Lo Studio dell'Avvocato Massimo Manzini opera a Verbania in Piazza Pedroni dal 2004, a pochi passi dal Tribunale e, attraverso una diffusa rete di domiciliatari, sull'intero territorio nazionale. Lo Studio collabora con CONFCONTRIBUENTI ITALIA prestando assistenza nei seguenti campi: diritto tributario e bancario, recupero crediti, opposizioni a decreto ingiuntivo ed alle esecuzioni, contrattualistica, locazioni, tutela dei consumatori, antinfortunistica e responsabilità medica, diritto di famiglia, controversie in ambito assicurativo, tutela della proprietà.
Assistenza nella redazione di contratti di vendita
Ho seguito e seguo costantemente procedimenti in materia di separazioni e divorzi, di modifica delle condizioni di separazione con riferimento alla prole e, più in generale di diritto di famiglia. In materia contrattuale seguo problematiche relative alle locazioni, immobiliari e aziendali. In tema di diritto di famiglia seguo controversie di divisione ereditaria. Più in generale seguo le controversie in materia di responsabilità medica professionale
Divisioni ereditarie, rapporti successori, separazioni, divorzi, modifica delle condizioni di separazione o divorzio. Procedimenti in materia minorile e di apertura di tutele e amministrazioni di sostegno.
Eredità e successioni, Unioni civili, Separazione, Divorzio, Recupero crediti, Pignoramento, Diritto del lavoro, Licenziamento, Stalking e molestie, Diritto amministrativo, Appalti pubblici, Edilizia ed urbanistica, Diritto condominiale, Locazioni, Sfratto, Incidenti stradali, Tutela del consumatore, Malasanità e responsabilità medica, Diritti umani, Arbitrato, Mediazione, Affidamento, Mobbing, Ricorso al TAR, Immigrazione e cittadinanza, Adozione, Sostanze stupefacenti, Tutela dei minori, Diritto penale, Cassazione, Risarcimento danni.
October 3, 2018 Il 10 Luglio 2018 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata sui ricorsi proposti da circa 10 mila pensionati coinvolti dalle misure della c.d. “Legge Fornero” del 2011. La questione : i ricorrenti sono cittadini Italiani titolari di una pensione pubblica a carico dell’INPS; alcuni percepiscono anche una pensione integrativa a carico di fondi pensione privati. La legge 388/2000 ha definito il criterio di adeguamento annuale delle pensioni alla variazione del costo della vita, sulla base di un incremento in percentuale che viene calcolato annualmente per tutte le pensioni sulla base di un Decreto del Ministro del Lavoro che comunica la percentuale di aumento del costo della vita calcolato dall’ISTAT. Il Decreto Legge 6 Dicembre 2011 n. 201 (nel quale sono state inserite una serie di misure straordinarie finalizzate alla correzione dei conti pubblici, tra le quali per l’appunto la riforma del sistema previdenziale nota come “Legge Fornero”) ha tuttavia escluso il diritto alla perequazione con riferimento agli anni 2012 e 2013. Per un effetto c.d. “di trascinamento” il blocco della perequazione è stato sostanzialmente esteso anche agli anni successivi al 2013. La Corte Costituzionale con sentenza n. 70 del 30.04.2015 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 24 comma 25 del D.L. 201/2011 (poi convertito nella legge 22.12.2011 n. 214) affermando “R isultano dunque intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (Art. 36 comma 1° Cost.) e l’adeguatezza (art. 38 comma 2° Cos.) . Il Governo in carica emanava tuttavia il Decreto Legge n. 65 del 21 Maggio 2015, finalizzato ad evitare il pagamento delle perequazioni maturate sulle pensioni e, quindi finalizzato ad evitare la restituzione del blocco delle perequazioni introdotto con la c.d. “Riforma Fornero”, sulla base del fatto che dall’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale sarebbero derivati “rilevanti effetti negativi per la finanza pubblica”. Contestualmente il Decreto Legge n. 65/2015 prevedeva un rimborso parziale delle somme dovute, limitandone una percentuale minima a favore delle pensioni più basse, ed escludendo il rimborso della perequazione per le pensioni di importo medio ed alto[1]. Qualora il Governo non avesse emanato il D.L. 65/2015, in assenza di un vuoto normativo avrebbe ripreso vigore il criterio di indicizzazione al 100% delle fasce di pensioni di importo fino a 3 volte il trattamento minimo, al 90% per le fasce di pensioni comprese tra 3 e 5 volte il trattamento minimo e del 75% per le fasce di pensioni di importo superiore a cinque volte il trattamento minimo. Il ricorso incidentale davanti alla Corte Costituzionale : con ricorso incidentale avanti alla Corte Costituzionale, numerosi giudici hanno sollevato questione di legittimità costituzionale del D.L. 65/2015 per asserita violazione a) dell’art. 3 Cost. (principio di uguaglianza e di ragionevolezza della legge); b) dell’art. 6 CEDU (diritto ad un equo processo e del giudicato); c) dell’art. 1 del Protocollo 1 della CEDU (diritto di credito alla pensione); d) dell’art. 136 Cost. (giudicato costituzionale); e) dell’art. 38 Cost. (principio di adeguatezza della pensione); f) dell’art. 36 Cost. (principio della giusta retribuzione). La Corte Costituzionale con sentenza n. 250 del 1° Dicembre 2017 dichiarò l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 65/2015: di fatto operando un revirement rispetto alla precedente sentenza n. 70/2015 nella quale aveva ritenuto illegittimo il blocco della perequazione disposto dalla c.d. “ Riforma Fornero ”, blocco non più recuperato negli anni successivi al punto da rendere permanente nei fatti quella che avrebbe dovuto essere una misura temporanea. La Corte Costituzionale mo tivava la propria decisione nel 2017 sulla base dell’argomentazione che il D.L. n. 65/2015 non era identico al D.L. 201/2011 convertito nella legge n. 214/2011. Tuttavia il D.L. 65/2015 aveva efficacia retroattiva e conseguentemente svuotava la portata applicativa della sentenza della Corte Costituzionale n. 70/2015 che aveva ritenuto illegittimo il blocco della perequazione delle pensioni. All’esito della sentenza della Corte Costituzionale n. 250/2017 i ricorsi pendenti avanti ai Tribunali ordinari, in funzione di Giudici del Lavoro, finalizzati a conseguire la condanna dell’INPS al pagamento delle somme dovute a titolo di perequazione, venivano rigettati con la condanna in moti casi dei ricorrenti al pagamento delle spese giudiziali. La pronuncia della C.E.D.U .: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, investita della questione, in considerazione dell’esaurimento dei rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento processuale italiano, si è pronunciata sulla vicenda il 10 Luglio 2018, respingendo i ricorsi. La C.E.D.U. ha sostanzialmente motivato la propria decisione conformandosi all’indirizzo della Corte Costituzionale (sent. n. 250/2017), sottolineando l’esigenza di contenimento della spesa pubblica perseguita dal legislatore e, nello specifico dal Governo che nel 2015 emanava il D.L. n. 65. rilevando come “l’introduzione delle nuove disposizioni mirasse da una parte a permettere l’adeguamento dell’ordinamento giuridico alla sentenza della Corte Costituzionale n. 70/2015 e dall’altra a rispettare l’equilibrio del budget e gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica. Tutto ciò con l’obiettivo di proteggere il livello minimo delle prestazioni sociali e di garantire il funzionamento del sistema pensionistico per le generazioni future”. A giudizio della C.E.D.U .: l’adozione del D.L. 65/2015 coincideva con un momento di particolare difficoltà della situazione finanziaria dell’Italia, al punto da rischiare l’apertura della procedura di infrazione da parte della Commissione Europea per deficit eccessivo (circostanza in realtà poi evitata). l’impianto del D.L. n. 65/2015 era, ad avviso della C.E.D.U., meritevole di salvaguardia in quanto mirava a realizzare un’operazione di redistribuzione in favore dei percettori di pensioni moderate, preservando la sopravvivenza del sistema di sicurezza sociale in favore delle generazioni future, in un contesto in cui il margine di manovra dello Stato Italiano era ridotto; era condivisibile che la sentenza n. 250/2017 della Corte Costituzionale, nel salvaguardare il D.L. n. 65/2017, avesse rilevato come il sistema di restituzione della perequazione in rapporto all’importo dei singoli trattamenti pensionistici fosse rispettoso del principio di proporzionalità, la riforma del meccanismo perequativo introdotta dal D.L. n. 65/2015 non era di livello tale da esporre i ricorrenti al rischio di disporre di mezzi di sopravvivenza insufficienti e tali da palesare un contrasto con il Protocollo 1 della CEDU (Diritto di credito alla pensione). [1] Nei lavori parlamentari il Governo giustificava la misura non già in relazione all’esigenza di dover colmare un vuoto normativo, del resto inesistente dal momento che la legge 388/2000 definisce le modalità di rivalutazione dei trattamenti previdenziali all’andamento del costo della vita, bensì Corte Costituzionale e Corte Europea dei Diritti dell'Uomo sul tema del blocco della perequazione automatica delle pensioni October 3, 2018 Il 10 Luglio 2018 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata sui ricorsi proposti da circa 10 mila pensionati coinvolti dalle misure della c.d. “Legge Fornero” del 2011. La questione : i ricorrenti sono cittadini Italiani titolari di una pensione pubblica a carico dell’INPS; alcuni percepiscono anche una pensione integrativa a carico di fondi pensione privati. La legge 388/2000 ha definito il criterio di adeguamento annuale delle pensioni alla variazione del costo della vita, sulla base di un incremento in percentuale che viene calcolato annualmente per tutte le pensioni sulla base di un Decreto del Ministro del Lavoro che comunica la percentuale di aumento del costo della vita calcolato dall’ISTAT. Il Decreto Legge 6 Dicembre 2011 n. 201 (nel quale sono state inserite una serie di misure straordinarie finalizzate alla correzione dei conti pubblici, tra le quali per l’appunto la riforma del sistema previdenziale nota come “Legge Fornero”) ha tuttavia escluso il diritto alla perequazione con riferimento agli anni 2012 e 2013. Per un effetto c.d. “di trascinamento” il blocco della perequazione è stato sostanzialmente esteso anche agli anni successivi al 2013. La Corte Costituzionale con sentenza n. 70 del 30.04.2015 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 24 comma 25 del D.L. 201/2011 (poi convertito nella legge 22.12.2011 n. 214) affermando “R isultano dunque intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (Art. 36 comma 1° Cost.) e l’adeguatezza (art. 38 comma 2° Cos.) . Il Governo in carica emanava tuttavia il Decreto Legge n. 65 del 21 Maggio 2015, finalizzato ad evitare il pagamento delle perequazioni maturate sulle pensioni e, quindi finalizzato ad evitare la restituzione del blocco delle perequazioni introdotto con la c.d. “Riforma Fornero”, sulla base del fatto che dall’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale sarebbero derivati “rilevanti effetti negativi per la finanza pubblica”. Contestualmente il Decreto Legge n. 65/2015 prevedeva un rimborso parziale delle somme dovute, limitandone una percentuale minima a favore delle pensioni più basse, ed escludendo il rimborso della perequazione per le pensioni di importo medio ed alto[1]. Qualora il Governo non avesse emanato il D.L. 65/2015, in assenza di un vuoto normativo avrebbe ripreso vigore il criterio di indicizzazione al 100% delle fasce di pensioni di importo fino a 3 volte il trattamento minimo, al 90% per le fasce di pensioni comprese tra 3 e 5 volte il trattamento minimo e del 75% per le fasce di pensioni di importo superiore a cinque volte il trattamento minimo. Il ricorso incidentale davanti alla Corte Costituzionale : con ricorso incidentale avanti alla Corte Costituzionale, numerosi giudici hanno sollevato questione di legittimità costituzionale del D.L. 65/2015 per asserita violazione a) dell’art. 3 Cost. (principio di uguaglianza e di ragionevolezza della legge); b) dell’art. 6 CEDU (diritto ad un equo processo e del giudicato); c) dell’art. 1 del Protocollo 1 della CEDU (diritto di credito alla pensione); d) dell’art. 136 Cost. (giudicato costituzionale); e) dell’art. 38 Cost. (principio di adeguatezza della pensione); f) dell’art. 36 Cost. (principio della giusta retribuzione). La Corte Costituzionale con sentenza n. 250 del 1° Dicembre 2017 dichiarò l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 65/2015: di fatto operando un revirement rispetto alla precedente sentenza n. 70/2015 nella quale aveva ritenuto illegittimo il blocco della perequazione disposto dalla c.d. “ Riforma Fornero ”, blocco non più recuperato negli anni successivi al punto da rendere permanente nei fatti quella che avrebbe dovuto essere una misura temporanea. La Corte Costituzionale mo tivava la propria decisione nel 2017 sulla base dell’argomentazione che il D.L. n. 65/2015 non era identico al D.L. 201/2011 convertito nella legge n. 214/2011. Tuttavia il D.L. 65/2015 aveva efficacia retroattiva e conseguentemente svuotava la portata applicativa della sentenza della Corte Costituzionale n. 70/2015 che aveva ritenuto illegittimo il blocco della perequazione delle pensioni. All’esito della sentenza della Corte Costituzionale n. 250/2017 i ricorsi pendenti avanti ai Tribunali ordinari, in funzione di Giudici del Lavoro, finalizzati a conseguire la condanna dell’INPS al pagamento delle somme dovute a titolo di perequazione, venivano rigettati con la condanna in moti casi dei ricorrenti al pagamento delle spese giudiziali. La pronuncia della C.E.D.U .: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, investita della questione, in considerazione dell’esaurimento dei rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento processuale italiano, si è pronunciata sulla vicenda il 10 Luglio 2018, respingendo i ricorsi. La C.E.D.U. ha sostanzialmente motivato la propria decisione conformandosi all’indirizzo della Corte Costituzionale (sent. n. 250/2017), sottolineando l’esigenza di contenimento della spesa pubblica perseguita dal legislatore e, nello specifico dal Governo che nel 2015 emanava il D.L. n. 65. rilevando come “l’introduzione delle nuove disposizioni mirasse da una parte a permettere l’adeguamento dell’ordinamento giuridico alla sentenza della Corte Costituzionale n. 70/2015 e dall’altra a rispettare l’equilibrio del budget e gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica. Tutto ciò con l’obiettivo di proteggere il livello minimo delle prestazioni sociali e di garantire il funzionamento del sistema pensionistico per le generazioni future”. A giudizio della C.E.D.U .: l’adozione del D.L. 65/2015 coincideva con un momento di particolare difficoltà della situazione finanziaria dell’Italia, al punto da rischiare l’apertura della procedura di infrazione da parte della Commissione Europea per deficit eccessivo (circostanza in realtà poi evitata). l’impianto del D.L. n. 65/2015 era, ad avviso della C.E.D.U., meritevole di salvaguardia in quanto mirava a realizzare un’operazione di redistribuzione in favore dei percettori di pensioni moderate, preservando la sopravvivenza del sistema di sicurezza sociale in favore delle generazioni future, in un contesto in cui il margine di manovra dello Stato Italiano era ridotto; era condivisibile che la sentenza n. 250/2017 della Corte Costituzionale, nel salvaguardare il D.L. n. 65/2017, avesse rilevato come il sistema di restituzione della perequazione in rapporto all’importo dei singoli trattamenti pensionistici fosse rispettoso del principio di proporzionalità, la riforma del meccanismo perequativo introdotta dal D.L. n. 65/2015 non era di livello tale da esporre i ricorrenti al rischio di disporre di mezzi di sopravvivenza insufficienti e tali da palesare un contrasto con il Protocollo 1 della CEDU (Diritto di credito alla pensione). [1] Nei lavori parlamentari il Governo giustificava la misura non già in relazione all’esigenza di dover colmare un vuoto normativo, del resto inesistente dal momento che la legge 388/2000 definisce le modalità di rivalutazione dei trattamenti previdenziali all’andamento del costo della vita, bensì esclusivamente p Corte Costituzionale e Corte Europea dei Diritti dell'Uomo sul tema del blocco della perequazione automatica delle pensioni October 3, 2018 Il 10 Luglio 2018 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata sui ricorsi proposti da circa 10 mila pensionati coinvolti dalle misure della c.d. “Legge Fornero” del 2011. La questione : i ricorrenti sono cittadini Italiani titolari di una pensione pubblica a carico dell’INPS; alcuni percepiscono anche una pensione integrativa a carico di fondi pensione privati. La legge 388/2000 ha definito il criterio di adeguamento annuale delle pensioni alla variazione del costo della vita, sulla base di un incremento in percentuale che viene calcolato annualmente per tutte le pensioni sulla base di un Decreto del Ministro del Lavoro che comunica la percentuale di aumento del costo della vita calcolato dall’ISTAT. Il Decreto Legge 6 Dicembre 2011 n. 201 (nel quale sono state inserite una serie di misure straordinarie finalizzate alla correzione dei conti pubblici, tra le quali per l’appunto la riforma del sistema previdenziale nota come “Legge Fornero”) ha tuttavia escluso il diritto alla perequazione con riferimento agli anni 2012 e 2013. Per un effetto c.d. “di trascinamento” il blocco della perequazione è stato sostanzialmente esteso anche agli anni successivi al 2013. La Corte Costituzionale con sentenza n. 70 del 30.04.2015 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 24 comma 25 del D.L. 201/2011 (poi convertito nella legge 22.12.2011 n. 214) affermando “R isultano dunque intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (Art. 36 comma 1° Cost.) e l’adeguatezza (art. 38 comma 2° Cos.) . Il Governo in carica emanava tuttavia il Decreto Legge n. 65 del 21 Maggio 2015, finalizzato ad evitare il pagamento delle perequazioni maturate sulle pensioni e, quindi finalizzato ad evitare la restituzione del blocco delle perequazioni introdotto con la c.d. “Riforma Fornero”, sulla base del fatto che dall’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale sarebbero derivati “rilevanti effetti negativi per la finanza pubblica”. Contestualmente il Decreto Legge n. 65/2015 prevedeva un rimborso parziale delle somme dovute, limitandone una percentuale minima a favore delle pensioni più basse, ed escludendo il rimborso della perequazione per le pensioni di importo medio ed alto[1]. Qualora il Governo non avesse emanato il D.L. 65/2015, in assenza di un vuoto normativo avrebbe ripreso vigore il criterio di indicizzazione al 100% delle fasce di pensioni di importo fino a 3 volte il trattamento minimo, al 90% per le fasce di pensioni comprese tra 3 e 5 volte il trattamento minimo e del 75% per le fasce di pensioni di importo superiore a cinque volte il trattamento minimo. Il ricorso incidentale davanti alla Corte Costituzionale : con ricorso incidentale avanti alla Corte Costituzionale, numerosi giudici hanno sollevato questione di legittimità costituzionale del D.L. 65/2015 per asserita violazione a) dell’art. 3 Cost. (principio di uguaglianza e di ragionevolezza della legge); b) dell’art. 6 CEDU (diritto ad un equo processo e del giudicato); c) dell’art. 1 del Protocollo 1 della CEDU (diritto di credito alla pensione); d) dell’art. 136 Cost. (giudicato costituzionale); e) dell’art. 38 Cost. (principio di adeguatezza della pensione); f) dell’art. 36 Cost. (principio della giusta retribuzione). La Corte Costituzionale con sentenza n. 250 del 1° Dicembre 2017 dichiarò l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 65/2015: di fatto operando un revirement rispetto alla precedente sentenza n. 70/2015 nella quale aveva ritenuto illegittimo il blocco della perequazione disposto dalla c.d. “ Riforma Fornero ”, blocco non più recuperato negli anni successivi al punto da rendere permanente nei fatti quella che avrebbe dovuto essere una misura temporanea. La Corte Costituzionale mo tivava la propria decisione nel 2017 sulla base dell’argomentazione che il D.L. n. 65/2015 non era identico al D.L. 201/2011 convertito nella legge n. 214/2011. Tuttavia il D.L. 65/2015 aveva efficacia retroattiva e conseguentemente svuotava la portata applicativa della sentenza della Corte Costituzionale n. 70/2015 che aveva ritenuto illegittimo il blocco della perequazione delle pensioni. All’esito della sentenza della Corte Costituzionale n. 250/2017 i ricorsi pendenti avanti ai Tribunali ordinari, in funzione di Giudici del Lavoro, finalizzati a conseguire la condanna dell’INPS al pagamento delle somme dovute a titolo di perequazione, venivano rigettati con la condanna in moti casi dei ricorrenti al pagamento delle spese giudiziali. La pronuncia della C.E.D.U .: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, investita della questione, in considerazione dell’esaurimento dei rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento processuale italiano, si è pronunciata sulla vicenda il 10 Luglio 2018, respingendo i ricorsi. La C.E.D.U. ha sostanzialmente motivato la propria decisione conformandosi all’indirizzo della Corte Costituzionale (sent. n. 250/2017), sottolineando l’esigenza di contenimento della spesa pubblica perseguita dal legislatore e, nello specifico dal Governo che nel 2015 emanava il D.L. n. 65. rilevando come “l’introduzione delle nuove disposizioni mirasse da una parte a permettere l’adeguamento dell’ordinamento giuridico alla sentenza della Corte Costituzionale n. 70/2015 e dall’altra a rispettare l’equilibrio del budget e gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica. Tutto ciò con l’obiettivo di proteggere il livello minimo delle prestazioni sociali e di garantire il funzionamento del sistema pensionistico per le generazioni future”.
March 27, 2019 L’ordinamento giuslavoristico italiano annovera 2 tipologie di licenziamento: a) il licenziamento per motivi di carattere economico; b) il licenziamento disciplinare. A propria volta il licenziamento per motivi economici può essere: a) collettivo ai sensi della legge n. 223/1991; b) per giustificato motivo oggettivo ai sensi della legge n. 604/1966. Il licenziamento disciplinare può essere: a) per giusta causa; b) per giustificato motivo soggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/1966. IL LICENZIAMENTO PER MOTIVI DISCIPLINARI Il licenziamento per giusta causa Nel contesto del licenziamento per motivi disciplinari assume rilevanza la nozione di “giusta causa” ai sensi dell’art. 2119 C.c. secondo il quale ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto. La giurisprudenza più recente afferma che ai fini di motivare il licenziamento disciplinare occorre che i fatti addebitati debbano essere tali da ledere irrimediabilmente l’elemento fiduciario: la valutazione dei fatti deve essere operata con riferimento ad aspetti concreti quali la natura e la qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi ed all'intensità dell’elemento o di quello colposo. La proporzionalità tra addebito e recesso rileva in ogni caso in cui sussista ogni condotta che per la sua gravità possa compromettere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto di lavoro pregiudizievole agli scopi aziendali dal momento che rileva la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile per le modalità ed il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento della prestazione lavorativa. Spetterà al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda e considerando l’intensità dell’elemento intenzionale, le precedenti modalità di attuazione del rapporto di lavoro, la sua durata, l’assenza o meno di precedenti sanzioni e la natura del rapporto in essere. La giurisprudenza ha tipizzato alcune fattispecie di giusta causa: a) il lavoratore che esegua con lentezza il lavoro affidatogli, in presenza di una recidiva; b) i lavoratori che inscenino una macabra rappresentazione del suicidio mediante impiccagione dell’amministratore delegato e del successivo funerale, ledendo la sua onorabilità professionale e la sua dignità personale; c) il lavoratore che rifiuti senza motivo di espletare le proprie mansioni; d) il lavoratore che presenti al fondo di solidarietà aziendale fatture mediche falsificate nell’importo anche al fine di ottenere il riconoscimento della situazione di disagio familiare prevista dal regolamento del medesimo fondo ; e) il lavoratore che nel periodo di congedo parentale svolga una diversa attività lavorativa ; f) il dipendente che trasferisca su una pennetta USB un numero rilevantissimo di file appartenenti all’azienda. Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo La nozione di giustificato motivo soggettivo è individuata all’art. 3 della legge n. 604/1966 secondo la quale il licenziamento per giustificato motivo con preavviso p determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro. Sia la giusta causa che il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono qualificazioni giuridiche di condotte idonee a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, incidendo soltanto ai fini della decorrenza degli effetti re sul diritto o meno al preavviso. In questo contesto il giudice può modificare la natura del licenziamento d’ufficio anche se la domanda relativa alla trasformazione del licenziamento da giusta causa a giustificato motivo soggettivo non è stata compresa nel ricorso. Ai fini dell’accertamento del giustificato motivo soggettivo, il giudice dovrà verificare la reale entità e gravità delle infrazioni addebitate al dipendente ed il rapporto di proporzionalità tra le stesse infrazioni e la sanzione del licenziamento. Nel contesto della valutazione della condotta del lavoratore assurge a rilevanza anche il valore della recidiva che può essere considerato come elemento di valutazione globale della condotta del lavoratore e della gravità del fatto ai fini della proporzionalità della sanzione. Secondo i più recenti orientamenti giurisprudenziali non è necessaria la preventiva contestazione della recidiva al lavoratore al punto che la formale contestazione disciplinare potrà anche non contenere alcuna menzione della recidiva . Un orientamento particolarmente rigoroso della Suprema Corte ha affermato come non risulti applicabile il divieto di cui all’ultimo comma dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, secondo il quale non può tenersi conto delle sanzioni disciplinari decorso due anni dalla loro applicazione ed assumono rilievo anche le infrazioni disciplinari che non siano state previamente contestate ovvero quelle contestate alle quali non abbia fatto seguito l’applicazione di una sanzione disciplinare. La recidiva si distingue in: a) recidiva generica che consente di tenere conto di mancanze di qualsiasi tipo commesse dal prestatore; b) recidiva specifica che consente di tenere conto solo di infrazioni disciplinari omogenee, Se la recidiva è un elemento costitutivo della fattispecie. a) a pena di nullità del recesso la recidiva ed i precedenti disciplinari che la integrano devono essere specificamente contestati al lavoratore; b) la contestazione della recidiva deve essere specifica essendo a tal fine sufficiente il riferimento ai precedenti disciplinari e/o a precedenti comunicazioni scritte con il lavoratore; c) rilevano unicamente i precedenti disciplinari dell’ultimo biennio ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori ovvero del più breve periodo contemplato dal contratto collettivo applicabile e non può tenersi conto delle infrazioni non contestate o contestate ma non sanzionate disciplinarmente nonché d quelle dichiarate nulle o inefficaci dal Giudice o dal collegio arbitrale. L’avvenuto accertamento dell’insussistenza di addebiti disciplinari contestati preclude la possibilità di configurare quale autonoma ragione del licenziamento intimato la recidiva posto che la recidiva presuppone che un fatto illecito sia stato posto in essere una seconda volta e che la precedente infrazione sia stata contestata al lavoratore: in queste circostanze ne consegue la nullità del licenziamento qualora anche la recidiva o i precedenti disciplinari che la integrano rappresentino elemento costitutivo della mancanza addebitata.
December 4, 2018 Il Tribunale di Firenze, con la sentenza n. 2945 del 02.11.2018, precorre i tempi rispetto ai contenuti del c.d. disegno di legge “Pillon” in tema di gestione dell’affidamento condiviso dei figli minori . Una premessa necessaria : Il disegno di legge Pillon (atto Senato n. 735), - dal nome del Senatore proponente e primo firmatario . rubricato “ Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità ”, interviene significativamente nella delicatissima area del diritto di famiglia superando molto delle criticità rappresentate dalla legge 8 Febbraio 2006 n. 54 “ Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli ”. I punti di maggior rilievo della proposta di legge riguardano a): il ricorso alle procedure di mediazione Adr ( Alternative dispute resolution ) al fine di prevenire, la lite giudiziaria e di sterilizzare le conseguenze anche di natura economica e relazionale che essa comporta, sostenendo la centralità del ruolo dei genitori nei momenti di difficoltà di dialogo, e marginalizzando il più possibile il ricorso ai rimedi giurisdizionali; b) Co-parenting[ 1]: muovendo da una critica alla legge n. 54/2006 che, a detta del proponente non starebbe assicurando in pieno la cogenitorialità delle coppie separate, ci si propone l’introduzione del mantenimento diretto che dovrebbe assurgere a “regola”. Alla base della scelta contenuta nel disegno di legge vi è la consapevolezza che il mantenimento diretto si riverbererebbe in termini di miglior benessere economico per il minore: non dovendo più il genitore veder mediato il proprio contributo dall’ex partner, verso cui, a torto o anche a ragione, non nutre più fiducia, superando quindi l’impostazione dell’assegno di mantenimento a carico di uno dei genitori quale strumento prevalente di supporto economico; in questo contesto, trascorrendo il minore tempi sostanzialmente equivalenti con ciascuno dei genitori, diviene più agevole per questi ultimi provvedere direttamente alle esigenze dei figli per il periodo che i figli trascorrono presso l’uno o l’altro dei genitori, il tutto previa individuazione dei costi standard e dei capitoli di spesa; c) assegnazione della casa familiare : venuto meno il genitore collocatario, il minore può avere due case; in relazione alla fattispecie statisticamente più frequente di casa familiare co-intestata alla coppia, la proposta di modifica richiama la disciplina afferente alle norme sulla comunione (articoli 1100 e seguenti del codice civile), che prevede il diritto a un corrispettivo da parte del comproprietario che utilizza la res in via esclusiva, nelle more della divisione. Viceversa, nell’ipotesi di proprietà esclusiva in capo a uno dei due genitori, ovvero a terzi, si richiama l’applicazione delle vigenti norme in materia di proprietà, comodato d’uso, diritto di usufrutto o di abitazione, locazione; d) piano genitoriale : il disegno di legge prevede l’introduzione del piano genitoriale quale strumento per supportare i genitori nell’evitare contrasti tra loro e per indirizzare le proprie energie a favore del perseguimento del maggior benessere dei figli. Mediante il piano genitoriale la coppia potrà individuare le esigenze di maggior rilievo per i figli minori e fornire agli stessi il contributo pedagogico e progettuale maggiormente idoneo alle loro esigenze; e) valorizzazione della funzione degli ascendenti prevedendo che anche i nonni possano intervenire per esprimersi attraverso interventi di supporto ai nipoti anche nell’ottica di assicurare il diritto dei nipoti ad avere rapporti con i nonni e a non subire, per effetto della separazione quell’allentamento dei rapporti che, molto spesso ne è la conseguenza. Il caso trattato dal Tribunale di Firenze : il ricorrente adiva il Tribunale di Firenze, premettendo di essersi separato consensualmente, con decreto omologato dal Tribunale nel quale si prevedeva l’affidamento condiviso del figlio con domiciliazione prevalente presso la madre, nonché un contributo di € 100,00 a carico del ricorrente a titolo di concorso nel mantenimento della moglie e di € 200,00 per il mantenimento del figlio. Con successivo decreto, il Tribunale di Firenze aveva modificato le condizioni ampliando la frequentazione tra padre e figlio . Il ricorrente adiva il Tribunale di Firenze chiedendo un ulteriore ampliamento della frequentazione in ragione della diversa età del figlio e del suo desiderio di trascorrere maggior tempo con il padre nel quadro della più ampia richiesta di pronuncia della cessazione degli effetti civili del matrimonio e l’eliminazione dei provvedimenti restrittivi verso i nonni paterni. A fronte delle richieste della resistente di non modificare le condizioni della separazione il Tribunale entrava pertanto nel merito delle richieste sollevate dal ricorrente: evidenziando che il minore aveva chiesto di essere ascoltato dal giudice, in tale sede egli ha espresso la ferma volontà di mantenere una frequentazione a settimane alterne tra i genitori, mostrando di non soffrire la distanza tra la scuola ubicata vicino alla casa materna e l’abitazione del padre, ubicata fuori Firenze. Il Tribunale pertanto ritiene di dover confermare il regime di affidamento condiviso, con domiciliazione alternata trai genitori su base settimanale e attribuzione in via esclusiva al padre delle decisioni relative alle cure mediche del figlio, con l’eliminazione di ogni restrizione alla frequentazione dei nonni . In relazione ai provvedimenti di natura economica connessi al mantenimento del figlio minore, il Tribunale ritiene che, considerata la natura assolutamente paritaria della collocazione del minore tra i genitori (presso ciascuno di essi una settimana alternativamente), debba confermarsi il mantenimento diretto del minore da parte dei genitori, con obbligo di contribuzione in pari misura alle spese straordinarie, [1] Le considerazioni che portano i proponenti a sostenere l’affido in tempi paritetici a ciascuno dei genitori trovano radicamento nella Risoluzione n. 2079 del 2015, del Consiglio d’Europa, la quale esorta gli Stati membri ad adottare legislazioni che assicurino l’effettiva uguaglianza tra padre e madre nei confronti dei propri figli, per garantire ad ogni genitore il diritto di essere informato e di partecipare alle decisioni rilevanti per la vita e lo sviluppo della prole, nel miglior interesse di questa, suggerendo, oltre al resto, di introdurre nella legislazione interna il principio della doppia residenza, ovvero del doppio domicilio, dei figli in ipotesi di separazione, limitando le eccezioni ai casi di abuso ovvero di negligenza verso un minore, oppure di violenza domestica. Lo stesso atto europeo consiglia di adottare le misure necessarie per incoraggiare la mediazione all’interno delle procedure giudiziarie in materia famigliare relativamente ai minori, istituendo un colloquio informativo obbligatorio fissato dal giudice. Infine, la Risoluzione chiede ai Paesi membri di incoraggiare l’elaborazione di piani parentali che permettano ai genitori di definire, in prima persona, i basilari aspetti dell’esistenza del loro figlio.
February 28, 2020 Il Tribunale di XXX a definizione di una causa civile intrapresa dallo Studio nel 2017, con sentenza del Febbraio 2020, ha riconosciuto il danno estetico procurato al paziente assistito in conseguenza dell’inadempimento contrattuale della struttura sanitaria. L’intervento estetico al quale il paziente si era sottoposto aveva dato esiti insoddisfacenti procurando al paziente una compromissione sostanziale delle proprie opportunità lavorative in ambito artistico. La domanda risarcitoria traeva fondamento dal presupposto che l’accettazione del paziente all'interno della struttura clinica – pubblica o privata che fosse - ai fini del ricovero comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, essendo la struttura sanitaria tenuta ad erogare una prestazione complessa che non si esaurisce nella semplice somministrazione delle cure mediche e chirurgiche, ma si estende anche ad altre prestazioni quali la messa a disposizione del personale medico ausiliario, e di personale paramedico, di medicinali e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché in senso lato anche di quelle alberghiere. Ne consegue che la responsabilità della struttura sanitaria ha natura contrattuale in relazione a propri fatti di inadempimento anche per quanto attiene al comportamento dei medici dipendenti, trovando applicazione la regola prevista dall'art.. 1228 del Codice Civile secondo la quale il debitore che nell'adempimento dell’obbligazione si avvalga dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi e colposi di costoro, ancorchè non siano alle sue dipendenze. La struttura ospedaliera risponde pertanto di tutte le ingerenze dannose che al dipendente siano rese possibili dalla posizione conferitagli rispetto al terzo danneggiato, ossia dei danni che il dipendente possa arrecare in ragione di quel particolare contatto cui si espone nei suoi confronti il paziente nell'attuazione del rapporto con la struttura sanitaria. Nella vicenda che in oggetto, il professionista svolgeva la propria professione all'interno della struttura clinica della quale era titolare, di tal che appare evidente come la struttura clinica abbia tratto e tragga profitto dalle prestazioni professionali che all'interno di essa vi svolgeva il professionista. La responsabilità solidale della clinica e del professionista che ha eseguito l’intervento sussiste in ragione di un ulteriore profilo argomentativo: ove infatti una struttura sanitaria o clinica (pubblica o privata) autorizzi un chirurgo od un medico ad operare al proprio interno - omettendo per un momento di considerare come nel caso di specie vi fosse uno stretto rapporto di interconnessione tra il professionista e la struttura della quale il medesimo era il titolare – mettendogli a disposizione le sue attrezzature e la sua organizzazione, e cooperando con esso, concludendo con il paziente il contratto per la degenza e le prestazioni accessorie, emerge come tale struttura venga ad assumere contrattualmente rispetto al paziente la posizione e le responsabilità tipiche dell’impresa erogatrice del complesso delle prestazioni sanitarie, ivi inclusa l’attività del chirurgo. L a vicenda, nella propria trattazione giudiziale, ha affrontato anche alcune problematiche relative al consenso informato ed alla natura dell’obbligazione . Infatti l’intervento estetico richiesto dal paziente veniva eseguito dopo aver praticato al paziente una preanestesia; solo in quel momento al paziente venivano sottoposti, per la relativa sottoscrizione, i moduli del consenso informato in un contesto nel quale il paziente non era oggettivamente nelle condizioni di comprendere quanto gli veniva fatto sottoscrivere in ragione della sedazione già somministrata. Nello specifico preme svolgere una considerazione rispetto alla natura del consenso informato sottoposto alla firma del paziente dal momento che la modulistica in oggetto affermava l’assenza di qualsiasi garanzia di risultato del trattamento medico eseguito sul paziente. All'uopo va detto che sul sito internet della struttura clinica era descritto l’intervento estetico assicurando che la tecnica procedimentale applicata avrebbe permesso un rapido ritorno del paziente alla socialità in un contesto di soddisfacente normalizzazione delle proprie condizioni estetiche tale da escludere un esito estetico negativo dell’intervento effettuato. Quanto pubblicizzato, rendeva evidente pertanto i successi ed i vantaggi di una metodologia di intervento che avrebbe reso evidenti al paziente gli effetti di un risultato positivo pressochè certo ed esaustivo delle aspettative nutrite. E’ sintomatico di quanto affermato, la stessa garanzia che struttura clinica abbia espresso certezza rispetto al reinserimento del paziente in breve tempo nella vita sociale, proprio in ragione dei risultati del trattamento praticato; addirittura, per incentivare il paziente alla sottoposizione al trattamento sulla base della tecnica praticata, veniva effettuata una comparazione con altre tecniche che non avrebbero garantito il risultato auspicato. In questo contesto non si può non sottacere - anche in ragione dell’accentuata positività con la quale la struttura clinica promuoveva e promuove sul proprio sito internet la tecnica di intervento applicata – la natura tipicamente di risultato dell’obbligazione di chirurgia estetica che ci occupa. La posizione della giurisprudenza, che tradizionalmente riconnetteva la prestazione medica alle c.d. obbligazioni di mezzi, si è recentemente evoluta, mostrando i primi segni di apertura verso le obbligazioni di risultato. La giurisprudenza di merito e quella di legittimità hanno riconosciuto, in alcune particolari ipotesi dell’attività medica, l’obbligo di raggiungere il risultato atteso dal paziente. In tali casi, l’obbligazione è da intendersi di risultato, non solo in relazione agli obiettivi intermedi e strumentali, ma anche con riguardo all'esito finale. nei trattamenti di chirurgia estetica, con riferimento al trapianto di capelli, alle cure odontoiatriche ed agli interventi di sterilizzazione per la giurisprudenza l’interesse dedotto nel contratto è il conseguimento di un certo risultato utile, e non soltanto l’interesse ad una mera prestazione diligente o tanto meno a non subire danni ingiusti. Non si tratta allora di estendere la responsabilità del medico allo scopo ambiguamente equitativo di garantire la salvaguardia del paziente, quanto di prendere atto di un’obiettiva evoluzione delle attività medico – sanitarie e degli interessi che vengono consapevolmente sottesi al rapporto di cura.
Massimo Manzini
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