interno di questa cornice, il PM valuta se la condotta risulti di “non particolare gravità”, soppesando: La natura e specie del fatto, Le modalità con cui è stato commesso (circostanze, mezzi utilizzati, pericolo cagionato, gravità del danno arrecato), Un sommario esame della personalità del minore, basato su eventuali precedenti, pendenze, notazioni di polizia e, se necessario, accertamenti sociali ai sensi dell’art. 9 D.P.R. 448/1988 Solo se, alla luce di tali elementi, il reato appare di limitato allarme sociale e il ragazzo presenta indizi di possibile cambiamento, il PM potrà discrezionalmente attivare il nuovo istituto, formulando la cosiddetta “proposta di definizione anticipata del procedimento”. 11.3 La “proposta di definizione anticipata del procedimento” 11.3.1 Notifica al minore e ai soggetti esercenti la responsabilità genitoriale La riforma ha trasformato quello che nella versione originaria del D.L. 123/2023 era un atto “dovuto” in un atto discrezionale. Ove il PM decida di procedere in tal senso, notificherà al minore e all’esercente la responsabilità genitoriale (nonché, di fatto, metterà a conoscenza il difensore, se già nominato) la “proposta di definizione anticipata”. Con tale proposta invita il minore a riflettere su una possibile assunzione di responsabilità per il fatto, prefigurando l’avvio di un percorso di rieducazione e di reinserimento sociale, mediante attività di pubblica utilità (collaborazione con enti del Terzo settore, lavori socialmente utili, altre iniziative a beneficio della comunità) per un periodo compreso fra due e otto mesi. 11.3.2 Necessaria ammissione (anche generica) dei fatti Poiché il nuovo 27-bis implica un coinvolgimento del minore in un programma rieducativo, appare indispensabile che il ragazzo ammetta (almeno in forma generica) la propria responsabilità o, quantomeno, non la contesti. Se il minorenne rifiuta di assumersi ogni responsabilità, non vi sarebbe ragione di predisporre un piano di recupero. Ciò evidenzia un parallelismo con la messa alla prova (art. 28), istituto a cui l’art. 27-bis si ispira, pur differenziandosi sul piano temporale (poiché interviene durante le indagini preliminari). 11.3.3 L’interrogatorio e il coinvolgimento del difensore Nell’ottica di un pieno contraddittorio (e del rispetto del “giusto processo”), risulta fondamentale che l’indagato sia assistito da un difensore, specialmente ove debba manifestare la volontà di aderire al percorso. Se la proposta viene accettata dal minore (dopo l’interrogatorio e i chiarimenti del caso), sarà onere di costui (o del difensore/l’esercente la responsabilità genitoriale) contattare i Servizi minorili dell’amministrazione della giustizia (USSM), per la stesura condivisa di un programma idoneo. Se la proposta viene rifiutata o il minore non si presenta, il PM potrà procedere ordinariamente verso la conclusione delle indagini e l’eventuale esercizio dell’azione penale. 11.4 Il programma rieducativo e la trasmissione al GIP 11.4.1 Stesura del programma Entro 60 giorni (prorogabili per motivi oggettivi e in caso di effettiva cooperazione del minore), l’interessato, di concerto con USSM e, se presente, il difensore, deve depositare in Procura il programma rieducativo. Tale piano, calibrato sulle esigenze educative del ragazzo, prevede: attività di volontariato, collaborazione con il terzo settore, lavori socialmente utili, percorsi formativi, di studio o di reinserimento lavorativo, eventuali interventi di sostegno psicologico o riparazione simbolica verso la vittima. Qualora decorra inutilmente il termine senza che il programma sia presentato, la proposta si intende rifiutata. 11.4.2 Sub-procedimento dinanzi al GIP Ricevuto il programma, il PM ne verifica la congruità e trasmette gli atti al Giudice per le Indagini Preliminari, formulando una richiesta di ammissione al percorso. Si apre così un sub-procedimento in camera di consiglio (art. 27-bis, co. 3 e ss.), nel quale il GIP valuterà: La fondatezza della proposta, L’idoneità del programma, L’assenza di circostanze ostative (gravità del fatto, comportamenti antigiuridici recidivi, ecc.). Se ritiene il piano adeguato e coerente con le finalità educative, il GIP approva la sospensione del procedimento e affida il minore ai servizi sociali per un periodo tra due e otto mesi, verificandone gli sviluppi. 11.5 Esito del percorso e conseguenze Il percorso rieducativo può avere due epiloghi: Esito positivo Il GIP, su relazione finale dei Servizi minorili e previa valutazione complessiva, dichiara estinto il reato e definisce anticipatamente il procedimento, precludendo ogni ulteriore conseguenza penale. Esito negativo (o interruzione) Se il minore interrompe, rifiuta di proseguire o mostra grave inadempienza agli impegni assunti, il GIP revoca il beneficio e restituisce gli atti al PM, che procederà con l’ordinario iter processuale (archiviazione, se sussistono i presupposti, oppure richieste di rinvio a giudizio). Di particolare rilievo, nella versione convertita, è l’eliminazione del divieto di accedere successivamente alla messa alla prova (art. 28) o all’irrilevanza del fatto (art. 27) in caso di rifiuto o di fallimento del percorso ex 27-bis. Ciò significa che, anche dopo una definizione negativa, il minore potrà eventualmente beneficiare di altri istituti rieducativi, se le circostanze e la fase processuale lo consentiranno. 11.6 Osservazioni e prime prassi applicative Dall’analisi delle Linee guida della Procura Minorile di Bari e di altre prassi emergono alcuni punti-chiave: Discrezionalità del PM: non è più atto dovuto, ma scelta motivata, improntata a una valutazione preventiva di “non particolare gravità” del fatto e di potenziale aderenza del ragazzo a un percorso educativo. Rilievo del contraddittorio e dell’assistenza difensiva: la partecipazione di un avvocato (d’ufficio o di fiducia) risulta essenziale, soprattutto in sede di interrogatorio, per evitare che il minore assuma impegni o “ammetta” responsabilità senza un’adeguata comprensione delle conseguenze. Coinvolgimento dei servizi sociali: l’USSM riceve semplice comunicazione dal PM circa la proposta, intervenendo su iniziativa del minore e dell’esercente la responsabilità genitoriale per l’elaborazione del programma. Flessibilità dei termini: il limite di 60 giorni per il deposito del programma non è perentorio e può essere prorogato una sola volta, purché non imputabile all’inerzia del minore. Mantenimento delle altre opzioni: la disciplina convertita ha abrogato il divieto di accedere successivamente ad art. 28 o 29 D.P.R. 448/1988. Dunque, l’insuccesso o la rinuncia non precludono, in fase successiva, la sospensione con messa alla prova o la pronuncia del perdono giudiziale. 11.7 Conclusioni L’art. 27-bis, così riformulato, amplia il ventaglio degli strumenti di “diversion” e definizione anticipata del procedimento penale minorile, introducendo un meccanismo parzialmente analogo alla messa alla prova, ma ancorato alla fase delle indagini preliminari e affidato alla discrezionalità del PM. Si tratta di un’opportunità rieducativa in più, pensata per quei reati di minore gravità in cui appare verosimile che un intervento immediato, mirato e personalizzato possa dissuadere il ragazzo dal proseguire in percorsi devianti. I primi riscontri pratici sottolineano la necessità di un bilanciamento attento tra il carico di lavoro dei servizi sociali, la rapidità di intervento e l’effettiva volontà del minore di rimettersi in gioco. Non meno rilevante è il fatto che, qualora non funzioni o non venga accettata, permangono altre vie tipiche del rito minorile, come l’irrilevanza del fatto, il perdono giudiziale o la sospensione con messa alla prova. Nel complesso, l’art. 27-bis conferma e rafforza la tradizione del sistema penale minorile italiano, orientata alla tutela del minore e alla prevenzione della recidiva attraverso strumenti di responsabilizzazione e reinserimento. La sfida sarà applicarlo in modo uniforme sul territorio, evitando sovrapposizioni e distinguendo con chiarezza quando sia preferibile un intervento così precoce (e impegnativo) rispetto ad altre opzioni già consolidate. Giovanni Salatto Avvocato
Avvocato fiduciario e sostituto d’udienza I.N.P.S. a seguito di selezione indetta con circolare n. 25 del 20.02.2009 per gli anni 2009 e 2010.
Metodi e metodologie psicologiche, pedagogiche e giuridiche nella tutela del minore organizzato dalla Camera Minorile di Capitanata con l’Ordine degli Avvocati di Foggia
Quarta edizione della Scuola penalistica di I° livello istituita dalla Camera Penale di Lucera, propedeutica all’ iscrizione nelle liste dei difensori d’ufficio
Accordo di riservatezza NDA – Non Disclosure Agreements Cos’è, a cosa serve e come scriverlo Gli accordi di riservatezza, noti come Non-Disclosure Agreements (NDA), rappresentano strumenti contrattuali finalizzati a tutelare informazioni che le parti intendono mantenere confidenziali. Pur trovando larga diffusione in ambito industriale e commerciale (per esempio, in trattative di acquisizione di società, in contratti di licenza o collaborazioni tecnologiche, nonché in operazioni di finanziamento o joint venture), gli NDA possono applicarsi trasversalmente in ogni settore in cui si renda necessario proteggere dati sensibili, segreti commerciali, know-how o informazioni di natura strategica. Spesso gli NDA precedono la conclusione di un contratto più ampio (per esempio, un contratto di licenza di brevetto, un contratto di fornitura o un’operazione societaria), con lo scopo di tutelare le informazioni scambiate durante le trattative. La clausola principale consiste nell’imposizione di un dovere di riservatezza , spesso accompagnata da un obbligo di utilizzo limitato (ovvero consentire l’uso delle informazioni ricevute solo per finalità ben specificate). Un NDA ben strutturato evita che la controparte possa sfruttare le informazioni ricevute per fini non autorizzati o, peggio, divulgarle a terzi . Inquadramento normativo in Italia - Fonti di riferimento Codice civile : non esiste una norma specifica dedicata all’NDA, ma esso trova fondamento nei principi generali di autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.) e di buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.). Codice della proprietà industriale (D.Lgs. n. 30/2005) : disciplina i segreti industriali (art. 98 e ss. CPI) e prevede forme di tutela contro la loro divulgazione illecita. Direttiva (UE) 2016/943 e relativo recepimento (D.Lgs. n. 63/2018) : riguardano la protezione del know-how riservato e delle informazioni commerciali non divulgate. Normativa sulla privacy (GDPR e D.Lgs. 196/2003) : qualora le informazioni confidenziali includano dati personali, si devono adottare tutte le misure di protezione previste dalla normativa in materia di protezione dei dati. Contratto tipico o atipico? Gli NDA rientrano nella categoria dei contratti atipici, sebbene la loro diffusione e prassi consolidata ne abbiano di fatto creato uno standard. Il fondamento di liceità risiede nell’autonomia contrattuale delle parti (art. 1322 c.c.), entro i limiti imposti dalle norme imperative e dall’ordine pubblico. Questioni dibattute nella prassi applicativa Uno dei nodi più frequenti è la corretta delimitazione dell’oggetto dell’NDA . Spesso le parti tendono a includere ogni informazione relativa all’azienda, ma una definizione eccessivamente ampia può creare incertezze e, in alcuni casi, essere ritenuta invalida o comunque inapplicabile. Un passaggio fondamentale è chiarire: cosa si intende per “informazioni riservate” (ad es. segreti industriali, dati commerciali, formule, piani di marketing, dati di ricerca, liste clienti, ecc.) nonchè cosa rimane escluso (ad es. informazioni già di pubblico dominio o legittimamente possedute dalla controparte). Un altro tema caldo è quello della durata dell’obbligo di riservatezza . In alcuni settori (es. farmaceutico, tecnologico) potrebbe essere previsto un vincolo a tempo indeterminato, specie se i segreti aziendali non sono mai destinati a diventare di dominio pubblico. In altri contesti, la durata può essere limitata a pochi anni (3-5 anni), trascorsi i quali le informazioni perderebbero rilevanza strategica. E’ frequente l’inserimento di una penale a carico della parte che viola gli obblighi di riservatezza, il cui importo funge da liquidazione convenzionale del danno. La clausola penale permette di predeterminare la quantificazione del danno connesso a una possibile divulgazione illecita delle informazioni confidenziali. In altre parole, invece di attendere la prova (spesso complessa e onerosa) di quanti e quali danni siano derivati dalla violazione, le parti fissano una somma che dovrà essere corrisposta dalla parte inadempiente. Vantaggi principali: - Funzione deterrente: la prospettiva di dover pagare un importo predeterminato scoraggia la controparte dal violare la riservatezza. - Certezza giuridica: definendo anticipatamente l’entità del danno, si evitano lunghe controversie sulla quantificazione del risarcimento. - Semplificazione probatoria: in linea di massima, la parte lesa non deve fornire la prova specifica del danno subito (rimane però l’onere di provare l’esistenza dell’inadempimento o della violazione della riservatezza). A volte si discute se la clausola penale abbia anche una funzione punitiva (a mo’ di “punitive damages”), ma nella tradizione giuridica italiana prevale l’idea che si tratti di uno strumento essenzialmente risarcitorio/deterrente, benché di fatto possa svolgere un effetto sanzionatorio quando l’importo stabilito è nettamente superiore al danno effettivo. In tali casi, il giudice, su richiesta, può ridurre equamente la penale se la reputa manifestamente eccessiva (art. 1384 c.c.). Il primo problema pratico riguarda l’importo della penale . Se la somma stabilita appare manifestamente sproporzionata rispetto all’importanza economica o strategica delle informazioni protette, la controparte potrebbe agire in giudizio per ottenerne la riduzione (art. 1384 c.c.). Questo si traduce in un rischio per la parte divulgante che aveva confidato di avere una tutela “forte”, salvo poi subire un intervento correttivo del giudice. Il suggerimento è quello di quantificare la penale in modo ragionevole, tenendo conto del (i)Valore commerciale delle informazioni; (ii)Potenziale vantaggio per il concorrente o per terzi; (iii)Conseguenze economiche prevedibili di una divulgazione; (iv)Durata temporale dell’utilità delle informazioni (ad es. segreti industriali che mantengono il loro valore negli anni). Occorre stabilire poi, se la clausola penale abbia natura esclusivamente sostitutiva del risarcimento o possa aggiungersi a un’ulteriore pretesa risarcitoria. In linea generale, se nel contratto si specifica che la penale “esaurisce ogni pretesa”, la parte lesa non potrà richiedere ulteriori somme. Al contrario, se il contratto prevede espressamente la penale come importo “minimo” dovuto, la parte lesa potrà agire anche per il maggior danno (purché sia in grado di provarlo). Bisogna infine ricordare che, la clausola penale, pur sollevando dalla prova dell’ammontare del danno, non esime la parte lesa dal dover dimostrare la violazione degli obblighi di riservatezza (o quantomeno dal fornire indizi gravi, precisi e concordanti). Ciò talvolta risulta complicato, soprattutto quando la divulgazione avviene in modo occulto o indiretto. Nei casi più gravi, la divulgazione può coesistere con sanzioni penali e tutele speciali. Sanzioni penali: l’art. 623 c.p. (rivelazione di segreto industriale) può trovare applicazione se le informazioni divulgate rientrano tra i segreti industriali (know-how, processi produttivi, etc.) e la condotta è volontaria o dolosa. L’esistenza di una clausola penale nel contratto non esclude la responsabilità penale: si tratta di sfere distinte (privata/contrattuale vs. penale). Tutela del Codice della Proprietà Industriale (CPI) : come previsto dall’art. 99 e seguenti, la violazione dei segreti commerciali e industriali può dare luogo a inibitorie, sequestro, risarcimento del danno in via civile, ordini di rimozione e varie misure correttive. La clausola penale, quindi, si aggiunge a questi strumenti. Nel contesto internazionale, si pone il problema della scelta della legge e del foro competente (clausole di governing law e jurisdiction). In Italia, è frequente l’elezione del Foro di Milano nelle controversie legate alla proprietà industriale e intellettuale, data la presenza di una Sezione Specializzata in materia di Impresa. La giurisprudenza di merito e di legittimità si è espressa soprattutto in relazione (i) all’ambito di responsabilità e prova del danno: il titolare delle informazioni deve provare, in giudizio, sia l’avvenuta divulgazione non autorizzata sia il danno concreto subito; (ii) all’estensione del concetto di “segreto industriale”: i Tribunali tendono a interpretare in senso lato ciò che può costituire segreto industriale o commerciale, purché vi sia effettivo interesse alla riservatezza. Consigli di redazione 1. Definire con precisione le informazioni riservate È cruciale dedicare un articolo (o più) del contratto alla definizione dell’oggetto della riservatezza. È buona prassi elencare esempi e categorie di informazioni (es. piani di business, dati tecnici, software, metodi produttivi, strategie commerciali, ecc.), tenendo comunque uno spazio aperto a eventuali informazioni “collegate o conseguenti” a quelle elencate. 2. Esclusioni Prevedere espressamente le circostanze in cui le informazioni non sono da considerarsi riservate, ad esempio: Informazioni già di pubblico dominio o che lo divengono successivamente senza colpa della parte ricevente. Informazioni già legittimamente in possesso della parte ricevente, senza vincoli di riservatezza. Informazioni divulgate da terzi che non erano obbligati alla riservatezza. Informazioni richieste dall’Autorità giudiziaria o da altre autorità competenti, previa comunicazione alla parte divulgante (laddove possibile). 3. Obblighi di utilizzo limitato Oltre al divieto di divulgazione, è importante stabilire in modo chiaro: Che l’uso delle informazioni sia permesso unicamente per il fine specificato nel contratto (es. due diligence, valutazione di un investimento, sviluppo di un progetto congiunto ecc.). Che ogni diffusione interna all’organizzazione sia permessa solo a determinati soggetti (dipendenti, collaboratori, consulenti), i quali dovranno a loro volta essere vincolati alla riservatezza. 4. Durata Specificare la durata dell’accordo e se la riservatezza prosegue anche successivamente alla cessazione del rapporto contrattuale. In caso di durata illimitata, chiarire il razionale (ad es. trattasi di segreti industriali che mantengono la loro natura riservata indefinitamente). 5. Clausole penali e risarcimento del danno Una clausola penale può fungere da deterrente, purché non sia eccessivamente elevata o vessatoria (in tal caso, la quantificazione può essere ridotta giudizialmente). Prevedere la possibilità per la parte lesa di agire per il risarcimento del danno ulteriore, qualora dimostri di aver subito un pregiudizio superiore all’importo stabilito dalla penale. 6. Foro competente e legge applicabile In contratti di carattere transnazionale, è opportuno stabilire la legge applicabile e il foro competente o inserire una clausola compromissoria di arbitrato, per minimizzare i rischi di conflitti di giurisdizione. In ambito domestico, si può scegliere di devolvere la controversia al Foro specializzato in materia di impresa (ad es. il Tribunale di Milano, se lo si ritiene più adeguato). 7. Obblighi di restituzione/distruzione È buona prassi prevedere l’obbligo, al termine del rapporto, di restituire o distruggere i documenti riservati, comprese le copie digitali (salvo esigenze archivistiche obbligatorie). In alcuni settori, si inserisce una dichiarazione scritta che la restituzione/distruzione sia stata effettivamente compiuta. Schema di NDA con clausole tipiche Di seguito uno schema esemplificativo di accordo di riservatezza, con l’avvertenza che ogni NDA va adattato alle esigenze specifiche delle parti e al contesto normativo di riferimento. 1. Frontespizio e intestazione Titolo: “Accordo di riservatezza (NDA)” Parti: denominazione, sede legale, rappresentanti, ecc. (di seguito, “Parte Divulgante” e “Parte Ricevente” o viceversa, se bilaterale). 2. Preambolo (o Recitals) Indicare le motivazioni che spingono le parti a stipulare l’NDA (es. trattative in corso, necessità di scambio di informazioni per valutare un investimento, ecc.). Specificare la volontà delle parti di regolare il trattamento delle informazioni confidenziali. 3. Definizioni “ Informazioni Riservate”: definizione dettagliata delle categorie di informazioni che rientrano nella tutela. “Esclusioni”: elencare espressamente le tipologie di informazioni escluse (informazioni di pubblico dominio, informazioni già in possesso della parte ricevente, etc.). 4. Oggetto e obblighi Obbligo di non divulgazione: le informazioni devono restare segrete e non comunicate a terzi, salvo autorizzazione scritta della parte divulgante. Obbligo di utilizzo limitato: le informazioni possono essere utilizzate solo per lo scopo definito nell’accordo. Responsabilità per i soggetti coinvolti: la parte ricevente risponde della condotta di dipendenti, consulenti, collaboratori che abbiano accesso alle informazioni riservate. 5. Durata Prevedere chiaramente la durata dell’accordo (es. 3-5 anni) e stabilire che, se non diversamente concordato, il vincolo di riservatezza possa persistere anche oltre la durata contrattuale, per proteggere segreti industriali o altre informazioni che non devono essere divulgate. 6. Clausola penale e risarcimento del danno Clausola penale: indicare un importo forfettario che la parte inadempiente dovrà corrispondere in caso di violazione. Riservarsi la possibilità di richiedere un risarcimento del danno ulteriore qualora questo superi l’importo convenuto come penale. 7. Restituzione o distruzione Obbligo di restituzione/distruzione dei documenti, specificando le modalità e i tempi (ad es. entro 15 giorni dalla fine del rapporto). 8. Legge applicabile e foro competente Prevedere se si desidera una clausola di competenza esclusiva del Tribunale [città], oppure una clausola arbitrale. Specificare quale legge governa l’accordo (per le parti italiane, lex fori o altra legge scelta di comune accordo). 9. Varie Clausola di integrità: l’NDA costituisce l’intero accordo in tema di riservatezza e sostituisce ogni precedente intesa. Clausola salvatoria (severability): in caso di nullità di una disposizione, le altre restano valide. Clausola di modifica: l’accordo può essere modificato solo per iscritto e con il consenso di entrambe le parti. 10. Firma Inserire gli spazi per la firma dei rappresentanti legali delle parti. Conclusioni Gli NDA si confermano strumenti essenziali per la tutela della riservatezza e la protezione di informazioni sensibili, specie quando le parti sono impegnate in trattative o collaborazioni strategiche. Sebbene la legge italiana non disciplini in modo specifico questi accordi, la cornice dell’autonomia contrattuale consente di costruire pattuizioni ad hoc, efficaci e pienamente tutelate dal nostro ordinamento. La chiarezza e la specificità delle clausole sono fondamentali per evitare contestazioni e per consentire al giudice, in caso di controversia, di interpretare senza ambiguità gli obblighi assunti. L’NDA deve proteggere la parte divulgante, ma non deve risultare eccessivamente gravoso per la parte ricevente, pena il rischio di invalidità di talune clausole (si pensi a penali manifestamente esorbitanti o a definizioni eccessivamente vaghe). E’ consigliabile revisionare periodicamente i propri modelli di NDA, in considerazione degli sviluppi normativi, tecnologici e di prassi (soprattutto nei settori a rapida evoluzione). Nota finale Il presente studio offre una panoramica generale e un esempio di schema contrattuale di riferimento. Per la redazione specifica di un NDA è sempre opportuno valutare le peculiarità del caso concreto (ambito settoriale, regime di responsabilità, finalità dell’accordo, ecc.), nonché aggiornarsi sulle eventuali evoluzioni giurisprudenziali e normative intervenute. Giovanni Salatto Avvocato
Corso di Alta formazione giuridica in Diritto Civile, Penale e Amministrativo organizzato da Altalex in Roma.
Giovanni Salatto
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