Studio fondato nel 1948 dall'Avv. Giuseppe Battaglia (1922-1995). L'Avv. Monica Battaglia, laureata presso l'Università La Sapienza di Roma con votazione di 110/110 e Lode, svolge la professione di avvocato da oltre 30 anni nel settore civile e amministrativo con particolare riferimento al diritto ereditario, di famiglia, immobiliare, contrattuale. Cassazionista e Mediatore presso l'Organismo di Mediazione Forense di Roma. Aree di Attività: Amministrativo, Civile, Condominio, Famiglia e Successioni, Lavoro, Locazioni, Immobiliare
Mi occupo da sempre della realizzazione del credito derivante dalle questioni civilistiche trattate: in materia di famiglia per il recupero di assegni di mantenimento attraverso il sequestro dei beni, il pignoramento dello stipendio e l'esecuzione forzata sugli immobili; nel campo ereditario per soddisfare il pagamento di eventuali conguagli o ottenere il rimborso delle spese sostenute sui beni comuni; in generale per l'esecuzione di una sentenza, un decreto ingiuntivo o un altro provvedimento giudiziario che abbia riconosciuto un diritto a favore del cliente. Mi avvalgo per tale attività di una rete di collaboratori in tutta Italia
Tratto abitualmente la materia delle successioni: problematiche legate all'invalidità di testamenti e relative impugnazioni, lesioni dei diritti dei legittimari, assistenza nella predisposizione di volontà testamentarie, controversie sulla gestione di beni ereditari. La rappresentanza legale è ovviamente garantita anche nella fase della mediazione obbligatoria, preventiva alla eventuale azione giudiziaria; fondamentale avere un approccio costruttivo durante la mediazione, che può condurre ad accordi di riconoscimento dei diritti con reciproca soddisfazione e in un tempo breve.
Il diritto di famiglia va trattato con cautela e competenza, non potendo ridursi a una guerra sulle questioni economiche. Il mio punto di vista è sempre la tutela delle persone, tanto più se vittime della crisi familiare, come sono, primi fra tutti, i minori. Per queste ragioni, il mio approccio alla separazione o al divorzio è principalmente razionale e tende a raggiungere il massimo risultato per il cliente senza trascinarlo in un contenzioso sfibrante. Nell'ambito della mia esperienza, ho curato anche gli interessi di minori adolescenti nell'ambito delle problematiche di famiglia.
Diritto immobiliare, Separazione, Divorzio, Affidamento, Contratti, Locazioni, Diritto civile, Arbitrato, Mediazione, Negoziazione assistita, Matrimonio, Stalking e molestie, Cassazione, Domiciliazioni, Unioni civili, Tutela dei minori, Diritto commerciale e societario, Proprietà intellettuale, Marchi, Diritto assicurativo, Pignoramento, Diritto del lavoro, Licenziamento, Diritto penale, Violenza, Diritto amministrativo, Ricorso al TAR, Diritto condominiale, Sfratto, Diritto dei trasporti terrestri, Incidenti stradali, Tutela del consumatore, Malasanità e responsabilità medica, Risarcimento danni.
Quando una persona viene a mancare, si presenta il problema della ripartizione del patrimonio tra i legittimi eredi. Forse non tutti sanno che esiste una "quota legittima" a cui hanno diritto figli, ascendenti e coniuge: queste figure possiedono tali diritti sia nel caso di successione senza testamento, sia in caso di successione testamentaria, anche se con alcune differenze. Scopriamo quali. La quota legittima Per quanto riguarda il patrimonio, esistono due quote complementari: la quota legittima e la quota disponibile. Il codice civile definisce la quota di cui i vari legittimari hanno diritto, costituendo anche uno speciale diritto al coniuge del defunto che sussiste anche in presenza di testamento. Sono diversi, dunque, gli aspetti che concorrono alla determinazione delle singole quote: in primis, il rapporto di parentela, seguito da eventuali categorie di successibili e, ovviamente, alla presenza di più legittimari. In caso di separazione, il coniuge separato senza addebito può avvalersi degli stessi diritti di un coniuge non separato; nel caso di divorzio, invece, l'ex coniuge non godrà più dei diritti di quota legittima. A chi spetta la quota legittima Abbiamo già accennato che i legittimari sono figli e discendenti, coniugi e ascendenti, che sussistono solo col verificarsi di determinati requisiti. Se il figlio è uno solo, a lui spetterà almeno la metà del patrimonio lasciato in eredità. Se, invece, i figli sono più di uno, avranno diritto ad almeno due terzi del patrimonio. Se, al contrario, il defunto non aveva figli, agli ascendenti andrà un terzo del patrimonio ereditario. Qualora questi ultimi concorressero col coniuge, avranno diritto a un quarto, mentre al coniuge andrà metà del patrimonio. E ancora, se il coniuge non si trovasse a concorrere con altri legittimari o con i soli ascendenti, avranno diritto, oltre alla metà del patrimonio come già specificato, ai diritti di abitazione nella residenza della famiglia, inclusiva dei mobili. Se, infine, il coniuge si trovasse a concorrere con un figlio, ciascuna delle due parti avrà diritto ad almeno un terzo a testa, mentre se i figli sono più di uno avranno congiuntamente diritto ad almeno metà del patrimonio; al coniuge, di conseguenza, spetterà una legittima di un quarto. Come si calcola la quota legittima Il calcolo della quota legittima da ripartire tra gli eredi è un'operazione complessa, regolata dall'articolo 556 del codice civile. Bisogna, infatti, sommare tutte le entità patrimoniali (da intendersi al netto di eventuali debiti) con le entità patrimoniali di eventuali donazioni dirette e indirette eseguite dal defunto quando era ancora in vita. Il risultato verrà considerato la quota disponibile, pronta da suddividere tra figli, coniugi e ascendenti.
La Corte di Cassazione ha affrontato il tema del risarcimento dei danni, patrimoniali e non, derivanti dal comportamento tenuto da uno dei due coniugi in costanza di matrimonio. Tra le sue più recenti pronunce a riguardo vi è l’ordinanza n. 4470/2018, nella quale la Suprema Corte afferma che la violazione dei doveri coniugali può integrare gli estremi dell'illecito civile se vengono lesi diritti costituzionalmente protetti, purché i danni derivanti alla persona siano specificamente allegati e provati. Il caso: coniuge tradito e risarcimento danni Nel caso in esame, una sentenza del Tribunale di Roma aveva dichiarato la separazione giudiziale dei coniugi, addebitandola al marito, e contestualmente rigettato alcune delle domande presentate. Fra queste, la richiesta di risarcimento danni avanzata dalla moglie, la quale accusava il marito di averla tradita durante il matrimonio e sosteneva che la violazione del dovere coniugale di fedeltà avesse leso una serie di suoi diritti costituzionalmente garantiti (dignità, riservatezza, onore, morale, reputazione, privacy, salute e integrità psicofisica). La Corte d’Appello di Roma, a sua volta investita della vicenda, aveva nuovamente rigettato la domanda risarcitoria della moglie. Da qui il ricorso per Cassazione della donna, denunciando una violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. Le conclusioni della Corte di Cassazione Con l’ordinanza n. 4470/2018 il giudice di legittimità stabilisce che la violazione dei doveri coniugali è risarcibile come danno non patrimoniale, ma dichiara inammissibile il ricorso della moglie in mancanza di una specifica allegazione del pregiudizio non patrimoniale subito. La Suprema Corte di Cassazione dettaglia nel seguente modo: la violazione dei doveri coniugali è una violazione di doveri che hanno natura giuridica e dunque, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, ben può integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo a un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c.; la dignità e l’onore della moglie costituiscono beni costituzionalmente protetti e, nel caso di specie, erano stati gravemente lesi dalla condotta del marito; ciò premesso, deve negarsi il risarcimento perché la lesione dei diritti inviolabili della persona, costituendo un danno conseguenza, va specificamente allegato e provato. Il danno non patrimoniale, in altre parole, non può mai ritenersi in re ipsa , ma è onere del danneggiato allegarlo e provarlo, anche a mezzo di presunzioni. Cosa che la ricorrente non aveva fatto. Va segnalato che gli ermellini sono giunti a una simile conclusione più recentemente, con l’ordinanza n. 6598/2019.
Natura e finalità dell'assegno di mantenimento per il coniuge e per i figli; differenze con l'assegno di divorzio per l'ex coniuge, presupposti e orientamenti giurisprudenziali in materia.
Il trasferimento del minore all’estero non può essere deciso ed attuato unilateralmente dal genitore “collocatario” senza l’autorizzazione dell’altro; lo si evince dal testo dell’art. 316 del codice civile. Ove tale autorizzazione manchi, provvede il giudice decidendo esclusivamente in funzione del preminente interesse del minore, alla luce del suo diritto alla “bigenitorialità”. Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione nelle più recenti pronunce. È indubbio infatti che lo spostamento della residenza del minore in un paese straniero può costituire un oggettivo ostacolo alla frequentazione del genitore non convivente, nonché delle altre figure familiari a lui legate (nonni, cugini, ecc.); in tal modo viene di fatto vanificato il diritto alla bigenitorialità. Tanto ciò è vero, che l’attuazione unilaterale del trasferimento, in assenza del consenso dell'altro genitore o dell’autorizzazione del giudice, integra l’illecito della sottrazione internazionale del minore, come stabilito dalla Convenzione de L’Aja del 1980. D’altra arte non può assolutamente ritenersi, e la Cassazione lo ha ribadito di recente, che l’accordo raggiunto dai coniugi in sede di separazione circa il collocamento del minore presso uno dei genitori costituisca un’implicita autorizzazione, al genitore convivente con il figlio, a portarlo con sé ovunque decida. Il giudice, in caso di disaccordo fra i genitori, dovrà contemperare due differenti diritti: quello, costituzionalmente garantito ad ogni cittadino, di fissare liberamente la propria residenza, e il diritto del minore a mantenere rapporti e legami con entrambi i genitori e i rami della famiglia, pur dopo la separazione (bigenitorialità, appunto). Sarà quindi necessaria un’approfondita indagine circa gli effetti che il chiesto trasferimento del minore all’estero possa avere sulla relazione con l'altro genitore, sull’effettivo interesse del figlio a mantener le radici nel paese di origine, sulle conseguenze, in termini di equilibrio psico fisico del minore, di un radicale cambio di ambiente, mentalità, amicizie, ecc.. Ove si accerti che il trasferimento non risponde all’interesse del minore, potrà essere valutata la soluzione alternativa del collocamento presso l’altro genitore (beninteso, se ve ne sono le condizioni) modificando in tal senso il precedente regime, anche se stabilito su accordo dei coniugi.
La violazione delle norme sulle distanze fra costruzioni comporta il diritto, per il proprietario confinante, di ottenere sia la tutela in forma specifica (ripristino della situazione antecedente l’illecito, mediante demolizione) che la tutela risarcitoria. A lungo la Giurisprudenza ha ritenuto che chi agiva per il risarcimento del danno da violazione delle distanze dovesse dimostrare la sussistenza e l’entità del pregiudizio subìto. Le più recenti pronunce della Suprema Corte di Cassazione, al contrario, sono nel senso di considerare il danno in re ipsa , senza necessità che il danneggiato ne fornisca la prova. Il pregiudizio del confinante si ritiene quindi effetto diretto, certo e indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo, e quindi della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea (fino alla demolizione dell’opera abusiva) del valore della proprietà. Resta sempre salva, ovviamente, la possibilità, per la parte che ha realizzato la costruzione in violazione delle distanze, di dimostrare che il danno non sussiste, ad esempio per le particolari caratteristiche dei luoghi, oppure per le modalità in cui si è realizzata la lesione.
L’accordo con cui due coniugi, in sede di separazione consensuale, dispongano l’attribuzione di un immobile in favore di uno di essi, può essere oggetto di domanda di simulazione da parte dei creditori del simulato alienante. Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione in varie recenti pronunce. All’interno della separazione, infatti, deve distinguersi una parte essenziale, costituita dai provvedimenti sullo status dei coniugi, sull’affidamento dei figli minori, sull’assegnazione della casa coniugale e sul mantenimento per i figli e il coniuge; e una parte meramente eventuale, relativa agli accordi di contenuto patrimoniale finalizzati a “sistemare” i rapporti in occasione dell’evento della separazione. In quest’ottica, l’attribuzione di un immobile in proprietà ad uno dei coniugi può avere ad esempio una funzione compensativa di situazioni maturate nel corso della convivenza, oppure una funzione di contributo al mantenimento, restitutiva in ragione di spese effettuate nell’interesse comune, ecc.. Mentre sugli elementi essenziali della separazione non è ritenuta concepibile un’azione di simulazione, al contrario con riferimento al contenuto eventuale degli accordi patrimoniali fra i coniugi omologati dal Tribunale è possibile instaurare il giudizio di simulazione assoluta da parte del creditore che si ritenga leso dall’attribuzione (si pensi ad esempio ad una Banca che ha concesso un fido in favore di un soggetto, contando anche solo indirettamente sulla garanzia costituita da un immobile di sua proprietà, che veda perdere tale garanzia in conseguenza dell’attribuzione di quel bene immobile al coniuge a titolo di mantenimento). Naturalmente chi ha interesse a far accertare la simulazione deve riuscire a dimostrare che i coniugi in realtà non avevano intenzione di porre in essere il negozio impugnato; prova non facile, ma certo neppure impossibile, specie in presenza di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, la cui valutazione è rimessa al Giudice. In caso di accoglimento dell’azione di simulazione, l’attribuzione patrimoniale viene considerata come mai posta in essere e il bene rientra nella piena disponibilità dell’originario proprietario.
Uno degli argomenti più discussi in materia di successione è quello dell'usufrutto universale in relazione all'eredità. Prima della riforma del diritto di famiglia, il coniuge superstite usufruttuario veniva considerato come legatario e non come erede, ma anche dopo la riforma sono stati utilizzati gli stessi argomenti per sostenere la natura di legato della disposizione testamentaria di usufrutto universale. Poiché l'usufruttuario non subentra in rapporti qualitativamente uguali a quelli del defunto, il lascito avente a oggetto l'usufrutto viene infatti considerato un legato, salvo altre disposizioni che possano far derivare la qualità di erede. Successione nel possesso e pagamento dei debiti Una delle norme che può aiutare a comprendere tale situazione è l'art. 1146 c.c., secondo cui mentre l'erede continua il possesso del de cuius con gli stessi caratteri e le medesime caratterizzazioni del possesso del defunto, “il successore a titolo particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti”: il legatario, in pratica, non subentra nella situazione possessoria del testatore ma inizia un nuovo possesso, caratterizzato da una nuova condizione e situazione psicologica. L'art. 1010 c.c., invece, esclude che l'usufruttuario di un'eredità risponda dei debiti ereditari e limita la responsabilità dello stesso al pagamento delle annualità e degli interessi prodotti dai debiti medesimi. L'erede è responsabile per i debiti del de cuius, al contrario del legatario, e, anche nel caso in cui il testatore imponga al legatario il pagamento, la sua responsabilità resta limitata al valore dell’oggetto legato. Anche nei confronti dei terzi creditori, sono sempre gli eredi a essere obbligati e non il legatario. Usufrutto come istituzione ereditaria Se prima del diritto di famiglia la tesi che vuole l'usufrutto universale come istituzione ereditaria era minoritaria, dopo tale riforma è stata accolta sempre più spesso come valida, come dimostrano diverse pronunce giurisprudenziali sul tema. Lo stesso art. 1010 già citato viene letto in maniera opposta a quanto visto in precedenza: se alcuni vedono le norme sulla responsabilità dell'usufruttuario per gli interessi prodotti dai debiti ereditari come una prova della natura di legato dell'usufrutto, oggi molti le interpretano in maniera opposta, leggendovi un segnale in favore della natura ereditaria del lascito. Anche se si tratta di una forma limitata di responsabilità, essa dimostra comunque che l'usufruttuario universale è erede; in caso contrario, non deve rispondere in alcun modo delle passività. I sostenitori di tale tesi prendono in considerazione anche il tema del mancato subentro automatico dell'usufruttuario nel possesso dei beni ereditari, ritenendo inapplicabile l'art. 1002 c.c., poiché valido solo per le ipotesi di costituzione o alienazione del diritto di usufrutto per atto inter vivos e non da testamento, che rientrerebbe in una materia diversa. In presenza di un lascito testamentario di usufrutto, il beneficiario non è tenuto a fare l'inventario o a prestare garanzia, ma entra automaticamente nel possesso dei beni sin dall'apertura della successione.
Oggigiorno si parla sempre più spesso di diffamazione su Internet, con ciò intendendosi le offese alla reputazione altrui perpetrate sul web, utilizzando Facebook, partecipando a un gruppo WhatsApp o scrivendo una recensione negativa su TripAdvisor, per citare gli esempi più comuni. Per inquadrare correttamente il problema occorre partire dalle norme di riferimento contenute nel codice penale, che hanno disciplinato il reato di diffamazione in un’epoca in cui il web e i social network non erano neanche immaginabili, e vedere, poi, la chiave di lettura che la giurisprudenza ha dato a tali norme, non solo per attualizzarle alla luce dei moderni mezzi di comunicazione, ma anche per bilanciare il diritto di una persona a veder tutelata la propria reputazione con il diritto alla critica, altrettanto importante e costituzionalmente garantito. Il reato di diffamazione e come si applica al web Norma di riferimento è l’art. 595 c.p. che, al primo comma, definisce la diffamazione come un’offesa all’altrui reputazione fatta comunicando con più persone, da punirsi con la reclusione fino a un anno o con una multa fino a euro 1.032. Una forma aggravata di diffamazione è prevista al terzo comma: se l’offesa è recata a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, la pena è la reclusione da tre a sei mesi o una multa non inferiore a 516 euro, per via della facilità e velocità con cui il messaggio offensivo può propagarsi. E proprio l’art. 595, terzo comma, nella parte in cui fa riferimento a qualsiasi mezzo di pubblicità per diffondere l’offesa, è stata interpretata pacificamente dalla giurisprudenza nel senso di includervi anche la diffamazione su Internet. Presupposti per la configurazione del reato sono: l’indicazione del soggetto a cui sono rivolte le offese – non è necessario rivelare espressamente nome e cognome, basta che le caratteristiche descritte portino a identificare inequivocabilmente detto soggetto; la comunicazione a più persone, con la consapevolezza, da parte del soggetto agente, che il messaggio possa raggiungere un numero indeterminato e quantitativamente apprezzabile di soggetti (tra le pronunce più recenti al riguardo, Cass., sent. n. 40083/2018); la coscienza e volontà di usare un linguaggio offensivo dell’onore, della reputazione e del decoro del soggetto passivo – il messaggio deve essere concretamente offensivo e diffamatorio, non potendo bastare dei semplici commenti provocatori in una discussione su Facebook (Cass., sent. n. 3981/2015). Per la Suprema Corte, l’eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia la persona offesa non consente di configurare il reato come ingiuria (sent. n. 40083/2018). È opportuno ribadire nuovamente che la diffamazione su Facebook è aggravata dal mezzo di pubblicità, ricadendo nell’art. 595 c.p., ma non dal mezzo di stampa: non si tratta, cioè, di informazione o comunicazione di tipo professionale veicolata da una testata giornalistica, che ricadrebbe nella fattispecie disciplinata dall’art. 13 della L. 47/1948 (Cass., sent. n. 4873/2017 e sent. n. 12546/2017). Diffamazione su Facebook e diritto di critica Il legislatore prevede, tra le cause di esclusione del reato di diffamazione (e dunque, per esteso, della discriminazione su Internet), l’esercizio del diritto di critica, quale forma del più ampio diritto di manifestazione del pensiero sancito dall’art. 21 della Costituzione. La critica va intesa come un giudizio valutativo che parte da un fatto reale e concreto e si esprime su tale fatto con toni aspri, polemici, frasi colorite o linguaggio gergale, purché le espressioni utilizzate siano proporzionali e funzionali a contestare il fatto. Linea di demarcazione tra diffamazione e diritto di critica è la “continenza”, ovvero esprimersi con moderazione, attenersi ai fatti e non sfociare in un’immotivata aggressione alla reputazione di una persona. Pertanto, una recensione ironica nei confronti di un pubblico esercente pubblicata su Facebook non integra gli estremi della diffamazione perché il gestore, operando in un libero mercato, accetta che i propri servizi possano essere oggetto di valutazioni positive o negative (Trib. Pistoia, sent. n. 5665/2015).
In generale, in caso di infortunio del dipendente, il datore di lavoro viene considerato responsabile penalmente in quanto tenuto a rispettare specifici obblighi di formazione antinfortunistica e a fornire tutti gli strumenti affinché il lavoro possa essere svolto in totale sicurezza. Di recente, tuttavia, una sentenza della Cassazione ha ribaltato tale responsabilità per i casi in cui l'infortunio sia dovuto al comportamento incauto del dipendente. Infortunio dovuto al comportamento incauto: cosa accade La sentenza a cui si fa riferimento è quella del 3 marzo 2016, n. 8883, relativa al caso di un lavoratore esperto di sicurezza e nominato responsabile per la sua azienda, precipitato da un tetto sul quale era incautamente salito per eseguire un riposizionamento di alcuni fili. In una situazione di questo tipo, viene da chiedersi quale possa essere la colpa del datore di lavoro a fronte del comportamento di un dipendente adeguatamente formato e informato in materia di sicurezza: è da questo presupposto che la Cassazione ha inteso partire per giungere alla risoluzione del caso. La sentenza sul caso specifico Il caso in evidenza si era chiuso dinanzi ai giudici del Tribunale di Rieti con l'assoluzione del datore di lavoro, ritenuto non responsabile di reato relativo alla violazione delle normative sulla prevenzione degli infortuni, una sentenza alla quale era seguito il ricorso in Cassazione della controparte. Secondo la difesa del datore di lavoro, l'istruttoria aveva fatto emergere la correttezza del comportamento dell'imputato e l'imprudenza del dipendente, il quale non aveva posto in essere le dovute misure di sicurezza per l'esecuzione dei lavori. Causa dell'incidente era stato dunque proprio il comportamento del dipendente, che non aveva rispettato le direttive impartite. Assoluzione degli imputati La Corte ha richiamato il principio per cui la sentenza di condanna deve essere pronunciata soltanto “se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, ex art. 533 c.p.p. comma 1, un giudizio non applicabile in questo caso in quanto si era già dimostrata, da parte del datore di lavoro, la predisposizione delle giuste misure di sicurezza, date dalla scelta di un operatore esperto e dalla fornitura dei mezzi adeguati per salire sul tetto ed eseguire l'intervento previsto. Se in altre situazioni, la stessa Cassazione ha sottolineato come non basti a escludere la responsabilità del datore di lavoro il solo comportamento negligente del dipendente infortunato, qualora risultino anche mancanze nell'adozione delle giuste cautele, in questo caso specifico si è proceduto con l'annullamento senza rinvio e la totale assoluzione degli imputati perché il fatto non costituisce reato, ragion per cui non è possibile affermare che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio subito dal dipendente. ← Post meno recente
In generale, in caso di infortunio del dipendente, il datore di lavoro viene considerato responsabile penalmente in quanto tenuto a rispettare specifici obblighi di formazione antinfortunistica e a fornire tutti gli strumenti affinché il lavoro possa essere svolto in totale sicurezza. Di recente, tuttavia, una sentenza della Cassazione ha ribaltato tale responsabilità per i casi in cui l'infortunio sia dovuto al comportamento incauto del dipendente. Infortunio dovuto al comportamento incauto: cosa accade La sentenza a cui si fa riferimento è quella del 3 marzo 2016, n. 8883, relativa al caso di un lavoratore esperto di sicurezza e nominato responsabile per la sua azienda, precipitato da un tetto sul quale era incautamente salito per eseguire un riposizionamento di alcuni fili. In una situazione di questo tipo, viene da chiedersi quale possa essere la colpa del datore di lavoro a fronte del comportamento di un dipendente adeguatamente formato e informato in materia di sicurezza: è da questo presupposto che la Cassazione ha inteso partire per giungere alla risoluzione del caso. La sentenza sul caso specifico Il caso in evidenza si era chiuso dinanzi ai giudici del Tribunale di Rieti con l'assoluzione del datore di lavoro, ritenuto non responsabile di reato relativo alla violazione delle normative sulla prevenzione degli infortuni, una sentenza alla quale era seguito il ricorso in Cassazione della controparte. Secondo la difesa del datore di lavoro, l'istruttoria aveva fatto emergere la correttezza del comportamento dell'imputato e l'imprudenza del dipendente, il quale non aveva posto in essere le dovute misure di sicurezza per l'esecuzione dei lavori. Causa dell'incidente era stato dunque proprio il comportamento del dipendente, che non aveva rispettato le direttive impartite. Assoluzione degli imputati La Corte ha richiamato il principio per cui la sentenza di condanna deve essere pronunciata soltanto “se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, ex art. 533 c.p.p. comma 1, un giudizio non applicabile in questo caso in quanto si era già dimostrata, da parte del datore di lavoro, la predisposizione delle giuste misure di sicurezza, date dalla scelta di un operatore esperto e dalla fornitura dei mezzi adeguati per salire sul tetto ed eseguire l'intervento previsto. Se in altre situazioni, la stessa Cassazione ha sottolineato come non basti a escludere la responsabilità del datore di lavoro il solo comportamento negligente del dipendente infortunato, qualora risultino anche mancanze nell'adozione delle giuste cautele, in questo caso specifico si è proceduto con l'annullamento senza rinvio e la totale assoluzione degli imputati perché il fatto non costituisce reato, ragion per cui non è possibile affermare che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio subito dal dipendente. ← Post meno recente
Nei casi di infortunio sul lavoro, vige per il lavoratore l'onere della prova per il risarcimento integrale del danno. Questa in realtà, però, non riguarda la colpa del datore di lavoro, che si presume, ma il nesso di causalità tra l'inadempimento e il danno. Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta. Nesso di causalità tra condotta e infortunio Le norme in materia di infortuni sul lavoro mirano a tutelare in maniera completa il lavoratore, soffermandosi fermamente sulle responsabilità del datore di lavoro: questi è tenuto, infatti, a predisporre tutte le misure di sicurezza del caso e a mettere in atto comportamenti volti a garantire la piena incolumità del dipendente nello svolgimento delle sue mansioni. La giurisprudenza di legittimità ha cercato, negli anni, di trovare il giusto equilibrio tra le esigenze di prevenzione e i principi costituzionali che regolano la responsabilità penale e la colpevolezza. Da questo punto di vista, si è sempre cercato di porre in evidenza il rapporto di causalità materiale tra il lavoro e il verificarsi del rischio, dunque si parlerà di infortunio sul lavoro quando è proprio il lavoro a determinare il rischio di cui è conseguenza l'infortunio. In tal senso, anche un infortunio avvenuto al di fuori del luogo e dell'orario di lavoro ma come conseguenza di un rischio derivato dal lavoro, rientra nei casi di infortunio sul lavoro. Obblighi del datore di lavoro La legge prevede che il datore di lavoro sia responsabile per gli infortuni avvenuti al lavoratore in virtù del nesso sopra descritto. Per questo motivo, egli è tenuto ad assicurare la piena sicurezza nel luogo di lavoro a tutti i soggetti che prestano la loro opera. Inoltre, il datore di lavoro è tenuto a tutelare anche tutti coloro che accedono all'ambiente lavorativo a prescindere dal rapporto di dipendenza diretta con il titolare. Come stabilito dall'art.2087 c.c., infatti, l'imprenditore “ è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro ”, ponendosi come garante dell'incolumità di tutti coloro che operano nella sua impresa. Il ruolo dei responsabili del servizio di prevenzione Nell'ottica di garantire la più ampia tutela ai lavoratori, la responsabilità già prevista per l'imprenditore viene estesa anche ai responsabili del servizio di prevenzione e protezione, pur essendo la loro funzione all'interno dell'impresa legata al ruolo di consulente. Collaborando direttamente con il datore di lavoro, essi vengono infatti considerati veri e propri garanti degli eventi che si verificano a causa della violazione di tali doveri.
Divorziare non è semplice: quando un matrimonio finisce, si fanno infatti i conti con anni dedicati a qualcosa che non è andato come ci si aspettava, con le inevitabili delusioni, i sensi di colpa e la rabbia per tutto ciò che si era progettato ma che, invece, non è mai stato realizzato. Una volta compreso, però, che si tratta di un evento frequente e, per quanto negativo, comunque naturale nella vita di una coppia, è possibile affrontare il divorzio in maniera serena, cercando di evitare alcuni comportamenti errati; vediamo quali. Evitare la rabbia e il rancore Una delle prime emozioni che segue un divorzio è quella della rabbia, specie se la separazione segue un periodo di forti tensioni all'interno della coppia. Lasciarsi sopraffare da queste sensazioni da entrambe i lati, però, non fa che rendere il divorzio ancora più complicato e stressante. Piccole ripicche, minacce e litigi finiscono per allungare i tempi per ottenere il divorzio, innescando una vera e propria guerra a colpi di lettere di avvocati e ricorsi al giudice. Ciò non giova a nessuna delle parti in causa, ecco perché mettere da parte il nervosismo, per quanto possa essere giustificato, è il primo passo da fare per giungere a una conclusione serena del rapporto. Non coinvolgere i figli negli screzi col coniuge Quando in un divorzio sono coinvolti anche dei figli, la situazione si fa immediatamente più complicata, perché la separazione deve tener conto degli interessi dei più piccoli. Una coppia che giunge al divorzio in maniera consensuale e che riesce ad accordarsi su ogni aspetto per il bene dei figli riuscirà, senza dubbio, a trasformare questa pagina negativa in qualcosa di non eccessivamente traumatico per i bambini. Farsi la guerra utilizzando proprio i figli come scudo è una delle azioni peggiori che si possa mettere in atto durante una causa di divorzio, non solo per i due coniugi ma soprattutto per i bimbi, coinvolti in qualcosa che difficilmente riescono a comprendere e di cui porteranno i segni per molto tempo. Non innescare battaglie di natura patrimoniale ed economica I disaccordi in materia economica e patrimoniale sono tra le principali cause di allungamento dei tempi delle cause di divorzio e di tensioni tra i coniugi. Da questo punto di vista, anche se le dispute possono essere comprensibili, riuscire ad accordarsi in maniera razionale sulle eventuali proprietà e sul valore degli assegni di mantenimento rappresenta un importante passo per chiudere un matrimonio nella maniera più serena possibile. Prolungare una battaglia legale quando è possibile trovare un giusto compromesso non fa che logorare entrambe le parti in causa, non solo dal punto di vista finanziario ma anche da quello emotivo.
Il divorzio non è mai una pagina semplice nella vita di una persona, ancor più se all'interno della famiglia sono presenti dei bambini. Ecco perché, quando si intraprende questo percorso, è bene valutare bene ogni aspetto e mettere in atto comportamenti razionali che tutelino tutte le parti in causa. Salvaguardare l'integrità dei più piccoli Per un bambino, il divorzio dei genitori può rappresentare un evento traumatico, in particolare se caratterizzato da forti litigi e contrasti. Uno dei comportamenti più sbagliati che un genitore può mettere in atto, da questo punto di vista, è quello di coinvolgere i più piccoli, caricandoli di responsabilità che essi non sono in grado di sostenere psicologicamente e che, molto probabilmente, si porteranno dietro per il resto della loro vita. Sono diversi, in tal senso, gli errori compiuti dai genitori che stanno per divorziare, i quali finiscono per utilizzare i figli come mezzi per raggiungere i propri obiettivi e come strumenti per venire a conoscenza di informazioni utili ai fini della pratica. Tutto ciò può creare forti squilibri nella vita dei bambini, posti di fronte a eventi molto più grandi di loro e proiettati in un ambiente non più sereno, che ne minerà inevitabilmente la crescita. Come comportarsi con i figli Se la decisione di divorziare sembra essere ormai irrimediabile, i genitori possono assumere comunque comportamenti maturi e razionali per limitare al massimo le conseguenze per i propri figli. Gli esperti in materia, sempre pronti a supportare le coppie in questo percorso con l'obiettivo di rendere il divorzio meno traumatico per gli interessati e ancor più per i bambini, sono ormai concordi su alcuni punti fondamentali. Per quanto possa essere difficile, i genitori dovrebbero cercare in ogni modo di tenere fuori i figli dalle discussioni e dai contrasti relativi alla separazione. I bambini sono bravissimi a percepire situazioni e stati d'animo di tensione, anche se non coinvolti, e renderli partecipi di tutto questo potrebbe amplificare ulteriormente i loro disagi. Mai coinvolgere i più piccoli nei motivi del divorzio Ecco dunque l'importanza di seguire alcuni comportamenti fondamentali, come per esempio quello di non utilizzare i figli come messaggeri verso l'altra parte o come mezzo per ricavare informazioni sul coniuge. Piuttosto, molto meglio condividere con loro momenti di divertimento e serenità, senza mai far pesare i motivi di dissidio con il partner. Sarebbe, invece, importante riuscire a mettersi nei panni del bambino per capirne le emozioni e aiutarlo a vivere senza eccessive difficoltà una separazione di cui lui non ha alcuna colpa. Essere divorziati non significa certo essere cattivi genitori, l'importante è saper mettere al primo posto le esigenze dei figli abbandonando gelosie e rancori personali.
Una recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite ha chiarito uno dei punti più controversi in materia di diritti reali, ossia il contrasto tra accessione e comunione. La decisione nasce dal caso specifico portato innanzi al Tribunale di Venezia, nel quale un attore proprietario pro-indiviso di un terreno chiedeva lo scioglimento della comunione, con attribuzione delle proprie quote di spettanza in relazione ai fabbricati edificati al piano interrato e seminterrato dal solo altro comproprietario. La società comproprietaria del terreno chiedeva, dunque, in proprio favore, la proprietà esclusiva del corpo edilizio interrato, ricevendo parere favorevole del Tribunale. Diritto di accessione e terzietà del costruttore Nel caso specifico, la domanda alla base del problema sollevato riguardava la necessità della terzietà del costruttore rispetto alla proprietà del bene. Secondo alcuni membri del Collegio, l'istituto dell'accessione andrebbe applicato anche nei casi in cui il costruttore non sia soggetto terzo rispetto al proprietario; mentre un orientamento più recente vede l'accessione come un istituto applicabile solo quando chi costruisce è un soggetto terzo rispetto al proprietario del bene. Nel dirimere la questione, la Cassazione ha inteso applicare l'istituto dell'accessione senza alcuna limitazione o differenza relativa al soggetto che ha eseguito l'opera, fondando la sua decisione sul fatto che l'accessione costituisca un'espressione del carattere assoluto del diritto di proprietà. Il diritto di accessione si applica, dunque, a prescindere dal fatto che il costruttore sia proprietario o meno del fondo: nello stabilire tale principio, la Cassazione sottolinea come nessuna norma del codice civile affermi che l'accessione si applichi solo se chi costruisce è un soggetto terzo ma, anzi, l'art. 934 c.c. non contiene alcun riferimento soggettivo al costruttore. Accessione e disciplina della comunione La definizione di accessione non contrasta con la disciplina della comunione. Secondo la Corte, infatti, le norme in materia di comunione regolano i rapporti tra comproprietari nell'uso e nel godimento della cosa comune, ma non incidono sui modi di acquisto della proprietà o sulle azioni attuate per mutare l'assetto della proprietà. Tali norme, anzi, escluderebbero che uno solo dei comproprietari possa divenire proprietario esclusivo dell'opera e del suolo comune su cui essa insiste. Le Sezioni Unite arrivano dunque a criticare la sentenza della Corte di Appello di Venezia anche in merito al punto secondo cui il bene diverrebbe di proprietà comune solo se eseguito in conformità alle regole che disciplinano la comunione. La Corte sottolinea infatti come tale ragionamento rischi di premiare chi viola la disciplina della comunione. La Cassazione afferma dunque che la soluzione della Corte di Appello di Venezia, secondo cui il comproprietario non costruttore possa perdere la proprietà della cosa comune per semplice iniziativa dell'altro comproprietario, sia da considerare “contraria a ogni logica e al senso comune e al senso di giustizia”
È possibile rinunciare a una proprietà? Cosa prevede la legge in questi casi? La dottrina prevalente sembra propendere per questa opportunità: vediamo più nel dettaglio cosa affermano gli esperti. Come rinunciare alla proprietà La rinuncia alla proprietà è una manifestazione di volontà unilaterale, non recettizia, da esprimere in forma scritta se riguarda beni immobili o beni mobili registrati e soggetta a trascrizione. Nel momento in cui essa viene espressa, si ha un effetto immediato di abdicazione del diritto, nonché altri effetti successivi, indiretti ed eventuali, che riguarderanno per esempio l'accrescimento della quota degli altri comproprietari. L'ammissibilità della rinuncia al diritto di proprietà è oggetto di ampi dibattiti tra gli interpreti, che si trovano a far fronte a casi specifici nella prassi quotidiana, spesso controversi. La rinuncia potrebbe, infatti, venire manifestata per ottenere dei vantaggi particolari: è il caso, per esempio, del coniuge comproprietario di un immobile acquistato con benefici per la prima casa, che rinuncia alla sua quota per acquistare una nuova casa e usufruire di nuove agevolazioni. La rinuncia alla proprietà può, in questi casi, evitare il ricorso a fattispecie come le vendite simulate o le donazioni senza animus donandi, permettendo di realizzare l'interesse delle parti senza ricorrere a finzioni. Nel nostro ordinamento, tuttavia, non esiste una norma che disciplini in maniera esplicita l'istituto della rinuncia, la cui definizione viene ricavata da diverse fattispecie presenti nel Codice Civile, aprendo dunque a interpretazioni di varia natura. Opinioni sulla rinuncia alla proprietà Le opinioni sul tema della rinuncia alla proprietà sono molto diverse tra loro. La tesi negativa porta a suo favore diverse argomentazioni, che partono proprio dalla mancanza di una regolamentazione generale del tema e dal fatto che l'istituto può prestarsi facilmente ad abusi da parte di privati che mirano ad aggirare tasse e oneri. La rinuncia, inoltre, andrebbe in contrasto con il carattere perpetuo del diritto di proprietà e permetterebbe a un soggetto di incidere sulla sfera giuridica di un terzo senza il suo consenso. D'altro canto, i favorevoli criticano tali argomentazioni osservando che, pur non esistendo una norma specifica in materia, non esiste comunque alcuna norma che vieti tale scelta. L'analisi delle varie norme presenti nel codice porterebbe, anzi, a evidenziare una generale ammissibilità dell'istituto. In quanto diritto disponibile, la proprietà deve essere considerata rinunciabile, senza difficoltà per ciò che riguarda il principio di perpetuità della proprietà, che non può essere considerato un carattere indefettibile del diritto di proprietà. In virtù delle argomentazioni brevemente espresse e di altre approfondite nel corso degli anni, si può affermare che la dottrina prevalente ammette la rinunciabilità del diritto di proprietà, che oggi sembra condivisa anche dalla giurisprudenza.
Il signor A venne al mio studio lamentando che il tribunale di Roma, nella causa di divorzio, aveva disposto l’affidamento esclusivo alla madre dei due figli di 12 e 16 anni, prevedendo un regime di visita del padre molto restrittivo rispetto al passato. L’uomo era deluso e scoraggiato perché il provvedimento parlava di una sua totale inadempienza agli obblighi di mantenimento dei due figli, e in più i ragazzi erano disperati per le restrizioni delle visite paterne e sembravano “rimproverarlo” per non aver fatto tutto il possibile per evitare questi drastici cambiamenti. Decidemmo di ricorrere in appello; riuscimmo a dimostrare che il mio cliente aveva provveduto al mantenimento dei figli direttamente, avendoli di fatto tenuti con sé per un tempo addirittura superiore a quello della madre, durante il quale aveva provveduto a tutte le loro necessità. Inoltre chiedemmo che i figli minori fossero ascoltati in ordine ai tempi di permanenza presso ciascun genitore: non era infatti concepibile che il Tribunale avesse omesso tale incombente. La Corte d’Appello ha proceduto all’ascolto dei due ragazzi, i quali, benché emozionati, hanno superato brillantemente l’iniziale soggezione e hanno dichiarato di essere dispiaciuti di non essere stati consultati. Hanno chiesto quindi di tornare a un regime che prevedesse più tempo con il padre. All’esito, la Corte ha ristabilito l’affidamento congiunto e ha rimodulato il regime degli incontri del mio cliente con i minori, adeguandolo alle attuali esigenze di tutti. Anche la madre alla fine ha accettato questa situazione e oggi si è ristabilito un clima di serenità fra tutti.
Monica Battaglia
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