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Avvocato Milena Patania a Catania

Milena Patania

Avvocato Penalista a Catania

Informazioni generali

Sono l'avvocato Milena Patania esperta in materia penale. Offro un rapporto personale e diretto con i miei clienti, dimostrando sempre il mio impegno nel seguire ogni caso da vicino.

Esperienza


Diritto penale

Fornisco consulenza ed assistenza legale con riferimento a qualsiasi fattispecie di reato che coinvolga i propri clienti, sia come indagati o imputati sia come persone offese.


Altre categorie

Violenza, Stalking e molestie, Reati contro il patrimonio, Omicidio, Discriminazione, Sostanze stupefacenti, Diritto penitenziario, Gratuito patrocinio, Domiciliazioni, Risarcimento danni.



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Giornalisti. Diffamazione. No carcere secondo la Cassazione

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Corte Cassazione Penale sez 5, n. 38721 del 19 settembre 2019 La pena detentiva inflitta ad un giornalista responsabile di diffamazione è sproporzionata in relazione allo scopo perseguito di proteggere la altrui reputazione e comporta una violazione della libertà di espressione garantita dall'art. 10 Cedu. Più precisamente la Corte, con la sentenza nella causa Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019, «ritiene che l'irrogazione di una pena detentiva, ancorch La pena detentiva inflitta ad un giornalista responsabile di diffamazione è sproporzionata in relazione allo scopo perseguito di proteggere la altrui reputazione e comporta una violazione della libertà di espressione garantita dall'art. 10 Cedu. SENTENZA sul ricorso proposto da Buonofiglio Fabio, nato a Aschaffenburg (Germania) il 21/01/1974 avverso la sentenza del 15/03/2018 della Corte di Appello di Salerno visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Michele Romano; udito il Pubblico Ministero, in persona Sostituto Procuratore generale Maria Giuseppina Fodaroni, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile; RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Salerno ha confermato la sentenza del 21 aprile 2016 del Tribunale di Salerno, che, all'esito del giudizio ordinario, ha condannato Fabio Buonofiglio alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi tre di reclusione, oltre che al risarcimento del danno in favore della parte civile Maria Vallefuoco, per il reato di cui all'art. 595 cod. pen., in relazione all'art. 13 della legge n. 47 del 1948, applicate le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti.All'imputato si contesta di avere offeso la reputazione di Maria Vallefuoco pubblicando sul periodico «Altre Pagine», da lui diretto, in data 13 agosto 2011, un suo articolo titolato «L'allegra compagnia d'una giustizia che va a puttane» in cui si affermava, per quanto di interesse in questa sede: «... già l'eventuale reato. E chi lo perseguirebbe? La magistratura? Quella che in carne ed ossa, in carne soprattutto, parteciperebbe assiduamente a talune feste mondane organizzate da una ricca imprenditoria troppo spesso border-line e forse pure a talaltri festini? Mettete per esempio insieme un ipotetico magistrato ed un altrettanto ipotetico maresciallo che perdono il loro sonno trascorrendo pomeriggi interi e notti ad indagare "a fondo". Su cosa e sul conto di chi? Sul loro stesso conto, affusolati tra le lenzuola di un comodo letto. Mettete che la tresca sessual-amorosa vada avanti per mesi. Un rapporto extraconiugale per entrambi ed ovviamente clandestino che assume dominio pubblico negli ambienti deputati all'amministrazione della giustizia. E un marito cornuto che alimenta le chiacchiere. Che riempiono un palazzo di giustizia stracolmo di fascicoli quanto vuoto d'imbarazzo. Con avvocati che fanno quotidianamente la fila davanti alla porta di quel sostituto procuratore al fine di aggraziarselo perché non frapponga ostacoli alla richiesta di scarcerazione d'un nnalacarne finito in patria galera... mentre vi à sempre quell'altro magistrato inquirente e quel maresciallo che insieme, come due conigli, stanno fottendo la Giustizia...». 2. Ricorre per cassazione Fabio Buonofiglio, a mezzo del suo difensore, chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata ed affidandosi a tre motivi. 2.1 Con il primo motivo lamenta violazione dell'art. 595 cod. pen., in quanto i giudici avrebbero errato nel ritenere facilmente individuabile nell'articolo il riferimento alla persona di Maria Vallefuoco, per essere la stessa l'unico sostituto procuratore di sesso femminile e coniugata in servizio alla Procura della Repubblica di Rossano, sebbene l'articolo non facesse riferimento ad un ben preciso ufficio giudiziario e nonostante che il periodico Altre Pagine fosse diffuso in tutta la Piana di Sibari, comprendente, oltre a Rossano, anche Castrovillari, sede di altra Procura della Repubblica. Inoltre, la Corte di appello si sarebbe basata esclusivamente sulle deposizioni dei testi Maria Vallefuoco e Fasano, persona di fiducia della stessa Vallefuoco, la cui attendibilità non era stata adeguatamente valutata. 2.2. Con il secondo motivo si lamenta della mancata riapertura della istruttoria dibattimentale ed in particolare della mancata escussione di altri testi, necessaria per accertare se tutti i lettori del periodico, e non solo le persone vicine alla Vallefuoco, avessero inteso che l'articolo si riferiva a quest'ultima. Inoltre, secondo il ricorrente l'esame del teste Serafino Trento era necessario per dimostrare che non era vera la circostanza riferita dalla Vallefuoco secondo la quale il Presidente del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Rossano Calabro, il lunedì successivo alla pubblicazione dell'articolo, le aveva manifestato la sua solidarietà. La Corte di appello aveva giudicato la prova superflua senza indicare le ragioni di tale giudizio. In tal modo era stato violato il diritto di difesa, dovendosi consentire all'imputato, a seguito della modifica dell'originaria imputazione, di assumere nuove prove. 2.3. Con il terzo motivo il ricorrente si duole dell'entità della pena, fissata in misura eccessiva rispetto alla gravità del fatto senza che fosse fornita alcuna motivazione in proposito. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile. Nella sentenza impugnata si afferma che l'articolo sopra descritto consentiva di intendere in modo univoco il suo riferimento all'odierna parte civile, in quanto unico magistrato coniugato di sesso femminile in servizio presso la Procura della Repubblica di Rossano; il periodico si occupava principalmente del territorio di Rossano Calabro. Nella sentenza di primo grado si dà pure atto, sulla base della deposizione del teste Francesco Panebianco, che il periodico era diffuso esclusivamente in ambito locale e che l'articolo in questione si inseriva in una sequenza di pubblicazioni, riferite dai numerosi testi escussi, in cui si faceva espresso riferimento all'attività giudiziaria del Tribunale di Rossano Calabro e della Procura della Repubblica presso il medesimo Tribunale, cosicché appariva evidente che l'articolo si riferiva in modo univoco alla Vallefuoco. Le sentenze di primo e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata (Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011 - dep. 2012, Valerio, Rv. 25261501). Il motivo del ricorso in cassazione poggia, pertanto, su un dato fattuale (che il periodico fosse diffuso anche nel territorio del Tribunale di Castrovillari e che l'articolo non consentisse di individuare il riferimento alla Vallefuoco) che è estraneo alla ricostruzione del fatto operata dalle due sentenze di merito. In tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 - dep. 2015, Musso, Rv. 26548201). Peraltro, il Tribunale e la Corte di appello, nella ricostruzione del fatto non si sono basati esclusivamente sulle deposizioni della teste Vallefuoco e del teste Fasano, ma anche sulle dichiarazioni degli altri testi escussi, che secondo quanto affermato nelle due sentenze, hanno fornito validi riscontri alla deposizione della persona offesa. 2. Anche il secondo motivo di ricorso, con il quale si lamenta la mancata riapertura dell'istruttoria per escutere i testi a prova contraria, è inammissibile. E' inammissibile, ai sensi dell'art. 606, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui si lamenta la mancata ammissione dei testi, non meglio individuati, per verificare se tutti i lettori avessero inteso che il magistrato al quale si faceva riferimento nell'articolo fosse la Vallefuoco, trattandosi di motivo nuovo dedotto per la prima volta nel giudizio di legittimità e non dedotto con uno specifico motivo di appello. Nel resto, il motivo è inammissibile per manifesta infondatezza. La violazione del diritto di difesa, sub specie di mancata ammissione delle prove dedotte, esige che ne sia precisata la portata indicando specificamente le prove che l'imputato non ha potuto assumere e le ragioni della loro rilevanza ai fini della decisione nel contesto processuale di riferimento, considerato che il diritto dell'imputato di difendersi citando e facendo esaminare i propri testi, trova un limite nel potere del giudice di escludere le prove superflue ed irrilevanti, ex art. 495 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 10425 del 28/10/2015 - dep. 2016, Lanzafame, Rv. 26755901). Nel caso di specie, dalla sentenza di secondo grado emerge che la Corte di appello non ha accolto la richiesta di escussione del teste Serafino Trento ritenendo la prova superflua. Peraltro, dalle due sentenze di merito risulta che la circostanza che il ricorrente intendeva confutare attraverso l'esame del teste non è stata affatto presa in considerazione dai giudici di merito per fondare su di essa la affermazione della penale responsabilità dell'imputato, che ha le sue basi nel contenuto stesso dell'articolo, nella sua diffusione in ambito locale e nell'assunzione da parte dell'imputato della paternità dell'articolo medesimo. Ne consegue che risulta evidente che del tutto correttamente la Corte di appello ha ritenuto non necessaria la deposizione del teste indicato dal ricorrente, in quanto avente ad oggetto una circostanza irrilevante ai fini del giudizio. 3. Il terzo motivo di ricorso è fondato. La Corte EDU, con la sentenza pronunciata nella causa Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019 e ancor prima con la la sent. Belpietro c. Italia, 24 settembre 2013, ha affermato che la pena detentiva inflitta ad un giornalista responsabile di diffamazione è sproporzionata in relazione allo scopo perseguito di proteggere la altrui reputazione e comporta una violazione della libertà di espressione garantita dall'art. 10 CEDU. Più precisamente la Corte, con la sentenza nella causa Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019, «ritiene che l'irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall'articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza» e precisa che la violazione sussiste anche se la pena detentiva è stata sospesa, come nel caso di specie. In applicazione dei suddetti principi, non ricorrendo alcuna delle circostanze eccezionali indicate dalla Corte EDU, la pena inflitta all'odierno ricorrente risulta eccessiva ed il suo ricorso è fondato in parte qua. 4. Non risultando il ricorso inammissibile deve rilevarsi che il reato contestato al Buonofiglio si è ormai estinto per prescrizione. Il reato è stato commesso il 13 agosto 2011 e considerando anche giorni 28 di sospensione conseguenti a due rinvii per impedimento disposti alle udienze del 14 maggio 2014 e del 9 aprile 2015, il termine massimo di prescrizione pari ad anni sette e mesi sei ai sensi degli artt. 157 e 161, secondo comma, cod. pen. è maturato in data 13 marzo 2019. Non risultando la evidenza di alcuna delle cause di proscioglimento previste dall'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., deve dichiararsi la estinzione del reato per prescrizione e la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali.

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Maltrattamenti in famiglia anche verso la convivente

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di Lucia Izzo - Integra il reato di " di Lucia Izzo - Integra il reato di " m altrattamenti in famiglia " la condotta di colui che assume comportamenti di violenza e percosse nei confronti della ex convivente. Lo ha precisato la Corte di Cassazione, sezione IV penale, nella sentenza n. 31595/2017 (qui sotto allegata), dando seguito a un orientamento che via via sembra consolidarsi in sede di legittimità (per approfondimenti: Maltrattamenti: c'è reato anche nella famiglia "di fatto"). La vicendaNel caso esaminato la Corte d'Appello aveva condannato l'imputato, assolto in primo grado per insussistenza del fatto, alla pena per il reato di maltrattamenti in famiglia commesso in danno alla sua ex convivente. L'imputato nel suo ricorso afferma che il rapporto di convivenza era cessato da tempo , ricorrendo tra i due solo relazioni lavorative. Sarebbe dunque mancato, secondo la difesa, il rapporto che avrebbe giustificato il reato.Inoltre, l'uomo precisa che vi sarebbero state solo accese discussioni e violenze reciproche e nessuna abitualità del comportamento abusante poteva desumersi alla pluralità di denunce della donna, alcune definite con remissione di querela e altre con decisione di altri giudici. Reato di maltrattamenti in famiglia anche tra conviventiIn realtà il ricorso è infondato. In effetti, conferma la Cassazione, la giurisprudenza ritiene condizione di fatto essenziale per la verificazione del delitto di maltrattamenti in famiglia la sussistenza di una situazione giuridica, derivante dal vincolo matrimoniale, o di fatto , che provochi l'affidamento reciproco e la presenza di vincoli di assistenza, protezione e solidarietà tra le parti. Tuttavia, come confermano precedenti pronunce della Corte, la situazione di convivenza, protratta per congruo periodo di tempo , o pregressa, nell'ipotesi di coniugi separati, è condizione idonea a giustificare l'accertamento del reato, per la persistenza dei vincoli di solidarietà che ne conseguono (per approfondimenti: Cassazione: reato di maltrattamenti in famiglia anche tra ex conviventi) La novella del 1 ottobre 2012 n. 172, in base all'orientamento di Cassazione, ha parzialmente riformato l'art. 572 c.p. cambiando la rubrica da maltrattamenti in famiglia in maltrattamenti contro familiari e conviventi , e precisando che soggetto passivo del reato non è soltanto una persona della famiglia, ma una persona della famiglia o comunque convivente. Il legislatore ha dunque riconosciuto valore sociale della convivenza, come modello idoneo a costituire una di quelle formazioni sociali che l'ordinamento costituzionale si impegna a riconoscere e garantire, e ha inteso assicurare tutela penale non solo ai componenti della famiglia legale, ma anche ai m embri delle unioni di fatto fondate sulla convivenza La sentenza impugnata si è uniformata a tale orientamento e, sulla base delle dichiarazioni rese, ha ritenuto comprovato il rapporto di convivenza tra imputato e persona offesa anche dopo la cessazione della coabitazione sotto lo stesso tetto: i due, infatti, avevano continuato la loro relazione sentimentale , frequentandosi nel comune ambito di lavoro e presso le rispettive abitazioni. La Corte ha ritenuto, altresì, comprovata un'abituale condotta di maltrattamenti posta in essere dall'imputato stante i numerosi referti medici prodotti dalla persona offesa, attestanti le lesioni da questa subite. Pertanto, il comportamento aggressivo e violento dell'imputato, lungi dal risolversi in occasionali scatti d'ira, causati dalla gelosia, era improntato alla sopraffazione, offesa e umiliazione della compagna che ne aveva riportato, oltre alle lesioni di volta in volta cagionatele, uno status psicologico caratterizzato da paura e terrore continui, ansia e senso di impotenza, stati psicologici tipici della vittima del reato in esame. Il ricorso va dunque respinto. Cass., IV sez. pen., sent. n. 31595/2017 " la condotta di colui che assume comportamenti di violenza e percosse nei confronti della ex convivente. Lo ha precisato la Corte di Cassazione, sezione IV penale, nella sentenza n. 31595/2017 (qui sotto allegata), dando seguito a un orientamento che via via sembra consolidarsi in sede di legittimità (per approfondimenti: Maltrattamenti: c'è reato anche nella famiglia "di fatto"). La vicendaNel caso esaminato la Corte d'Appello aveva condannato l'imputato, assolto in primo grado per insussistenza del fatto, alla pena per il reato di maltrattamenti in famiglia commesso in danno alla sua ex convivente. L'imputato nel suo ricorso afferma che il rapporto di convivenza era cessato da tempo , ricorrendo tra i due solo relazioni lavorative. Sarebbe dunque mancato, secondo la difesa, il rapporto che avrebbe giustificato il reato.Inoltre, l'uomo precisa che vi sarebbero state solo accese discussioni e violenze reciproche e nessuna abitualità del comportamento abusante poteva desumersi alla pluralità di denunce della donna, alcune definite con remissione di querela e altre con decisione di altri giudici. Reato di maltrattamenti in famiglia anche tra conviventiIn realtà il ricorso è infondato. In effetti, conferma la Cassazione, la giurisprudenza ritiene condizione di fatto essenziale per la verificazione del delitto di maltrattamenti in famiglia la sussistenza di una situazione giuridica, derivante dal vincolo matrimoniale, o di fatto , che provochi l'affidamento reciproco e la presenza di vincoli di assistenza, protezione e solidarietà tra le parti. Tuttavia, come confermano precedenti pronunce della Corte, la situazione di convivenza, protratta per congruo periodo di tempo , o pregressa, nell'ipotesi di coniugi separati, è condizione idonea a giustificare l'accertamento del reato, per la persistenza dei vincoli di solidarietà che ne conseguono (per approfondimenti: Cassazione: reato di maltrattamenti in famiglia anche tra ex conviventi) La novella del 1 ottobre 2012 n. 172, in base all'orientamento di Cassazione, ha parzialmente riformato l'art. 572 c.p. cambiando la rubrica da maltrattamenti in famiglia in maltrattamenti contro familiari e conviventi , e precisando che soggetto passivo del reato non è soltanto una persona della famiglia, ma una persona della famiglia o comunque convivente. Il legislatore ha dunque riconosciuto valore sociale della convivenza, come modello idoneo a costituire una di quelle formazioni sociali che l'ordinamento costituzionale si impegna a riconoscere e garantire, e ha inteso assicurare tutela penale non solo ai componenti della famiglia legale, ma anche ai m embri delle unioni di fatto fondate sulla convivenza La sentenza impugnata si è uniformata a tale orientamento e, sulla base delle dichiarazioni rese, ha ritenuto comprovato il rapporto di convivenza tra imputato e persona offesa anche dopo la cessazione della coabitazione sotto lo stesso tetto: i due, infatti, avevano continuato la loro relazione sentimentale , frequentandosi nel comune ambito di lavoro e presso le rispettive abitazioni. La Corte ha ritenuto, altresì, comprovata un'abituale condotta di maltrattamenti posta in essere dall'imputato stante i numerosi referti medici prodotti dalla persona offesa, attestanti le lesioni da questa subite. Pertanto, il comportamento aggressivo e violento dell'imputato, lungi dal risolversi in occasionali scatti d'ira, causati dalla gelosia, era improntato alla sopraffazione, offesa e umiliazione della compagna che ne aveva riportato, oltre alle lesioni di volta in volta cagionatele, uno status psicologico caratterizzato da paura e terrore continui, ansia e senso di impotenza, stati psicologici tipici della vittima del reato in esame. Il ricorso va dunque respinto. Cass., IV sez. pen., sent. n. 31595/2017

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Opposizione a decreto penale di condanna con richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova

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Richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova nel procedimento con decreto ex art 464 bis II comma. Nel procedimento per decreto, la richiesta è presentata con l'atto di opposizione.

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