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Avvocato Irene Carta Cerrella a Palermo

Irene Carta Cerrella

Avvocato a Palermo

Informazioni generali

Sono l'Avv. Irene Carta Cerrella. Mi sono iscritta all'albo nel 1990 e, da allora, esercito, in modo continuativo, la professione forense nel campo del diritto civile. Fino al 2002 ho avuto la fortuna di lavorare con mio padre e con mio zio, entrambi avvocati civilisti. Ho svolto, con soddisfazione, nel periodo 2014-2016, incarichi di arbitro unico e di curatore speciale in materia societaria, conferiti dal Presidente del Tribunale di Milano. Ritengo opportuno e più soddisfacente per i clienti, ricorrere a forme di A.D.R. cioè alle tecniche alternative di risoluzione delle controversie, quali, arbitrato, negoziazione assistita.

Esperienza


Arbitrato

Ho partecipato a seminari e corsi in materia di arbitrato ed ho svolto l'incarico di arbitro unico a Milano a seguito della nomina da parte del Presidente del Tribunale di Milano. Ho assistito i clienti nelle procedure arbitrali in materia di appalti tra privati e in materia societaria.


Diritto civile

Lo Studio Carta Cerrella, fondato nel 1978, gestito da me con il valido supporto di un team di collaboratori, vanta una esperienza consolidata nel campo del diritto civile. Lo Studio, da oltre trenta anni, segue imprese individuali e societarie,professionisti, lavoratori,privati, fornendo assistenza giudiziale e stragiudiziale nelle seguenti materie: commerciale, successioni e divisioni ereditarie, famiglia, locazioni, fallimentare e altre procedure concorsuali. Lo Studio ha svolto e tuttora svolge anche attività di domiciliazione giudiziale per importanti studi legali di Milano.


Diritto commerciale e societario

Vanto una esperienza trentennale nel diritto commerciale. Ho iniziato l'attività forense nel 1990 proprio nel campo del diritto commerciale. Ho seguito una quantità indefinibile di controversie giudiziali e stragiudiziali, raggiungendo risultati soddisfacenti, grazie, anche, all'esame approfondito della giurisprudenza e della dottrina.


Altre categorie

Negoziazione assistita, Diritto di famiglia, Eredità e successioni, Unioni civili, Separazione, Divorzio, Incapacità giuridica, Fusioni e acquisizioni, Fallimento e proc. concorsuali, Diritto bancario e finanziario, Usura, Diritto assicurativo, Recupero crediti, Pignoramento, Contratti, Diritto tributario, Diritto del lavoro, Mobbing, Sicurezza ed infortuni sul lavoro, Licenziamento, Previdenza, Diritto sindacale, Diritto amministrativo, Ricorso al TAR, Aste giudiziarie, Diritto internazionale ed europeo, Immigrazione e cittadinanza, Diritto condominiale, Locazioni, Sfratto, Diritto dei trasporti terrestri, Incidenti stradali, Multe e contravvenzioni, Tutela del consumatore, Malasanità e responsabilità medica, Tutela degli animali, Mediazione, Matrimonio, Domiciliazioni, Risarcimento danni.



Credenziali

Pubblicazione legale

L’Assegno divorzile e il riconoscimento alla ex moglie “casalinga e lavoratrice” secondo la recente Sentenza Corte di Cass. del 9.03.2020. n. 6519.

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La Prima Sezione della Corte di Cassazione ha ritenuto di cambiare orientamento relativamente al criterio utilizzato per valutare l’esistenza o meno del diritto dell’ex coniuge all’assegno divorzile ex art.5 L. 898/1970. La storica sentenza n.11504/2017, ha subordinato il diritto all'assegno divorzile all'accertata carenza di autosufficienza economica nel richiedente, utilizzando i criteri indicati dall'art. 5, 6° comma, per la sua determinazione quantitativa ed ancorava non soltanto il diritto all'assegno a un criterio non contemplato dal legislatore o, quanto meno, ad una interpretazione molto discutibile del riferimento normativo alla mancanza di "mezzi adeguati", ma ignorava completamente il vissuto dell'esperienza coniugale. Le SS.UU. n. 18287/2018, discostandosi dal decennale orientamento, indica tra i suoi passaggi fondamentali il principio secondo cui “il diritto all’assegno di divorzio non dipende solo dalla mancata autosufficienza economica di chi lo richiede, come delineato da costante giurisprudenza, ma dall’esigenza di consentire al coniuge privo di "mezzi adeguati" il ripristino del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.” Il diritto sorge anche quando si tratta di porre rimedio allo squilibrio esistente nella situazione economico patrimoniale delle parti le cui cause risalgono al vissuto della coppia coniugale, dando in tal modo il giusto rilievo alle scelte e ai ruoli che hanno caratterizzato la vita familiare. In tale prospettiva, l’assegno diventa dunque lo strumento che, adempiendo ad una funzione di tipo compensativa, consente al coniuge più debole di ricevere quanto ha dato durante il matrimonio. Quanto deciso dalle SS.UU. offre una nuova lettura dell’art.5, 6° comma, legge div., prevedendo l’applicazione dei criteri previsti dal legislatore in una diversa ottica rispetto al costante orientamento tradizionale. L’assegno divorzile non è più considerato come un mezzo per consentire al coniuge il mantenimento del tenore di vita goduto durante il matrimonio e neanche come un mezzo di assistenziale per il coniuge privo di mezzi che gli garantiscano una esistenza libera e dignitosa, ma trova, nella sentenza delle Sezioni Unite una dimensione che esalta la funzione compensativa ed individua nell’assegno divorzile e nella sua determinazione quantitativa il mezzo per riconoscere al coniuge il suo concreto contributo alla realizzazione della vita familiare. Tali conclusioni traggono la loro forza nel modello del matrimonio costituzionale, fondato sui principi di uguaglianza e di pari dignità, sia per ciò che concerne i rapporti tra i coniugi durante il matrimonio ma anche per gli effetti patrimoniali conseguenti allo scioglimento in attuazione del principio di solidarietà, che permane anche con la dissoluzione del matrimonio al fine di salvaguardare la pari dignità tra i coniugi. Il nuovo paramento dunque è fondato sulla possibilità del coniuge di ottenere una indipendenza economica. Una volta assunto che l’indipendenza economica del coniuge richiedente o la possibilità di conseguirla costituiscono un elemento capace di escludere in radice la titolarità del diritto all’assegno divorzile, si pone il problema di individuare gli “indici” in presenza dei quali è possibile affermare che detto presupposto ricorra. A tal fine la Cassazione pone l’accento su quattro elementi che il giudice deve considerare alla stregua di indicatori di quell’indipendenza economica in presenza della quale dovrebbe escludersi la titolarità di un assegno divorzile in capo al richiedente. In particolare l’indipendenza economica potrebbe ricorrere allorché il richiedente sia in “possesso di redditi di qualsiasi specie”; oppure disponga di “cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari”; o, ancora, sia dotato di capacità e possibilità effettive di lavoro personale in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente ed autonomo; infine, nell’ipotesi in cui abbia la “stabile disponibilità di una casa di abitazione”. Di seguito il principio di diritto enunciato dalle SS.UU.: "Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell'assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi o comunque dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l'applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dell'avente diritto. - Si riporta un caso di particolare interesse a seguito del mutato orientamento: La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 9.03.2020 n. 6519 , ha rigettato il ricorso di un marito che in sede di appello, era stato costretto a versare alla moglie un assegno mensile di 1600 euro. Il Giudice adito correttamente osservava l’allontanamento dal metodo del tenore di vita di cui alla Cass. n. 11504/2017, sottolineando la funzione di perequazione, di assistenza e di compensazione dell'assegno di divorzio, il quale non può non tenere conto dell'età del coniuge che lo richiede, della sua reale possibilità di riprendere a lavorare, dei sacrifici fatti per la famiglia e del contributo alla formazione del patrimonio familiare con il lavoro fuori casa e casalingo. - Il ricorso in Appello. La Corte di Appello in sentenza fissa l'assegno divorzile a favore della ex moglie nella somma di euro 1600 mensili. La Corte non considerando il superato metodo del tenore di vita evita qualunque rimedio di tipo punitivo. Nel caso specifico, la coppia è stata a lungo sposata, ed il coniuge richiedente l’assegno ha dedicato gran parte del proprio tempo alla famiglia ed al coniuge, incrementandone le risorse attraverso il lavoro sia a casa che fuori, fattori decisivi per la valutazione della durata del matrimonio e della disparità di reddito tra loro. Nel caso di specie, la ex moglie rappresenta la parte debole del rapporto, non economicamente indipendente e priva di proprie risorse lavorative e liquidità poiché le uniche disponibilità dalla vendita degli appartamenti del padre in comproprietà con la sorella. La donna vive in affitto ed al momento è comproprietaria di una casa che non produce reddito. La Corte ritiene corretto diminuire l’importo dell’assegno alla moglie, in misura diversa però rispetto a quella indicata dal marito, apporta una valutazione anche in relazione all’età della donna, età che rende difficile per la donna l’ottenimento di un lavoro ed ancora, a sostegno delle proprie ragioni, valuta anche le inevitabili spese alle quali la donna dovrà far fronte in futuro per pagare l’affitto. - Il ricorso in Cassazione Il marito decide di ricorrere in Cassazione in relazione all’importo dell’assegno. Con il primo motivo, lamenta il fatto che la moglie non abbia prodotto in giudizio le dichiarazioni di successione del padre e della madre. Con il secondo motivo, si duole di come la Corte non abbia preso in considerazione il fatto che la donna avrebbe potuto abitare nella casa di suo padre e non pagare l’affitto. Con il terzo motivo, lamenta l'omesso esame dell'accordo secondo il quale la spesa relativa all’affitto sarebbe gravata sul marito sino a quando la moglie non avesse acquistato la disponibilità gratuita di un immobile e una volta sopravvenuta la morte del padre. Con il quarto motivo, contesta il fatto che secondo lui l’immobile ereditato dalla ex moglie sia redditizio, con la relativa assenza di prove . Con il quinto motivo, lamenta il giudizio della Corte sulla capacità e possibilità della donna di produrre reddito, non essendoci prove sulle iniziative della ex moglie finalizzate al raggiungimento di una indipendenza economica. Con il sesto motivo, contesta l’omissione di un fatto decisivo, vale a dire, che la figlia ha deciso di abitare con il padre, e per questo l’importo dell'assegno sembra eccessivo, essendo unico beneficio della donna. Con il settimo e l'ottavo motivo contesta la misura dell'assegno, superiore di molto ai possibili parametri d'indipendenza o autosufficienza economica e per avere stabilito la somma considerando i redditi del marito e la differenza di reddito tra i due, mentre la Corte avrebbe dovuto considerare in modo esclusivo la condizione del richiedente, senza tenere conto dalle indicazioni dettate dalla sentenza n. 11504/2017. - La decisione della Suprema Corte di Cassazione La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 9.03.2020, ha rigettato il ricorso, ritenendo che le prime sei doglianze sollevate siano inammissibili perché hanno la finalità di ottenere un giudizio sostitutivo rispetto a quello di merito, che si è concluso con una esatta e adeguata motivazione, che si sottrae al disappunto del ricorrente. In relazione al settimo e ottavo motivo del ricorso, nel quale il ricorrente lamenta l’allontanamento dai parametri stabiliti dalla sentenza n. 11504/2017, che ha abbandonato il tenore di vita nella determinazione dell'assegno di divorzio, la Corte fa presente che la successiva SU n. 18287/2018 ha il compito di dare una diversa lettura all'assegno di divorzio più coerente con il quadro costituzionale. Da qui deriva l'adozione del parametro di perequazione e compensazione che si rifà al principio di solidarietà e che deve considerare le condizioni del reddito e del patrimonio di entrambi gli ex coniugi, per il raggiungimento di un livello di reddito adeguato al contributo erogato alla realizzazione della vita familiare, senza non tenere conto delle aspettative professionali sacrificate, considerando l’età del richiedente e la durata del matrimonio. Da qui l'affermazione, relativa all'articolo 5 della legge n. 898/1970 (cosiddetta legge sul divorzio) del principio secondo il quale “ il riconoscimento dell'assegno di divorzio, al quale si deve attribuire una funzione assistenziale e in pari misura compensativa e perequativa, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi o comunque dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l'applicazione dei metodi dei quali alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dell'avente diritto”. In relazione a questo principio, al richiedente verrà riconosciuto un importo adeguato a garantirgli una vita dignitosa e autonoma, che gli riconosca il sacrificio e quello che ha fatto durante il matrimonio. Così la Corte d’Appello muovendo dal ragionamento logico giuridico sopraesposto, ha abbandonato il metodo della valutazione fondata sul tenore di vita, non tollerando rendite parassitarie in presenza della giovane età del richiedente e della sua capacità lavorativa, in una visione che da spazio a un indirizzo non punitivo verso il coniuge economicamente più debole che è stato sposato per molto tempo, che ha dedicato il suo tempo alla famiglia, ed ha incrementato le risorse economiche comuni con il suo lavoro, tanto in casa quanto fuori e che pertanto merita il giusto riconoscimento.

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GLI EFFETTI DELLA SENTENZA LEXITOR DELLA CGUE NEI CASI DI ESTINZIONE ANTICIPATA DEL FINANZIAMENTO

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Tribunale di Napoli, 07 febbraio 2020, n. 1340 - G.U. Pastore Alinante Con la pronuncia in oggetto, il Tribunale di Napoli ha fatto propria l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia europea, con la Sentenza C-383/2018 (Sentenza Lexitor) dell’art. 16 paragrafo 1 della Direttiva 2008/48/CE, stabilendo che in caso di estinzione anticipata di un contratto di finanziamento, il consumatore ha diritto al rimborso di tutti i costi sostenuti per l’erogazione dello stesso senza alcuna distinzione tra costi up front e recurring. Nella sopracitata sentenza la CGUE ha statuito che l’art. 16, par. 1, della Direttiva 2008/48/CE deve essere interpretato nel senso che “il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del credito include tutti i costi posti a carico del consumatore”. Dunque, tutti i costi del credito, correlati o non alla durata residua del contratto, ad eccezione delle spese del notaio (la cui scelta compete al consumatore), sono riducibili nel caso di estinzione anticipata del finanziamento. Successivamente alla Sentenza Lexitor, è intervenuto sul punto anche il Collegio di coordinamento ABF ( Arbitro Bancario Finanziario ) il quale, con riguardo alla proposizione dei ricorsi in materia, ha specificato che, se il cliente ha a suo tempo domandato la retrocessione di tutti i costi, compresi quelli “ up front ”- ossia quelle spese sostenute una tantum dai consumatori per ottenere il finanziamento - e il Collegio, in accoglimento parziale del ricorso, gli ha riconosciuto soltanto la retrocessione di costi “ recurring ” – cioè i costi dipendenti dalla durata di un contratto - la pretesa afferente ai costi up front non può essere riproposta in virtù del principio “ ne bis in idem ” (divieto di doppio giudizio). Se, invece, il cliente ha chiesto soltanto il rimborso di costi recurring, un nuovo ricorso avente ad oggetto le commissioni up front derivanti dal medesimo fatto costitutivo, deve ritenersi anch’esso inammissibile. Infatti, la domanda se accolta comporterebbe una inammissibile modifica della decisione già assunta, oltre ad integrare la violazione del principio di infrazionabilità della domanda. L’ABF concludeva, pertanto che, in pendenza di un ricorso finalizzato al rimborso dei soli costi recurring, è da escludersi la possibilità che il cliente, edotto della sopravvenuta sentenza Lexitor, possa proporne un altro separato ai fini del rimborso dei costi up front, salva la possibilità di rinunciare a entrambi e proporre successivamente un ricorso unitario volto alla retrocessione di tutti i costi ripetibili in conseguenza della estinzione anticipata del finanziamento.

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LE OBBLIGAZIONI CONTRATTUALI AI TEMPI DEL CORONAVIRUS (SARS-COV-2)

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La recente cronaca ci mostra l’importanza e gli effetti della pandemia sulla popolazione mondiale in ampi aspetti, da quello economico a quello scolastico, fino a giungere ad una analisi sociale. In questo articolo verrà illustrata una breve panoramica degli istituti giuridici che oggi assumono una importante rilevanza e degli effetti riflessi sui contratti alla luce del Decreto Legge n. 18/2020 di recente emanazione, c.d. “Decreto Cura Italia”. Sommario: 1.Introduzione: effetti della pandemia sui contratti pendenti; 2. Possibili rimedi; 3. Eventi di origine umana; 4. Impossibilità sopravvenuta; 5. Onerosità sopravvenuta; 6. Le clausole si “hardship”; 7. La responsabilità del debitore alla luce del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 (C.d. “Cura Italia”); 8. Rimborsi. 1. Introduzione: effetti della pandemia sui contratti pendenti. Il crescente numero di contagi da Covid 19 ha indotto il Governo ad emanare, in forza della tutela della salute pubblica ed al fine del contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale, diversi provvedimenti studiati “ad hoc”; provvedimenti che stesso Primo ministro, Giuseppe Conte, ha definito come volti a fronteggiare un’emergenza “mai conosciuta dal dopoguerra ad oggi”. Più precisamente il Governo ha introdotto, a mezzo di decreti legge, diverse limitazioni alla libertà personale ed alla libertà di circolazione ed hanno, al contempo, disposto la sospensione e poi la chiusura di gran parte delle attività commerciali e produttive in genere. In tale ottica, è opportuna una valutazione circa l’impatto che le suddette misure di contenimento della attuale pandemia avranno sui contratti stipulati prima della attuale emergenza e pertanto ancora pendenti ed efficaci. La prima questione da affrontare riguarda la natura delle misure adottate dal Governo e porta inevitabilmente con sé la necessità di individuare i possibili effetti delle misure adottate suoi rapporti contrattuali già posti in essere. 2. Possibili rimedi L’art. 1218 c.c., costituisce la norma cardine in materia di responsabilità contrattuale: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. Ciò che rileva è dunque l’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore, atteso che le limitazioni introdotte dai decreti, potrebbero fortemente incidere sulla possibilità di adempiere alle obbligazioni assunte. Il nostro ordinamento aggiunge poi che a norma dell’art.1256, comma 1 c.c.: “L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile”. Ove concorrano i due elementi dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione (siamo dunque in presenza di un elemento oggettivo) e della non imputabilità di detta impossibilità a fatto del debitore (e qui di un elemento soggettivo), si verificano due effetti: da un lato, l’obbligazione si estingue e il debitore è liberato; dall’altro, il debitore, pur non avendo eseguito la prestazione, non è tenuto al risarcimento dell’eventuale danno. Il codice civile prevede, poi, che, nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione comporta altresì che il debitore liberato non possa a sua volta chiedere la controprestazione e debba, invece, restituire quella che abbia eventualmente già ricevuto, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito (art. 1463 c.c) Consolidata giurisprudenza, ritiene che per configurarsi come tale, la causa non imputabile consiste in “impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza”. Affinché assurga a causa non imputabile deve pertanto trattarsi di un “evento imprevedibile in relazione alla natura del negozio e alle condizioni del mercato”, che trascende la sfera del debitore, e cioè “non dipendente da dolo o da colpa” dello stesso. La stessa giurisprudenza specifica come, se da un lato “l'impossibilità sopravvenuta che libera dall'obbligazione deve essere obiettiva, assoluta e riferibile al contratto e alla prestazione ivi contemplata, e deve consistere non in una mera difficoltà, ma in un impedimento, del pari obiettivo e assoluto, tale da non poter essere rimosso”, dall’altro lato, occorre tenere presente il principio di buona fede contrattuale che ormai assume il carattere di fonte integrativa del contratto e concerne il rapporto contrattuale dalla sua esistenza ed in ogni sua fase, impone allo stesso tempo però di considerare impossibile non solo quella prestazione che non può essere eseguita dal debitore neanche utilizzando la massima diligenza, ma anche quella che implichi un impiego di forze psicofisiche o di costi economici particolarmente gravoso, tenuto conto del programma contrattuale originari: ciascun contraente è infatti tenuto “a salvaguardare l'interesse o l'utilità dell'altra parte”, ma sempre “nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio”. Diversamente dal precedente codice del 1865, che esplicitamente statuiva che “Il debitore non è tenuto ad aver un risarcimento di danni, quando in conseguenza di una forza maggiore o di un caso fortuito fu impedito di dare o di fare ciò a cui si era obbligato, od ha fatto ciò che gli era vietato”, il codice civile attualmente vigente non individua, a livello di disciplina generale, specifiche cause di esonero da responsabilità. E’ la stessa giurisprudenza a richiamare il “caso fortuito e la forza maggiore” come limite alla diligenza normalmente richiesta e alla possibilità concreta di richiedere l’adempimento. Figure che, secondo un autorevole dottrina, qualora ricorrenti nel caso di specie, ne impedirebbero perfino la configurazione di un’azione penalmente rilevante, posto che la forza maggiore annulla del tutto la signoria del soggetto sulla condotta e impedisce quindi di configurare un’azione penalmente rilevante, il caso fortuito, invece, non sempre esclude l’esistenza dell’azione. Caso fortuito e forza maggiore, concretizzandosi in forze impeditive non altrimenti vincibili e fuori da ogni controllo e prevedibilità umana, qualificandosi come fattori eccezionali ed imprevedibili che possiamo riassumere nel brocardo “vis maior cui resisti non potest”, inducono a configurare la presente pandemia come una calamità naturale e pertanto una causa di esonero da responsabilità contrattuale. 3. Eventi di origine umana Il debitore può non eseguire la prestazione dovuta, se l’adempimento è impedito da un atto di pubblica autorità che sia esso di natura legislativa, amministrativa o giudiziaria, il c.d. “factum prìncipis”. La giurisprudenza ha chiarito che sono solo due le condizioni che possano giustificare “factum prìncipis” e dunque giustificare l’inadempimento o il ritardo nell’esecuzione della prestazione. Per soddisfare la prima condizione è “necessario che l'ordine o il divieto dell'autorità sia configurabile come un fatto totalmente estraneo alla volontà dell'obbligato e ad ogni suo obbligo di ordinaria diligenza; il che vuoi dire che, di fronte all'intervento dell'autorità, il debitore non deve restare inerte né porsi in condizione di soggiacervi senza rimedio, ma deve, nei limiti segnati dal criterio dell'ordinaria diligenza, sperimentare ed esaurire tutte le possibilità che gli si offrono per vincere e rimuovere la resistenza o il rifiuto della pubblica autorità”. La seconda condizione richiede che il debitore “non può invocare l'impossibilità della prestazione con riferimento ad un provvedimento dell'autorità amministrativa che fosse ragionevolmente prevedibile secondo la comune diligenza”. Per maggiore chiarezza e a titolo esemplificativo, le possibili attività che rientrerebbero nella prima condizione sono: Asili nido, obbligati a rimanere chiusi per ordine della Pubblica Autorità e che pertanto non possono in alcun modo adempiere alle obbligazioni assunte al momento della iscrizione presso l’asilo dei propri alunni. Vale lo stesso per i bar ed i servizi di ristorazione, impossibilitati a svolgere la propria attività e che pertanto sono legittimamente autorizzati a rifiutare qualsiasi tipo di rifornimento ed adempimento concernente i contratti di somministrazione. 4. Impossibilità sopravvenuta. Ai sensi dell’art. 1256, comma 2 c.c., l’impossibilità temporanea esonera il debitore da ogni responsabilità per il ritardo nell’adempimento, salvo che l’impossibilità perduri “fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla”. Nelle ipotesi di inadempimento contrattuale, l’unica impossibilità che di regola ne determinerebbe l’estinzione è l’impossibilità definitiva. Infatti, cessata la causa di impossibilità temporanea, il debitore è tenuto ad adempiere la prestazione, ed in caso di impossibilità parziale o divenuta impossibile troveranno applicazione gli artt. 1258 e 1464 c.c. Secondo la prima norma, “il debitore si libera dall’obbligazione eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile”. Tuttavia, in caso di contratto a prestazioni corrispettive l’art. 1464 c.c. introduce un correttivo, sempre al fine di salvaguardare il sinallagma, statuendo che in tale ipotesi “l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale”. La giurisprudenza ha chiarito che all’impossibilità di eseguire la prestazione deve essere equiparata la diversa e ipotesi in cui sia divenuto impossibile per il creditore utilizzare la prestazione per causa a lui non imputabile. L’interesse creditorio a veder soddisfare la propria pretesa ed a ricevere la prestazione viene meno per effetto della sopravvenuta oggettiva impossibilità di utilizzarla da parte del debitore verificandosi in tal modo l’estinzione dell’obbligazione e “dovendosi in tal caso prendere atto che non può più essere conseguita la finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto”. 5. Onerosità sopravvenuta I contratti a prestazione corrispettive, caratterizzati dal “sinallagma funzionale” e con effetti destinati a durare nel tempo, in particolare i contratti ad esecuzione continuata e periodica, ovvero ad esecuzione differita, subiscono al verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili che ne alterino in maniera significativa l’equilibrio economico originario in quanto non rientranti “nell’alea normale del contratto”. Gli articoli 1467 e ss.cc. consentono, al verificarsi di eventi straordinari ed imprevedibili che ne alterino in maniera significativa l’equilibrio economico originario in quanto non rientranti “nell’alea normale del contratto” non esistenti dunque al momento della stipula, di sciogliere il vincolo contrattuale. Al verificarsi dei suddetti casi, la parte obbligata ad eseguire la prestazione e a causa di tali fattori divenuta “eccessivamente onerosa” non è di regola liberata automaticamente ma ha la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto. La parte creditrice, se vuole evitare la risoluzione può offrire una modifica equa delle condizioni del contratto, ripristinando così l’originario equilibrio delle prestazioni. In casi non emergenziali, se la crescente svalutazione monetaria e le fluttuazioni del mercato, sono considerate dalla giurisprudenza eventi che ne giustificherebbero l’aumento e ne impedirebbero la risoluzione contrattuale, con la nuova normativa che riveste il carattere della straordinarietà e imprevedibilità e diretta a fronteggiare l’emergenza, questi fattori potrebbero prendere il sopravvento sui normali divieti e nello specifico indurre ad un’alterazione dell’assetto concordato dalle parti tale da svantaggiare eccessivamente, dal punto di vista economico, uno dei due contraenti. Vi rientrerebbero ad esempio tutte quelle attività produttive inserite in una determinata catena settoriale, impossibilitate a reperire sul mercato materie prime o semilavorati se non ad un prezzo raddoppiato ed eccessivo che apparrebbe giustificato dalla scarsità del bene in presenza della emergenza sanitaria in corso. 6. Le clausole di “hardship”. L’autonomia contrattuale consente alle parti di inserire negli accordi, per le fattispecie fin ora analizzate, apposite clausole disciplinanti le modalità di gestione e della persistenza delle obbligazioni contrattuali in caso di forza maggiore o eccessiva onerosità sopravvenuta. La clausola, qualora convenuta nel rispetto delle prescrizioni di legge, è valida ed ha forza di legge tra le parti. Prevarrà pertanto su quanto previsto dall’ordinamento. Si indicano, nello specifico, le clausole di rinegoziazione, nella quale rientrano sia le clausole contrattuali di forza maggiore sia quelle c.d. di “hardship” o eccessiva onerosità. Per la maggior parte utilizzate in ambito di contrattualistica commerciale, lasciano alle parti contraenti la possibilità di variare il contratto originario in presenza di fattori sopravvenuti che rendano impossibile l’adempimento delle precedenti obbligazioni. 7. La responsabilità del debitore alla luce del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 (C.d. “Cura Italia”) La responsabilità del debitore è valutata dalle previsioni contenute nel Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 (C.d. “Cura Italia”) ed, in particolare, la specifica previsione contenuta nell’art. 91, comma 1 del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. “Cura Italia”) che aggiunge all’art. 3 del Decreto Legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, il comma 6-bis, secondo cui: “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. La suddetta norma così come evidenziato dalla relazione illustrativa è volta a chiarire che “il rispetto delle misure di contenimento può escludere, nei singoli casi, la responsabilità del debitore ai sensi e per gli effetti dell’art. 1218 c.c., nonché l’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. Viene espressamente riconosciuto alla legge la rilevanza delle misure di contenimento della pandemia ed alla emanazione della normativa di emergenza quale causa di esclusione della responsabilità del debitore. Alla luce della vigente normativa di emergenza, l’impossibilità della prestazione divenuta tale proprio in virtù del rispetto delle norme di contenimento di cui al Decreto Legge, potrà essere utilmente invocata dal debitore per impedire l’inadempimento, la decadenza o ogni altro effetto penale connesso a ritardi o omessi adempimenti. 8. Rimborsi L’art. 88 (rubricato “Rimborso dei contratti di soggiorno e risoluzione dei contratti di acquisto di biglietti per spettacoli, musei e altri luoghi della cultura”) è volto a regolare i contratti di soggiorno e quelli di acquisto di biglietti per spettacoli, musei e altri luoghi della cultura. Il comma 1 estende l’applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 28 del Decreto Legge 2 marzo 2020, n. 9 ai “contratti di soggiorno per i quali si sia verificata l’impossibilità sopravvenuta della prestazione a seguito dei provvedimenti” emanati ai sensi dell’art. 3 del Decreto Legge 23 febbraio 2020 n.6, vale a dire le misure di contenimento adottate dalle autorità competenti (all’epoca con riferimento a specifiche aree del territorio nazionale). La norma richiamata (rubricata “Rimborso titoli di viaggio e pacchetti turistici”) prevede esplicitamente, al comma 1, che “Ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1463 del codice civile, ricorre la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta in relazione ai contratti di trasporto aereo, ferroviario, marittimo, nelle acque interne o terrestre stipulati” dai soggetti, elencati in maniera dettagliata, che per effetto delle misure di contenimento o della stessa diffusione del virus non abbiano potuto usufruire della prestazione. Aggiunge poi al comma 5 che i medesimi soggetti “possono esercitare, ai sensi dell'articolo 41 del decreto legislativo 23 maggio 2011, n. 79, il diritto di recesso dai contratti di pacchetto turistico da eseguirsi nei periodi” interessati dalle misure finalizzate a contenere l’emergenza sanitaria. Il Decreto c.d. “Cura Italia” al 2 comma prevede, ancora, che a seguito dell'adozione delle misure di cui all'articolo 2, comma l, lettere b) e d) del Decreto del Presidente del Consiglio dell’8 marzo 2020, con cui è stata disposta la sospensione delle attività culturali di seguito menzionate, e a decorrere dalla data di adozione del medesimo Decreto, “ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1463 del codice civile, ricorre la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta in relazione ai contratti di acquisto di titoli di accesso per spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, e di biglietti di ingresso ai musei e agli altri luoghi della cultura”. Al 3 comma troviamo invece disciplinate le modalità di rimborso. Al 4 comma viene specificato le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 hanno si applicheranno fino alla data di efficacia fino alla data di efficacia delle misure previste dal Decreto del Presidente del Consiglio dell’8 marzo 2020 e da eventuali ulteriori decreti attuativi emanati ai sensi dell'articolo 3, comma 1, del Decreto Legge 23 febbraio 2020, n. 6. In conclusione, il momento che stiamo affrontando assume dei caratteri di novità ed emergenza, non di facile contenimento, superamento e limitazione nel nostro stato democratico. CONCLUSIONI La larga ed inaspettata diffusione del virus ha indotto il Governo ad emanare una serie di provvedimenti che si connotano per la loro “eccezionalità ed urgenza” in ragione dell’emergenza sanitaria in atto, evento, quest’ultimo, eccezionale ed imprevedibile tanto dalla popolazione quanto dalle parti contrattuali al momento della stipula del contratto. Appare dunque necessario esonerare il debitore dalla responsabilità contrattuale in presenza di una tale emergenza senza eguali, seppure la valutazione circa la possibilità di esonerare il debitore, al di fuori dei casi previsti dall’art. 88, necessita di una valutazione caso per caso, posto che lo stesso articolo 91 del Decreto esclude qualsiasi automatismo. In conclusione, sembra ragionevole osservare che per tutte le ipotesi che non siano state qui direttamente trattate, possano comunque trovare applicazione i principi generali sia normativi che giurisprudenziali ad essi ricollegabili in virtù della emergenza sanitaria e della possibilità di invocare la situazione di pandemia quale causa non imputabile ai casi di inadempimento contrattuale riconducibili tanto al ritardo nell’esecuzione della prestazione quanto alla mancata o inesatta esecuzione della stessa.

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