Sono un avvocato che grazie alla collaborazione con diversi studi legali ha maturato esperienza sia nel settore giudiziale che stragiudiziale in materia di diritto civile, diritto del lavoro e previdenziale, contrattualistica, responsabilità civile et al, diritto dell'immigrazione, diritto tributario e ancora assistenza in materia di diritto penale e dell'esecuzione penale.
Mi occupo di crisi coniugale, sono esperta in separazione e divorzio sia giudiziale che consensuale. Nella crisi matrimoniale, analizzando tutti gli aspetti oggetto di discussione sia dal punto di vista patrimoniale che personale, cerco sempre una risoluzione condivisa della controversia, al fine di rendere il più indolore possibile il momento della separazione.
Ho seguito casi complessi di separazioni consensuali e giudiziali anche con figli minori o non autosufficienti. Il mio obiettivo è quello di cercare di trovare una strada conciliativa, al fine di rendere il momento della separazione il più indolore possibile, in tal senso ho maturato particolare esperienza nella negoziazione per le soluzioni consensuali di separazione personale, divorzio e modifica delle condizioni di separazione o divorzio.
Ho seguito casi complessi di divorzi consensuali e giudiziali anche con figli minori o non autosufficienti. Il mio obiettivo è quello di cercare di trovare una strada conciliativa, auspicando ad una tutela effettiva dei diritti dei singoli membri della famiglia. Cerco sempre di privilegiare la negoziazione in ambito familiare, e di proporre soluzioni consensuali nella fase del divorzio o di modifica delle condizioni di divorzio.
Malasanità e responsabilità medica, Immigrazione e cittadinanza, Incidenti stradali, Risarcimento danni, Negoziazione assistita, Mobbing, Diritto civile, Diritto assicurativo, Recupero crediti, Contratti, Diritto tributario, Licenziamento, Domiciliazioni, Diritto amministrativo, Diritto militare, Pignoramento, Diritto del lavoro, Previdenza, Diritto penale, Ricorso al TAR, Diritto immobiliare, Multe e contravvenzioni, Tutela del consumatore.
Nel diritto di famiglia, o meglio nel sistema di tutela della famiglia, sono stati introdotti nuovi mezzi per la risoluzione delle controversie. Da tempo, si è iniziato a parlare dell'apertura delle "ADR" ( Alternative dispute resolution) in ambito familiare, ed in particolare con il decreto legge 132/2014 si è prevista la possibilità di utilizzare lo strumento della negoziazione assistita nella crisi coniugale. Grazie a questa apertura, oggi è possibile utilizzare questo strumento più soft, più flessibile per separarsi, divorziare o modificare le condizioni della separazione e del divorzio, in via del tutto stragiudiziale, senza adire la giustizia tradizionale, evitando in altri termini di andare in tribunale, con un risparmio sia in termini di costi che di tempi, oltrechè di stress. Fornendo in questo modo una risoluzione alla crisi coniugale più umana, fondata su un dialogo, che permette ai coniugi, assistiti dai propri avvocati, di negoziare e di concludere una " convenzione di negoziazione assistita", quindi di separarsi o di divorziare per il tramite di un accordo condiviso. In altri termini si permette ai coniugi in crisi, attraverso un iter procedimentale semplificato, di esaltare la loro autonomia privata nell'ambito famigliare, ed di svecchiare gli istituti della separazione e del divorzio, esaltando il momento del matrimonio non come semplice atto, ma come rapporto. Significa cioè riconoscere al " consortio" familiare quella natura di rapporto giuridico ove si sviluppa la personalità dei propri membri anche nella fase finale della rottura, esaltandone l'aspetto personale, permettendo di non considerare il momento della rottura, della separazione, come un momento meramente burocratico. Centrale è il ruolo dell'avvocato, che ispirandosi e facendo propri i principi nord-americani di " collaborative law", di un diritto collaborativo, non si limita solo a difendere, a battagliare le ragioni del proprio assistito, ma si fa da paciere, da conciliatore e, applicando concretamente le proprie capacità di negoziazione e di mediazione, aiuta a trovare alla coppia in crisi una soluzione efficiente ed efficace per porre fine alla crisi coniugale e addivenire alla separazione, allo scioglimento del rapporto matrimoniale nella maniera più indolore possibile.
Nel nostro ordinamento la cittadinanza si acquista prioritariamente per nascita : è considerato cittadino italiano il figlio di padre e di madre cittadini per discendenza diretta dall’avo cittadino italiano . La legge di riferimento è la legge 91/1992, in virtù della quale, il discendente emigrato italiano che non abbia conseguito la cittadinanza straniera, può rivendicare il riconoscimento della cittadinanza italiano iure sanguinis . Ragion per cui, anche i discendenti di seconda, terza e quarta generazione, ed oltre, (all'infinito) di emigrati italiani possono essere dichiarati cittadini per filiazione, cioè per cittadinanza ius sanguinis, purché non vi sia stata una interruzione nella trasmissione della cittadinanza. Per ottenere la cittadinanza iure sanguinis occorrono due requisiti: la discendenza da soggetto italiano ( l’avo emigrato); l’ assenza di interruzioni nella trasmissione della cittadinanza. È quindi necessario per il richiedente dare prova della mancata naturalizzazione straniera , non solo dell’avo italiano, ma anche dei suoi discendenti in linea retta, prima della nascita della successiva generazione, fino ad arrivare al richiedente. Il problema della naturalizzazione si è avvertito in particolar modo in Brasile, tra il 1889 e 1891 a seguito della grande naturalizzazione. Il Governo Brasiliano, in virtù del decreto 58 A del 1889, stabiliva che gli Italiani presenti in territorio Brasiliano alla data del 15.11.1889 avrebbero ottenuto la “naturalizzazione automatica” brasiliana a meno che non avessero manifestato dinanzi ai propri consolati la volontà di permanere cittadini della nazione di origine, entro sei mesi dalla data di pubblicazione del decreto. La grande naturalizzazione veniva utilizzata dal Ministero dell’Interno per contestare la trasmissione dello "status civitatis" per supposta automatica perdita della cittadinanza italiana dell’avo italiano che in quel periodo storico era emigrato in Brasile. La sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite il 24.08.2022, n. 25318 ha definitivamente ritenuto illegittima tale norma. In particolare ha ritenuto che la norma straniera deve essere messa in stretta correlazione con le disposizioni del codice civile all'epoca vigente, ergo, il codice civile del 1865. L’art. 11, n. 2, cod. civ. 1865, nello stabilire che la cittadinanza italiana è persa da colui che abbia “ottenuto la cittadinanza in paese estero”, sottintende, per gli effetti sulla linea di trasmissione iure sanguinis ai discendenti, che si accerti il compimento, da parte della persona all’epoca emigrata, di un atto spontaneo e volontario finalizzato all’acquisto della cittadinanza straniera in applicazione del principio secondo il quale: "le norme del diritto internazionale e le leggi estere, non possono essere contrastanti con le leggi del nostro stato afferenti alle persone, all’ordine pubblico e al buon costume". Ragion per cui , in materia di cittadinanza non è previsto alcun automatismo , in quanto per la perdita della cittadinanza italiana è necessaria una esplicita rinuncia . La trasmissione della cittadinanza iure sanguinis La trasmissione della cittadinanza iure sanguinis può avvenire in linea maschile ( paterna) o in linea femminile ( materna). Il riferimento normativo è l'art. 1 della legge 91/1992, ai sensi del quale: " è cittadino per nascita: il figlio di padre o di madre cittadini ". Questo significa che colui che è nato in uno stato straniero ha diritto ad essere riconosciuto cittadino italiano se dimostra di avere un avo italiano senza limiti generazionali , purché la catena di trasmissione della cittadinanza non si sia interrotta per naturalizzazione o per rinuncia di uno degli ascendenti prima della nascita del figlio cui si vorrebbe trasmettere la cittadinanza. La trasmissione può quindi avvenire in linea femminile-materna e in linea maschile-paterna. Se per la trasmissione in linea maschile-paterna non vi sono limiti, nel passato si riscontravano dei limiti per la trasmissione in via materna della cittadinanza. Infatti, l’articolo 10 della legge 555/1912 stabiliva la perdita della cittadinanza italiana per la donna che si univa in matrimonio con un cittadino straniero. Tuttavia, la legge 555/1912 è stata considerata costituzionalmente illegittima in applicazione del principio di uguaglianza e della parità dei coniugi, quindi la possibilità della trasmissione della cittadinanza italiana anche per linea materna. Principio oggi ribadito anche dalla Suprema Corte di Cassazione. Gli Ermellini hanno affermato che: “ per effetto delle sentenze della Corte Costituzionale, deve essere riconosciuto il diritto allo status di cittadino italiano al richiedente nato all’estero da figli di donna italiana coniugata con cittadino straniero nel vigore della L. 555/1912 che sia stata, di conseguenza, privata della cittadinanza italiana a causa del matrimonio ”. Come ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis Il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis può avvenire attraverso due procedure: la procedura giudiziale e la procedura amministrativa. La procedura giudiziale La procedura giudiziale, è la procedura che permette di ottenere il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis in maniera più celere , in quanto i tempi per ottenere il riconoscimento della cittadinanza in via amministrativa, attraverso il Consolato, sono molto lunghi. Basti pensare che i tempi per essere chiamati al consolato possono superare i 10 anni. È preferibile, allora la via giudiziale. Il Tribunale Roma con la sentenza n. 2055/ 2019 ha riconosciuto la problematica delle lunghissime liste di attesa e le ha considerate un diniego di riconoscimento del diritto vantato dai richiedenti, giustificando così il loro accesso alla via giurisdizionale. Sulla scia di tale orientamento, recenti sentenze del Tribunale di Roma hanno previsto che non è necessario attendere 730 giorni prima di iniziare l’azione giudiziaria. Singoli passaggi della procedura giudiziale Innanzitutto bisogna premettere, che dal 2021 è cambiata la legge, e pertanto, la competenza a decidere la domanda di cittadinanza iure sanguinis non è più il Tribunale di Roma, ma è il Tribunale del foro di nascita dell’avo italiano . Il procedimento è disciplinato dalla legge delega 206/2021 la quale prevede al comma n. 36: “ quando l’attore risiede all’estero le controversie di accertamento dello stato di cittadinanza italiana sono assegnate avendo riguardo al comune di nascita del padre, della madre o dell’avo cittadini italiani ”. Quindi, la competenza in materia di domanda di cittadinanza ius sanguinis è delle Sezioni Specializzate in materia di immigrazione e cittadinanza del tribunale del luogo del comune di nascita dell’avo cittadino italiano . Il procedimento, oggi, a seguito della cd Riforma Cartabia si svolge secondo le norme del rito semplificato di cognizione, di cui all’articolo 281 decies e ss c.p.c. È necessaria l’assistenza di un legale, ed è necessaria la procura notarile per la rappresentanza in giudizio. All'uopo è opportuno dotarsi di una procura redatta da un notaio e successivamente tradotta, e in alcuni casi apostillata. Non è necessaria la presenza dei ricorrenti in Italia. Per poter presentare la domanda giudiziale di riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis, di particolare importanza è la raccolta della documentazione . I documenti raccolti, formati all’estero, devono ai sensi del DPR. 445/2000, essere tradotti in lingua italiana e muniti di legalizzazione consolare . La validità dei certificati è disciplinata dall’ art. 41 del DPR 445/2000 che stabilisce la validità illimitata dei certificati rilasciati dalle pubbliche amministrazioni attestanti stati, qualità personali e fatti non soggetti a modificazione. Le restanti certificazioni hanno invece validità di sei mesi. La stessa legge si applica anche ai documenti prodotti in Italia. Nell’ambito del processo giudiziale incombe l’onere sulla parte che richiede il riconoscimento della cittadinanza italiana di fornire la prova del suo diritto , quindi la prova della filiazione da discendente italiano per cui, di fondamentale importanza è la raccolta della documentazione, che costituirà prova del rapporto di filiazione . Ottenuto il riconoscimento della cittadinanza italiana, l’avvocato provvederà a richiedere, all’ufficio anagrafico del comune italiano di nascita dell’avo, la trascrizione degli atti nel registro dello stato civile. Con l’avvenuta trascrizione la procedura si intende conclusa. Il riconoscimento della cittadinanza italiana opera con effetto retroattivo alla nascita della persona. I richiedenti possono recarsi personalmente presso gli Uffici Consolari di residenza per richiedere l’iscrizione all’AIRE (Anagrafica italiani residenti all’estero) nonché il rilascio del passaporto italiano. La via amministrativa Come anzidetto, in alcuni casi è possibile anche scegliere la procedura amministrativa. La procedura amministrativa permette il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis senza instaurare un giudizio. Tuttavia, i tempi per ottenere il riconoscimento della cittadinanza sono più lunghi. La procedura amministrativa può svolgersi in due modalità, a seconda che il richiedente risieda all’estero o in Italia. Se risiede in Italia è possibile esperire la procedura amministrativa tramite il comune di residenza del richiedente, quindi è necessaria preliminarmente ottenere l’iscrizione anagrafica, ed è necessario avere ottenuto la residenza nel Comune in cui si intende esperire il procedimento amministrativo di riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis, oltre ad avere preliminarmente, regolare permesso di soggiorno. Invece, per i residenti all’estero possono proporre istanza all’autorità consolare. I tempi di attesa per ottenere la cittadinanza iure sanguins in via amministrativa sono più lunghi. Se la procedura viene avviata personalmente in Italia, l’attesa varia in base al Comune, nel caso in cui la domanda è presentata all’estero, l’attesa varia in base al Consolato. Proprio per abbattere i tempi di attesa, e permettere al richiedente di continuare a risiedere all’estero è sempre consigliabile la via giudiziale . Di particolare importanza è la raccolta della documentazione e il rispetto della normativa di riferimento. A tal proposito importante è la circolare del ministero dell’interno la K.28.1 del 1992 che rappresenta una sorta di “vademecum” delle procedure da seguire per i cittadini stranieri che vogliono ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana. Naturalmente al fine di poter richiedere il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis, è necessario ricostruire la discendenza della cittadinanza italiana. Quindi è necessario partire dall’avo italiano, e verificare, attraverso la preliminare raccolta della documentazione che non vi sono stati processi di naturalizzazione o interruzione nella trasmissione della cittadinanza.
Da tempo si parla di una crisi dei sistemi giuridici tradizionali e della loro incapacità di rispondere alle esigenze di giustizia che la società moderna reclama. La giustizia tradizionale risente di un eccessivo carico di lavoro che comporta un insostenibile dilatazione dei tempi del processo ed un irragionevole aumento dei costi, anche per le cause-controversie di minor valore. In questo quadro si inserisce l'apertura alle “ ADR” Alternative dispute resolution e al diritto collaborativo. L’obiettivo è superare la stagnazione del processo civile odierno, grazie allo sviluppo di strumenti di risoluzione alternative delle controversie. Tecniche di risoluzione stragiudiziale delle controversie, al fine di prevenire le liti, decongestionare la giustizia ordinaria, rimediare ai conflitti in modo semplificato, poco costoso e rapido, così permettendo, da un lato una deflazione del carico dei processi pendenti dinnanzi ai tribunali, e dall’altro addivenire ad una risoluzione della controversia, nel minor tempo possibile, e con meno costi economici. Si annoverano, tra tali strumenti alternativi, la mediazione, l’arbitrato e la negoziazione assistita, di cui si ci occupa La negoziazione assistita è disciplinata dall’intero Capo II del decreto legislativo 132/2014 convertito, con modifiche, dalla legge 162 del 10 novembre 2014 , ed è finalizzata alla risoluzione stragiudiziale di una controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all’albo, espressione di un diritto cd collaborativo, di “collaborative law” di esperienza nordamericana, nonché alla “procédure patecipative” regolata nel codice civile e di procedura civile francese, che si svolge completamente nell’ambito dell’autonomia privata, in cui occupa un ruolo centrale l’avvocato, il quale da semplice “ litigator” che affini le sua armi per sbaragliare l’avversario e vincere la causa per il cliente, vede esaltata la sua figura di consulente, di paciere che, svolge la sua attività volta a pacificare, a conciliare, a mediare, affinché si riesca ad individuare una soluzione, o meglio una risoluzione della controversia, che possa essere efficiente e soddisfacente, anziché alimentare e protrarre a lungo un litigio. In altre parole, il diritto collaborativo è un processo volontario e riservato in cui le parti coinvolte in una controversia lavorano insieme con l'aiuto di avvocati collaborativi e, se necessario, di altri professionisti neutrali (come consulenti finanziari, terapisti, ecc.) per negoziare un accordo legalmente vincolante. Questo metodo si basa su principi di comunicazione aperta, rispetto reciproco e impegno a risolvere le controversie in modo costruttivo. Un metodo più umano e costruttivo per gestire le dispute. il diritto collaborativo può essere visto come complementare ad altri metodi alternativi di risoluzione delle controversie (ADR), tra questi rientra la negoziazione assistita. La negoziazione assistita, è una ADR, basata sulla procedura di “convenzione di negoziazione assistita. La convenzione di negoziazione assistita, descritta dalla legge 132/2014, non è altro che un accordo sottoscritto dalle parti mediante le quale le stesse convengono di “cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole una controversia. L’obbiettivo della cooperazione è quello di raggiungere un soddisfacente accordo conciliativo volto ad evitare il ricorso alla giurisdizione e a consentite la rapida formazione di un titolo esecutivo in via del tutto stragiudiziale. La convenzione è redatta a pena di nullità in forma scritta e deve contenere: a) Il termine concordato delle parti per l’espletamento della procedura, in ogni caso non inferiore ad un mese e non superiore a tre mesi, prorogabile per ulteriori trenta giorni su accordo tra le parti; b) L’oggetto della controversia che non può riguardare diritti indisponibili. La convenzione è conclusa con l’assistenza di uno o più avvocati, che certificano le sottoscrizioni apposte ad essa (art. 2 c.6). È peraltro un dovere deontologico per gli avvocati quello di informare l’assistito all’atto di conferimento dell’incarico, della possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione. Ma oltre ad essere un dovere deontologico, ritengo che lo strumento delle negoziazione assistita, sia per l’avvocato un’opportunità tentare di derimere la controversia mediante la stipula di una negoziazione assistita, questo infatti, permette allo stesso di addivenire ad una risoluzione nel minor tempo possibile e di non dover attendere i tempi della giustizia tradizionale, al contempo, offre un notevole vantaggio per il proprio assistito, il quale nel minor tempo riesce ad ottenere un soluzione alla propria causa e al contempo a ridurre i costi economici. Allo stesso tempo, gli effetti benefici si riflettono anche sull’intero sistema riducendo il carico dei giudizi pendenti dinnanzi all’autorità giudiziaria, quindi si riflette positivamente anche in termini di economia processuale, fermo restando i casi in cui la legge, prevede quale condizione di procedibilità la negoziazione assistita obbligatoria. Di particolare favore è la negoziazione assistita in ambito familiare, grazie al quale oggi è possibile la negoziazione per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento di matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione e divorzio. Quindi, in conclusione, il dl. 132/82021 prevede tre diverse forme di negoziazione assistita: 1. La negoziazione assistita obbligatoria; 2. la negoziazione assistita volontaria; 3. la negoziazione per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento di matrimonio, di modifica della condizioni di separazione e divorzio. Nelle negoziazione assistita obbligatoria, la legge individua una serie di controversie per le quali la negoziazione assistita costituisce una condizione di procedibilità. Più precisamente, chi intende esercitare in giudizio un’azione in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti o proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti 50.000 euro, ad eccezione delle controversie assoggettate alla disciplina della mediazione obbligatoria, deve esperire tramite il suo avvocato un procedimento di negoziazione assistita quale condizione di procedibilità. La negoziazione assistita volontaria La procedura di negoziazione volontaria presuppone l’intenzione comune delle parti di addivenire ad una risoluzione stragiudiziale della controversia tra loro pendente, espressione di autonomia privata, in cui le parti negoziazione le proprie ragioni e spontaneamente addivengono ad una soluzione amichevole della controversia, cioè ad un accordo. La negoziazione assistita in ambito familiare. La negoziazione assistita per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione di cessazione degli effetti civili o di scioglimento di matrimonio, di modifica della condizioni di separazione e divorzio, di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, e loro modifica, e di alimenti, costituisce una ipotesi di negoziazione volontaria, in ambito familiare. La negoziazione assistita in ambito familiare, permette attraverso l’utilizzo di un’istituto più flessibile dell’intervento del giudice di separarsi, divorziare o modificare le condizioni della separazione e del divorzio, riconoscendo alle coppie in crisi un rimedio alternativo alla tutela giurisdizionale di addivenire ad una separazione e/o divorzio in via stragiudiziale, con una notevole riduzione dei tempi e dei costi inerenti alla separazione e/o divorzio tradizionale. Il diritto collaborativo e lo sviluppo delle adr nel nostro ordinamento può essere davvero un’opportunità, tant’è che L’art. 11, comma secondo, del decreto-legge n. 132/2014 dispone che “con cadenza annuale il Consiglio nazionale forense provvede al monitoraggio delle procedure di negoziazione assistita e ne trasmette i dati al Ministero della giustizia”, pertanto sul sito del ministero della giustizia è disponibile un report dell’utilizzo dello strumento della negoziazione assistita nei vari tribunali e nei singoli settori.
Una delle principali cause della crisi economica odierna , che sovente coinvolge professionisti, imprese ma anche privati cittadini sono i crediti insoluti . Spesso aziende, società o privati non riescono in autonomia a recuperare le somme di denaro (i propri crediti) da parte dei propri clienti e dei propri debitori, quindi necessitano dell’assistenza e della consulenza di un legale, che sia in grado di curare e seguire le singole fasi del recupero del credito. Una fase, particolarmente importante, è il cd credit management. Il credit management consiste in tutte quelle attività volte alla gestione , amministrazione e controllo di un credito . Insomma, un insieme di pratiche volte a monitorare un credito, al fine di approntare strategie per il recupero del credito efficaci, ad iniziare dalla verifica dell’eventuale solvibilità del nostro debitore. In altre parole, si ci occupa dell’analisi della documentazion e, della gestione della posizione creditizia/ debitoria , dell’eventuale stesura di piani di rientro , della valutazione della qualità del credito, dell ’attività di recupero del credito vera e propria. Successiva alla fase del credit management, è il recupero del credito vero e proprio, per mezzo di una serie di azioni coordinate tra di loro, che vanno dalla redazione di diffide e messe in mora, alla stipula di accordi transattivi-i famosi saldi e stralcio- fino alla predisposizioni di atti ed azioni dinanzi alle competenti autorità giudiziarie, quali richieste di decreti ingiuntivi et al. Ogni azione, viene posta in essere a seconda del credito da recuperare. I crediti possono avere una diversa origini e natura . A seconda della loro origine possono derivare da un rapporto di natura contrattuale o da altro rapporto obbligatorio, possono distinguersi, a seconda della loro natura in crediti bancari, crediti professionali, in crediti per prestazioni lavorative etc. Le azioni per il recupero crediti possono essere di natura stragiudiziale o giudiziale . Le prime mirano a raggiungere un accordo amichevole tra le parti, mentre le seconde prevedono l’avvio di un’azione legale innanzi al giudice competente ( Giudice di Pace o Tribunale). Il recupero stragiudiziale avviene attraverso diffide, solleciti di pagamento, messe in mora e trattative per raggiungere un accordo transattivo . Ma quando la via amichevole non basta, allora è necessario agire in giudizio, attraverso una pronta ed efficace strategia giudiziale. Il recupero giudiziale , prevede l’invio di intimazioni di pagamento , richieste di decreti ingiuntiv i, precetti e pignoramenti di beni mobili, presso terzi o immobili, a seconda dei casi, al fine di riuscire a recuperare il credito insoluto.
L'esproprio per pubblica utilità rappresenta uno strumento attraverso il quale la pubblica amministrazione (PA) acquisisce, in modo coattivo-autoritativo, la proprietà di beni per realizzare opere di interesse pubbliche, quali infrastrutture strategiche come l’alta velocità ferroviaria. Nel contesto del Sud Italia, dove si registra un forte ritardo infrastrutturale rispetto al resto del Paese, la realizzazione di linee ferroviarie ad alta velocità assume una valenza cruciale per lo sviluppo economico e sociale del territorio. Tuttavia l’esproprio, solleva questioni rilevanti in termini paesaggistici e di tutela dei diritti dei cittadini, tanto sul piano amministrativo quanto su quello giudiziario. 1. Quadro normativo sull’esproprio per pubblica utilità Per un corretto inquadramento della questione è necessario soffermarsi sul quadro normativo di riferimento. Il procedimento espropriativo in Italia è regolato dal DPR n 327 del 8 giugno 2021 (Testo unico sugli Espropri). Tale normativa prescrive, tra le altre, le modalità procedurali per dichiarare la pubblica utilità di un’opera, determinare l’indennità espropriativa e individua gli strumenti volti a garantire la tutela del cittadino. Innanzitutto per la dichiarazione di pubblica utilità è necessario che l’opera sia previsto un atto di programmazione pubblica, come un piano urbanistico o un progetto approvato da un’autorità competente. Nel caso dell’alta velocità ferroviaria, la pubblica utilità deriva dal riconoscimento dell’opera come intervento strategico di interesse nazionale, ai sensi del codice degli appalti DLGS 50/216, e del Piano Nazionale di Ripresa e Resilenza ( PNRR), che destina i fondi specifici alla modernizzazione infrastrutturale del mezzogiorno. 2. Fasi del procedimento espropriativo Il procedimento espropriativo si articola in diverse fasi che sono dettagliatamente individuate dalla legge citata: a) Dichiarazione di pubblica utilità. È l’atto fondamentale che legittima l’esproprio e delimita l’area interessata; b) Determinazione dell’indennità. L’indennità espropriativa deve garantire un giusto ristoro al proprietario, ai sensi dell’articolo 42 della costituzione e viene calcolata tenendo conto del valore venale del bene e di eventuali maggiorazioni; c) Emanazione del decreto di esproprio, è l’atto mediante il quale si trasferisce il bene alla p.a. 3. Strumenti di tutela del cittadino stragiudiziali La normativa prevede alcuni strumenti stragiudiziali a disposizione del cittadino per contestare o negoziare i termini dell’esproprio, nel rispetto del principio secondo il quale la partecipazione del proprietario deve essere garantito in tutte le diverse fasi del procedimento. Tra i rimedi stragiudiziali si annoverano: a) Osservazioni preliminari. Durante la fase di adozione della dichiarazione di pubblica utilità, i proprietari possono presentare osservazioni o opposizioni, soprattutto per dimostrare che il bene non è indispensabili per la realizzazione dell’opera e che esistono alternative progettuali meno impattanti; b) Accordi bonari: la normativa incentiva soluzioni consensuali tra la Pubblica amministrazione e i proprietari soprattutto nella fase di determinazione dell’indennità. Gli accordi bonari consentono di evitare conflitti e accelerare i tempi; c) Istanza di revisione dell’indennità: se il proprietario non accetta l’indennità proposta, può richiedere una revisione tramite una commissione provinciale o un perito nominato dalla P.A.; 4. strumenti di tutela del cittadino giudiziali Se la tutela stragiudiziale non permette di ottenere una risoluzione soddisfacente, il cittadino può ricorrere al giudice per ottenere il riconoscimento dei propri diritti, tra questi si annoverano: ricorsi e impugnazioni: a) Ricorso al TAR: il cittadino può impugnare la dichiarazione di pubblica utilità o il decreto di esproprio dinnanzi al Tribunale Amministrativo. Le principali motivazioni di impugnazione riguardano vizi procedurali, carenza di motivazione, mancata valutazione delle osservazioni presentate; b) Opposizione alla stima dell’indennità. La contestazione dell’indennità può essere presentata dinnanzi alla Corte d’Appello competente nel cui distretto si trova il bene espropriato , in funzione di giudice ordinario. Il cittadino può richiedere in altri termini, un riesame del calcolo effettuato, soprattutto se si ritiene che il valore del bene non sia stato adeguatamente considerato, entro il termine perentorio di 30 giorni dalla notifica del decreto di esproprio o dalla notifica della stima peritale, se quest'ultima sia successiva al decreto di esproprio. Il termine è di sessanta giorni se il ricorrente risiede all'estero. c) Azione risarcitoria. In caso di esproprio illegittimo o ritardi nell’erogazione dell’indennità il proprietario può chiedere un risarcimento dei danni subiti. 5. Criticità nell’esproprio per l’alta velocità nel sud Italia Nel contesto specifico del sud Italia, l’esproprio per l’alta velocità, a mio modesto parere, incontra ulteriori complessità: a) Conflitti sociali e ambientali: le comunità locali spesso si oppongono agli espropri, percepiti come invasivi e non rispettosi del tessuto socio-economico del territorio. Alla perdita subita a seguito dell’espropriò non corrisponde per il cittadino espropriato un vantaggio equivalente alla perdita subita, e forse non corrisponde un vantaggio neppure per l’intera comunità! Con una netta sproporzione in termini di costi-benefici; b) Disparità di trattamento: si registrano differenze significative nella valutazione delle indennità espropriative rispetto al valore effettivo del bene, che possono penalizzare i proprietari. 6. Conclusioni L’esproprio per pubblica utilità finalizzata alla realizzazione dell’alta velocità nel Sud Italia rappresenta una sfida cruciale per il bilanciamento di due interessi contrapposti: interesse pubblico e tutela dei cittadini. Mentre gli strumenti stragiudiziali offrono la possibilità di negoziazione e partecipazione, la tutela giudiziale costituisce un presidio fondamentale per garantire che il procedimento espropriativo rispetti i principi di legalità, e soprattutto giusto ristoro, e al contempo permettere, in ultimo ma non per importanza, anche una tutela del territorio.
Il nuovo decreto flussi si basa su nuove normative e procedure di ingresso in conformità al decreto legge n. 145, varato lo scorso 11 ottobre, allo scopo di favorire gli ingressi regolari contrastando ogni tipo di abuso a partire dagli ingressi clandestini. Procedure e controlli del nuovo decreto flussi Il giro di vite che il governo intende imprimere nel controllo dei flussi migratori prevede alcune novità tra le quali la digitalizzazione completa delle procedure per ridurre i tempi di ottenimento del permesso di soggiorno. Inoltre, entra in vigore una speciale autorizzazione di permanenza semestrale rinnovabile per gli extracomunitari vittime di sfruttamento che collaborano con le autorità italiane per punire i responsabili. Precompilazione e requisiti Il nuovo decreto flussi punta a classificare le necessità effettive delle aziende che richiedono manodopera, quindi ha introdotto l’obbligo di presentare una domanda precompilata da sottoporre a controlli preventivi e automatizzati per scremare quelle non idonee all’accoglimento. In pratica, il datore di lavoro deve inserire nella richiesta il suo documento di identità, la visura camerale, il codice fiscale, l’ultima dichiarazione redditi, la partita IVA e il documento che attesta la sua regolarità contributiva e assicurativa (DURC). Discorso diverso per il lavoratore extracomunitario che deve invece presentare il passaporto, i suoi dati, l’indirizzo dove alloggerà, le qualifiche lavorative e il documento del suo consolato a cui richiede il visto d’ingresso in Italia. Il nuovo decreto flussi ha un respiro operativo triennale, con la previsione da parte del governo di non superare 425.000 ingressi tra il 2025 e il 2027 sulla base di limiti quantitativi che le aziende sono tenute a osservare. Nel settore specifico di colf e badanti, si prevede una quota complessiva di 10.000 persone, preposte all’assistenza di portatori di handicap e anziani, e ogni datore di lavoro non dovrebbe assumerne più di tre. Le indicazioni sulla precompilazione delle domande Il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha fornito le indicazioni sulla precompilazione delle domande che deve avvenire tra il 1° e il 30 novembre 2024. Si tratta, sostanzialmente, di modifiche introdotte al DL 145/2024 che si riassumono in una circolare congiunta con il ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste e il ministero del Turismo in merito ai flussi d’ingresso di lavoratori stranieri previsti per il prossimo anno. Il governo autorizza per il 2025 70.720 ingressi riguardanti il lavoro di tipo subordinato, che non sia ovviamente stagionale, e solo 730 lavoratori autonomi, mentre sono ammessi 110.000 lavoratori subordinati stagionali. Nel mese di novembre, la domanda di nulla osta si precompila sul portale servizi delle Autonomie Locali italiane (ALI) del ministero dell’Interno tramite autenticazione SPID o CIE e i datori di lavoro devono anche dotarsi di PEC. I passaggi successivi per la validità del decreto flussi Una volta effettuata la precompilazione, il portale del ministero dell’interno è a disposizione anche per i click day decreto flussi, previsti a febbraio 2025. In quell’occasione, si può inviare ufficialmente la domanda per ottenere il visto d’ingresso in Italia e le date previste sono il 5, 7 e 12 febbraio del prossimo anno. Un requisito molto importante per rendere operativo il decreto flussi riguarda l’obbligo del datore di lavoro di verificare entro otto giorni con i centri dell’impiego se ci sono lavoratori disponibili a collaborare che sono già presenti sul territorio italiano, prima di assumere personale straniero che risiede all’estero.
La differenza tra permesso di soggiorno e carta di soggiorno è, in realtà, molto semplice perché il primo ha sostituito la seconda in favore di chi decide di soggiornare in Italia per un lungo periodo. Alcuni tendono ancora a chiamare il permesso “carta di soggiorno” anche se, di fatto, quest’ultima non esiste più dal 2018, quindi è meglio tenere presente che i due testi legislativi sono stati varati in tempi diversi e uno al posto dell’altro per evitare confusione. La carta di soggiorno La carta di soggiorno ha visto la luce il 1°aprile 2007 per consentire agli extracomunitari di trattenersi in Italia se imparentati come familiari o coniugi a cittadini comunitari e italiani che risiedevano già sul nostro territorio. Il documento si è ispirato ai principi stabiliti dal Decreto legislativo n.30 (art. 10) del 6 febbraio 2007 che aveva stabilito anche l’assistenza per immigrati con gravi problemi di salute ma erano previsti ulteriori requisiti per soggiornare oltre tre mesi in territorio italiano. I requisiti richiesti Essere lavoratori subordinati o autonomi Avere risorse economiche minime, aggiornate ogni anno dall’Inps, e un’assicurazione sanitaria a copertura di tutti i rischi Essere iscritto presso un istituto pubblico o privato riconosciuto per chi frequenta un corso di studi o di formazione professionale. Il permesso di soggiorno Il permesso di soggiorno dell’Unione Europea lo possono richiedere gli extracomunitari che hanno già un documento valido da almeno 5 anni, occorre anche abitare in un alloggio dignitoso e lavorare come stabilisce il Decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, art. 9. Va inoltre ricordato che se gli extracomunitari rispondono ai requisiti per soggiornare a lungo, possono richiedere il permesso di soggiorno UE a tempo indeterminato che vale comunque come documento di riconoscimento per 5 anni. Tuttavia, il rilascio di questo documento dipende anche dal superamento di test che devono valutare la conoscenza della lingua italiana da parte del richiedente per evitare successive difficoltà di inserimento nella vita lavorativa e sociale. Ulteriori caratteristiche del permesso di soggiorno UE Il permesso di soggiorno UE non ha bisogno di essere rinnovato come quello ordinario e offre una gamma di servizi aggiuntivi di primaria importanza come l’assegno sociale, di invalidità oppure ricevere l’indennizzo di maternità. Gli extracomunitari in possesso di permesso di soggiorno UE partecipano anche ai concorsi pubblici e non sono espulsi a meno che non commettano reati gravi che minacciano la sicurezza del Paese ospitante. La procedura per i parenti a carico Gli immigrati extracomunitari che rispondono ai requisiti per ottenere il permesso di soggiorno Ue possono richiederlo anche per il coniuge, figli minorenni oppure per genitori e figli maggiorenni che non sono in grado di provvedere a se stessi. Gli immigrati che invece richiedono lo status di rifugiati non hanno diritto al permesso di soggiorno UE. In tutti gli altri casi, la documentazione da presentare è la seguente, a partire dalla compilazione del modulo del ministero dell’Interno: Marca da bollo da 16 euro Fotocopia passaporto Fotocopia permesso di soggiorno Fotocopia certificato di residenza e stato di famiglia da richiedere in Comune 4 foto formato tessera.
Il con(senso) informato è attuazione del diritto alla salute nella sua globalità, finalizzato a garantire l’autodeterminazione del singolo individuo in merito alla propria salute. La nozione di consenso informato si inserisce in un’ottica personalista del rapporto medico paziente e non più paternalista; una nozione che pone al centro la persona in linea con l’articolo 2 della costituzione e la sua autonomia e libertà (art.13 cost.). L’istituto del consenso informato è attuazione del principio di autodeterminazione , volto a consentire a ciascun individuo di compiere scelte consapevoli in merito alla propria salute, ed il più possibile conformi al proprio stile di vita, alle proprie convinzioni etico-sociali e alla propria cultura. Non a caso, il principio di autodeterminazione trova le sue radici nel secondo comma dell’articolo 32 della costituzione: (che disciplina il diritto alla salute) “ Nessun trattamento sanitario può essere imposto se non per disposizione di legge ”. Nessuna legge può costringere un individuo a sottoporsi a un determinato trattamento sanitario. Salvo nei casi in cui sia previsto un Trattamento Sanitario Obbligatorio, in quanto non esiste un obbligo giuridico di tutelare la propria salute. In tal senso, il consenso informato, disciplinato dalla legge 219 del 2017 (Consenso informato e direttive anticipate di trattamento) è fonte di responsabilità medica, anche penale. Alla base del consenso informato vi è un diritto riconosciuto al paziente: il diritto all'informazione . I medici sono tenuti a fornire una chiara ed esaustiva informazione ai pazienti. Informazione che deve essere adatta ad un malato concreto, con una propria esperienza e cultura. Si deve, in altre parole, instaurare un dialogo aperto e sincero. Un dialogo che permetta al paziente di porre tutte le domande che ritiene necessarie (in merito agli aspetti tecnici, strutturali e alle possibili alternative terapeutiche). Il paziente deve essere in grado di comprendere la natura del trattamento sanitario cui si sottopone, i possibili sviluppi del percorso terapeutico, nonché le eventuali terapie alternative. Da ciò, ne discende, che per un valido consenso la legge prevede determinati requisiti. E’ necessario che esso sia libero , informato , attuale e revocabile in ogni momento. Deve essere espresso nelle forme richieste dalla legge, solitamente in forma scritta. La forma verbale può essere utilizzata solo se esiste un rapporto di fiducia tra medico e paziente. Tuttavia, se si tratta di un esame clinico o di una terapia che può comportare gravi conseguenze per la salute e l’incolumità della persona, è necessaria la forma scritta, come accade ad es. nell’assunzione di un farmaco in via sperimentale. Il consenso solitamente è personale, salvo i casi di minore età o di incapacità . Nel primo caso (salvo il diritto del minore a essere informato e a esprimere anche in relazione all’età i suoi desideri) è espresso dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale, nel secondo (a seconda del tipo di incapacità) dal: tutore , curatore o amministratore di sostegno . Fatto sempre salvo, il diritto della persona incapace a essere informata. Vi sono casi in cui l’obbligo del consenso informato viene meno, come nel caso di necessità ed urgenza, nei casi di TSO o ancora di vaccinazioni obbligatorie (n.d.r solo per queste). Nel caso in cui il consenso non venga prestato vi è il rifiuto al trattamento. Un dissenso informato-consapevole. Pertanto il medico ha obbligo di non eseguire o di interrompere l’esame clinico o la terapia. Violazioni del consenso informato e responsabilità La violazione del consenso è fonte di responsabilità , anche penale dei medici, chiamati a rispondere, per aver estorto o non raccolto il consenso dei propri pazienti. Il medico e gli esercenti le professioni sanitarie per non incorrere in responsabilità devono verificare che vi sia una valida manifestazione del consenso informato da parte dei propri pazienti. Il non corretto adempimento dell’obbligo informativo, anche a fronte di un trattamento sanitario corretto ma non voluto, espone il professionista e la struttura sanitaria a eventuali richieste risarcitorie da parte del paziente, qualora a seguito di un deficit informativo subisca un pregiudizio. Oneri probatori in capo al paziente La legge impone al paziente di provare che se fosse stato in possesso di una compiuta informazione non avrebbe prestato il consenso all’intervento. Onere della prova che può essere assolto con qualsiasi mezzo, anche il notorio. Il paziente, in definitiva può chiedere il risarcimento per: omessa o insufficiente informazione in relazione a un intervento al quale, se debitamente informato, avrebbe scelto di non sottoporsi. In questo caso oltre al risarcimento per eventuali danni alla salute, sarà dovuto anche un risarcimento per la lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente; omessa o insufficiente informazione in relazione a un intervento che ha cagionato un danno alla salute senza alcuna colpa del medico, a cui il paziente, se debitamente informato , non si sarebbe sottoposto. In questo caso il paziente avrà diritto a un risarcimento per la violazione del diritto all’autodeterminazione oltre al risarcimento per il danno alla salute . omessa o incompleta attività diagnostica che, pur non avendo cagionato un danno alla salute del paziente, gli ha precluso l’accesso a più accurati accertamenti e trattamenti. In questo caso, il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione sarà risarcibile qualora il paziente dimostri che dal deficit informativo siano derivate conseguenze pregiudizievoli, sia in termini di sofferenza soggettiva che di diminuzione della propria libertà di scelta. La liquidazione del danno In merito alla liquidazione del danno , l’Osservatorio del Tribunale di Milano ha individuato 4 ipotesi: per un pregiudizio di lieve entità la liquidazione è compresa tra € 1.000 e € 4.000; per un pregiudizio di media entità si può arrivare sino a € 9.000; per un pregiudizio di grave entità si può arrivare a € 20.000; per un pregiudizio di eccezionale entità si va oltre gli € 20.000.
Cosa accade nel caso in cui mi viene rigettata la domanda di protezione internazionale? Va premesso che la domanda di protezione internazionale è espressione del diritto d’asilo, che risale addirittura al periodo medioevale. Il diritto di asilo può essere chiesto da qualsiasi cittadino straniero, che non si sente al sicuro nel proprio Paese di origine, per motivi legati alla razza, alla religione, alla nazionalità, al gruppo sociale di appartenenza, per le proprie idee politiche. Affinché la domanda venga accettata, è necessario che attuare la persecuzione non siano altri cittadini o gruppi, bensì lo Stato. È sufficiente anche la discriminazione da parte di un solo partito dello stato che controlla parte del territorio, purché lo Stato avalli la persecuzione, sia attuando azioni concrete sia non muovendosi per evitarle, quindi approvandole passivamente. Quando viene presentata la domanda di asilo, il primo elemento che viene preso in considerazione è la motivazione della persecuzione, riconducibile a uno dei casi suindicati, ma in linea generale si valuta se sono stati lesi i diritti umani della persona. Rientrano in questa categoria atti di violenza sessuale, fisica o psichica, che possono rendere la vita del rifugiato impossibile. Così come sono considerate violazioni tutte quelle norme o prescrizioni che discriminano un credo, una persona una razza o un gruppo sociale, in linea generale, ogni qualvolta vi sia una situazione in grado da ledere i diritti umani. La protezione internazionale, si affianca alla protezione umanitaria, ed è una procedura che permette allo straniero di poter accedere ad uno Stato in uno Stato diverso, compreso l’Italia. La procedura prende avvio da una domanda, alla quale segue una convocazione effettuata in un massimo di 30 giorni per poi prendere la decisione definitiva in 72 ore. Se la pratica va a buon fine si ottiene un permesso di soggiorno provvisorio per asilo, in caso contrario si va incontro a un diniego di protezione internazionale. Avverso il diniego di protezione internazionale, qualora si ritenga che il rigetto sia avvenuto per una motivazione non valida, è possibile presentare un ricorso, dinnanzi al tribunale del capoluogo di distretto di Corte di Appello, per mezzo del quale ottenere il rilascio di un valido permesso. La pratica necessità di un attendo studio della documentazione e del caso specifico del singolo richiedente, focalizzando l’attenzione anche al processo di integrazione raggiunto nel paese dal ricorrente, sin dalla prima convocazione dinnanzi alla Commissione competente, dinnanzi alla quale si procederà all’audizione del ricorrente. Di particolare importanza, è la verifica che la stessa avvenga nel rispetto dei diritti riconosciuti allo stesso nonché che la stessa si svolga secondo le tempistiche e le modalità previste dalla legge.
La responsabilità del medico e dell'esercente le professioni sanitarie è stato oggetto di una continua evoluzione normativa. Partendo dalla diatriba obbligazioni di mezzi, obbligazioni di risultato, si è cercato di individuare, nel corso del tempo, una disciplina che riuscisse da un lato a garantire una tutela effettiva al paziente dalla cd malpractice, dall'altro una tutela del medico, garantendo una evoluzione del rapporto medico paziente armonioso, tale da mettere al riparo dalla malpractice e dalla medicina difensiva . Fino al 2012 , anno di emanazione del decreto Balduzzi , la materia della responsabilità del medico era disciplinata applicando i principi generali dell’ordinamento. Il riferimento era agli artt. 2230 e seg. del c.c .. In particolare si inquadrava la responsabilità del medico nell’alveo delle norme dedicate all’esercizio dell’attività professionale e delle obbligazioni. Partendo dal presupposto che la professione medica è una professione intellettuale, al fine di circoscrivere la responsabilità del medico si invocava l’applicazione dell’articolo 2236 del c.c. ai sensi del quale: “ Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni ,se non in caso di dolo o colpa grave ”, limitando così l’attribuzione di responsabilità in capo al medico al solo dolo o alla colpa grave. Le richieste della medicina moderna Ben presto, la medicina moderna ha rilevato la fallacia di un simile sistema normativo . Nuove esigenze della medicina e lo sviluppo di una nuova considerazione di esito (la cui incertezza si è sempre meno disposti ad accertare), hanno fatto avvertire la necessità di individuare regole e linee guida che riducessero al massimo la discrezionalità del medico. Così, si è assistito ad un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale, alla luce delle nuove esigenze avvertitesi a seguito della ormai accertata complessità dell’attività medica e del suo specializzarsi; oltrechè del mutato rapporto medico-paziente in un’ottica sempre più individualista, in cui l’interesse del paziente non è solo alla conservazione delle proprie condizioni di salute ma al loro miglioramento. In tale contesto, la prestazione del medico per poter essere diligente oltre ad essere conforme agli standard scientifici propri della prestazione medica, deve adempiere anche ad una serie di obblighi accessori, la cui violazione è fonte di responsabilità , quali quelli: informativi; di controllo e di vigilanza. La dottrina e la giurisprudenza hanno dovuto elaborare concetti nuovi, mettendo in dubbio istituti, nozioni, assiomi sulle quali si era basata per anni la disciplina della responsabilità del medico. La malasanità e il ricorso alla medicina difensiva Passando dalla teoria alla pratica, nell’ambito di un contesto socio-sanitario caratterizzato dall’esplosione di casi di malasanità e dalla rincorsa alle responsabilità, da un lato si è enfatizzata la posizione di garanzia del medico nei confronti del paziente, portando alla elaborazione della teoria del contatto sociale , dall’altro si è assistito all’attuazione di pratiche di medicina difensiva attuate dal medico per difendere sé stesso contro eventuali azioni di responsabilità. Questo modo di operare, ha finito con il mettere a serio rischio la salute dei pazienti, oltrechè arrecare ingenti costi per le casse dello Stato. Basti pensare ai costi a carico del servizio sanitario nazionale per la prescrizione anche non necessaria di analisi. Finendo così, con l’allontanarsi, dall’obbiettivo prioritario di tutelare il malato: soggetto debole per antonomasia. Il decreto Balduzzi, aporie e questioni irrisolte Ben presto, si è avvertita l’esigenza di una disciplina ad hoc della responsabilità del medico, che tenesse conto della peculiarità del rapporto medico-paziente e che innovasse la disciplina della responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie pubbliche e private. Così si è giunti all’emanazione del Decreto Balduzzi (dl. 158 del 2012 convertito in l. 189/2012) , con il quale si è cercato di arginare il problema della medicina difensiva, partendo dall’assunto che l’obbligazione del medico è una obbligazione di mezzi e non di risultato . Ragion per cui, il medico ha l’obbligo di impiegare tutti i mezzi necessari e adeguati, di cui abbia o possa acquisire la disponibilità per la tutela della salute del paziente. Per meglio esercitare la sua attività dovrà attenersi alle linee guida e alla buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, attivandosi per eseguire la propria prestazione, osservando uno standard di diligenza professionale secondo il criterio generale: “ dell’homo eiusdem professionis et condicionis “. Decreto Balduzzi: responsabilità contrattuale o extracontrattuale? Tuttavia, il decreto Balduzzi, non ha avuto grande successo in merito alla disciplina della responsabilità civile, anzi ha alimentato notevolmente i dubbi e le perplessità esistenti circa l’esatta qualificazione da attribuire alla responsabilità medica. Ci si è chiesto, se la responsabilità del medico dovesse essere considerata contrattuale (come asseriva la preminente giurisprudenza) o extracontrattuale (come aveva fatto presumere il richiamo all’articolo 2043 del codice civile dall’articolo 3 del decreto 158/2012 rubricato “ Responsabilità dell’esercente le professioni sanitarie”. I primi commentatori hanno ritenuto che fosse intenzione del legislatore ricondurre la responsabilità del medico entro il regime della responsabilità aquiliana, quindi della responsabilità per fatto illecito. Una tale lettura, comportava che il medico potesse essere considerato responsabile civilmente ex art 2043, esclusivamente nei casi in cui si fosse verificata una violazione del principio del c.d. alterum non laedere . Principio che sarebbe configurabile unicamente quando: per effetto dell’intervento del sanitario, il paziente si trovasse in una posizione peggiore rispetto a quella precedente. Se, invece, il paziente non realizza il risultato positivo che si potrebbe legittimamente aspettare dalle ordinarie tecniche sanitarie, non sarebbe configurabile una responsabilità extracontrattuale del medico, per il semplice fatto che il paziente non ha subito un danno rispetto alla situazione quo ante. Il contributo della giurisprudenza e la teoria del contatto sociale Gli stessi sono stati subito smentiti dalla giurisprudenza di legittimità che è giunta ad individuare quale figura unitaria della responsabilità, quella contrattuale, sulla base dell’assunto che sebbene si dovesse distinguere tra responsabilità personale del medico e responsabilità della struttura sanitaria, la responsabilità del medico personale o operante in una struttura sanitaria pubblica o privata, doveva essere qualificata sempre come responsabilità contrattuale, sebbene si dovesse distinguere la fonte di tale responsabilità. Per quanto riguarda la responsabilità del medico, essa deriverebbe dalla posizione di garanzia che il professionista ricopre nei confronti del paziente. In poche parole, dal momento in cui il medico prende in carico il paziente, si instaura un rapporto sociale qualificato che comporta obblighi in capo al medico analoghi a quelli previsti dal contratto d’opera professionale. Obblighi che deriverebbero dal semplice contatto che si instaura tra il medico e il paziente ( Teoria del contatto sociale ). Viceversa, per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria, sia essa pubblica o privata, essa troverebbe origine nella stipula del contratto atipico di spedalità . Con l’accettazione del paziente, la struttura sanitaria si impegna a mettere a disposizione del malato non solo le prestazioni dei medici, paramedici e ausiliari, ma anche i farmaci, gli ambienti idonei e le attrezzature moderne necessarie per la terapia e la degenza. La disciplina attuale: la Legge Gelli-Bianco Il quadro normativo così delineato dalla giurisprudenza, è completamente mutato nell’aprile del 2017 con la legge Gelli-Bianco (L. n.24/2017): ” recante norme in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché’ in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie “, che ha completamente innovato il quadro normativo della responsabilità del medico, cercando di superare le aporie e le questioni irrisolte del decreto Balduzz i, prendendo una posizione chiara circa l’inquadramento sistematico della natura giuridica della responsabilità medica. Il sistema binario della responsabilità civile del medico e della struttura sanitaria Al fine porre fine all’antica diatriba responsabilità contrattuale-responsabilità extracontrattuale, l’articolo 7 della legge Gelli-Bianco introduce un sistema binario della responsabilità civile medica, che prevede un trattamento diverso dell’esercente la professione sanitaria e la struttura sanitaria sia essa pubblica o privata. La responsabilità della struttura sanitaria è disciplinata dal comma 1 dell’art.7: “La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose ”. Ai sensi del comma 3 dello stesso articolo , la disciplina della responsabilità dell’esercente le professioni sanitarie viene così regolata: “ L’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2, risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, salvo abbia agito nell’adempimento di una obbligazione contrattuale assunta con il paziente[…] ”. Dal dettato normativo dell’art. 7 emerge un doppio binario della responsabilità civile medica: l’esercente le professioni sanitarie che esercita la propria attività a qualsiasi titolo all’interno della struttura sanitaria, risponderà della propria condotta ex art. 2043; invece la struttura ospedaliera risponderà dei danni cagionati dal medico ex art. 1218, quindi a titolo di responsabilità contrattuale. Onere probatorio e termine prescrizionale alla luce delle novità introdotte con la legge Gelli Bianco Il regime binario introdotto con la legge Gelli-Bianco comporta delle notevoli differenze , sul piano dell’onere probatorio e del termine prescrizionale . Nel caso di azione di responsabilità nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, il quale risponderà a titolo di responsabilità extra contrattuale, dovrà essere il paziente a dimostrare l’intero danno subito e l’elemento soggettivo. Il paziente inoltre è obbligato a rispettare il termine prescrizionale quinquennale ex art. 2947 c.c. Viceversa, la responsabilità della struttura sanitaria, posta nell’alveo della responsabilità contrattuale, soggiace a regole diverse: in tal caso l’onere della prova è posto a carico della struttura sanitaria, dovendo, il paziente, dimostrare solamente la prova del titolo contrattuale e dell’inadempimento; inoltre il termine dell’azione sarà quello ordinario, cioè quello decennale previsto dall’art. 2046 c.c. In definitiva, salvo il caso in cui, paziente e medico abbiano stipulato uno specifico contratto ( in tal caso si applicherà la disciplina del contratto d’opera intellettuale e il medico risponderà, in caso di inadempimento, ai sensi dell’articolo 1218 del cc), la responsabilità del medico avrà natura extracontrattuale. Fermo restando che le due responsabilità (contrattuale della struttura sanitaria e aquiliana del medico) possono concorrere, secondo il principio generale desumibile dall’articolo 2055 del codice civile. Evidenti sono, in ultima istanza, gli scopi che il legislatore intende perseguire mediante una tale disciplina. Differenziare le posizioni risarcitorie della struttura sanitaria e del medico, ha come effetto quello di trasferire gran parte del rischio sulla struttura sanitaria, consentendo al medico di esercitare la propria professione con maggiore tranquillità. Così il legislatore prova a porre un argine alle condotte di medicina difensiva che rischiano di porre il malato in una posizione secondaria rispetto alla condotta del medico, preoccupato più di non subire conseguenze penali e/o civili che curare il proprio paziente. L’apertura della legge Gelli-Bianco alle ADR ” Alternative dispute resolution” e la riduzione del contenzioso L’obbiettivo prioritario della Gelli-Bianco è la riduzione del contenzioso da responsabilità medica prevedendo la sostenibilità del sistema attraverso strumenti assicurativi. Infatti, tra le novità più significative sono annoverabili l’obbligo di assicurazione sia per il professionista che per la struttura (articolo 10), la previsione della possibilità per il danneggiato di agire direttamente nei confronti dell’assicuratore ( articolo 12) e l’istituzione di un fondo di garanzia nel caso di superamento del massimale ( articolo 14). Inoltre, dal punto di vista processuale, proprio al fine di ridurre il numero dei contenziosi per malasanità, l’articolo 8 della legge Gelli-Bianco prevede, quale condizione di procedibilità della domanda di risarcimento, l’espletamento della consulenza tecnica preventiva , in funzione conciliativa, di cui all’articolo 696 bis c.p.c, al quale sono obbligate a partecipare tutte le parti, ivi incluse le imprese di assicurazione coinvolte. Alternativamente alla consulenza tecnica preventiva, potrà essere esperito il procedimento di mediazione, ai sensi del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28. Questo permette di evitare i costi del processo e di ridurre i tempi della trattazione e della decisione della controversia.
Nicoletta Genovese
C/da Vignale N.12
Rivello (PZ)
Il portale giuridico al servizio del cittadino ed in linea con il codice deontologico forense.
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