Pubblicazione legale
Faber est suae quisque fortunae e le responsabilità del sanitario
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Faber est
suae quisque fortunae e
le responsabilità del sanitario Né Appio Claudio Cieco, né
qualche tempo più tardi Giordano Bruno – in una visione di contrapposizione
dell'uomo romano e rinascimentale all'idea del fato – potevano immaginare che
pur, essendo Vai a: navigazione , cerca ”ciascuno artefice
della propria sorte ", l’individuo (sanitario) potesse concentrare attorno
a se tante, e variegate, responsabilità nel caso si fosse profuso
nell’esercizio della professione medica. L’ overture del
mio intervento (a “ La prescrizione degli Antipsicotici Atipici nel mondo
reale” , Palermo 30.10.2012 ),
rischiava di segnarmi d’antipatia: mi pregiai di essere sinceramente solidale
con la categoria; mi parve di esser sfacciato, poi, allorquando mi tacciai
(quale appartenente alla classe forense) di miglior sorte per non essere
coinvolto (o facilmente coinvolgibile) in procedimenti giudiziari (civili o
penali) giudiziari, quanto piuttosto lo fosse il medico. Eloquenti le rilevazioni statistiche: l’Osservatorio presso
l’Università di Napoli in materia di responsabilità civile, ha rilevato che, nell’oltre
il 70% dei casi segnalati, è stata riconosciuta la responsabilità del
professionista; quasi il 50% delle azioni giudiziarie risarcitorie viene
trattato in sede penale, il 36% in sede civile e il 14% in via stragiudiziale. Meno emozionato, quivi ribadisco: malgrado un numero
imprecisato di quotidiani orrori giudiziari (a cura di disinvolti colleghi), i
citati dati statistici sembrerebbero dipingere una inadeguata classe medica in
favore di una più professionale classe forense. Niente di più ingannevole. La spiegazione e semplice (e
cinica). L’incremento delle azioni giudiziarie si spiega con la
maggior garanzia risarcitoria che l’ente pubblico (o privato) alle spalle del
medico sembra assicurare; quanto al maggior ricorso alla sede penale, esso si
spiega con la corsia preferenziale accordata a tali procedimenti che, di fatto,
garantiscono risultati in tempi relativamente accettabili (2/3 anni per un
condannatorio, a fronte dei 6/7 con procedure civilistiche). Ciò posto, esigenze
di sintesi inducono a cristallizzare le tipologia di responsabilità e i
concetti giuridici ad esse sottesi. La responsabilità
può essere di tipo penale : il fatto ipotizzato dalla norma consiste in
una condotta o in un evento detto reato, che produce, in capo a determinati
organi dello Stato, il dovere di comminare, ai soggetti cui condotta od evento
sono attribuiti, le sanzioni, dette pene (ammenda e arresto per le
contravvenzione; multa, reclusione od ergastolo per i delitti); ovvero non–penale :
da cui deriva la costituzione - a carico dei soggetti autori di condotte od
eventi, o che si trovano in determinate situazioni, non necessariamente autore
di tali fatti - del dovere di compiere prestazioni di dare o di fare o
altre conseguenze negative, diverse dalle sanzioni penali. Il termine “non
penale” vuole in linea di massima comprendere la 1) responsabilità civile da
fatto illecito, 2) la responsabilità contrattuale, 3) quella amministrativa
e contabile dell’investito di pubbliche funzioni. Quanto alla responsabilità penale, essa si
caratterizza per un’immediata peculiarità: è squisitamente personale ,
nel senso che può riguardare solo la persona fisica effettivamente autrice
della condotta commissiva od omissiva punita in quanto tale o perché causa
dell’evento previsto come reato. La responsabilità civile, che non è
strettamente personale e ha, quale conseguenza più rilevante, l’obbligo di
risarcire il danno, può definirsi contrattuale , dunque a seguito di
violazioni di obblighi scaturenti da un accordo contrattuale, extra-contrattuale ,
ossia direttamente ancorabile all’art. 2043 c.c., secondo cui “ Qualunque fatto doloso o colposo arrechi
ad altri un danno ingiusto, obbliga chi ha commesso il fatto, a risarcire il
danno ”. A partire dagli anni ’70 si è
verificato un progressivo incremento delle azioni giudiziarie dei
paziente nei confronti dei medici, a cui ha fatto seguito una crescente
tendenza della giurisprudenza a considerare nuove fattispecie di danno
riconducibili a malpractice da parte dei professionisti sanitari.L’area
della responsabilità professionale del medico si è quindi sensibilmente estesa,
con un conseguente aumento del rischio professionale e del ricorso alla
copertura assicurativa da parte del professionista. In questo contesto, tuttavia, a
fronte dell’aumento dell’entità dei risarcimenti liquidati, le imprese di
assicurazione hanno aumentato i premi, o hanno addirittura rinunciato ad
operare nel mercato (nel corso degli ultimi 10 anni sono aumentate del 184% le
denunce per errori medici, attestandosi a 150.000 all’anno; contestualmente, i
premi per la responsabilità civile delle strutture sanitarie hanno subito un
incremento del 121%). Scattato l’allarme, si è cercato
di correre ai ripari importando dagli Stati Uniti il concetto di “medicina
difensiva”, per cui, a seguito di diversi casi di malpractice , con
conseguente proliferazione del numero delle denunce da parte dei pazienti nei
confronti delle strutture sanitarie e/o del singolo medico, il
professionista medico è portato ad adottare delle scelte diagnostico-terapeutiche
finalizzate non tanto alla erogazione della migliore prestazione
sanitaria , quanto alla riduzione delle possibili cause di denunce e,
quindi, dei contenziosi giudiziari . Spesso gli specialisti per
eccesso di zelo prescrivono farmaci in modo inappropriato , oppure procedure
diagnostiche a volte inutil i, oppure preferiscono interventi da
realizzarsi con strumentazioni tecnologicamente non avanzate (poiché meno
costose) E, secondo il nemico da evitare,
si distinguono due tipologie di Medicina Difensiva a): da paziente , a
sua volta sottoclassificata in “assicurativa/rassicurativa” - che
consiste nel prescrivere farmaci o procedure di valore marginale al fine di
ridurre il rischio di una denuncia, e comunque di evitare eventi avversi –
nonchè (probabilmente, sacrificando gli antichi impegni presi con Ippocrate) “ di
evitamento ”, che consiste nell’evitare i pazienti difficili o le situazioni
di rischio; b) da Ente: il medico è sempre più esposto ad un rischio nuovo, che
in gran parte prescinde dalle eventuali conseguenze negative delle scelte
terapeutiche nei confronti del malato. In particolare è sempre più
concreta la possibilità che un comportamento professionale appropriato per il
paziente, possa originare un rischio per il medico in ragione del costo che
determina a carico del SSN , determinando così una responsabilità di tipo
“erariale” a carico del medico . Si è profilato, dunque, una
responsabilità del medico per danno erariale, cui è seguita una
giurisprudenza punitiva ( Sent. n. 275/E.L./04 la Corte dei Contim Sez.
Guurisd. Umbria, condanna due medici di medicina generale per ‘iperprescrizione’ di
farmaci . Nell’occasione la Corte
ha chiarito che “…secondo i normali criteri del buon senso comune, non
risponde ad alcun criterio di utilità reale e concreta prescrivere ulteriori dosi dello stesso farmaco che vanno oltre la
possibile consumabilità in base alle prescrizioni contenute nelle
schede del Ministero della Salute , per cui -
quando si è in presenza di iperprescrittività di un farmaco - si
verifica o uno “spreco tout court” (per
non uso) ovvero uno “spreco per uso improprio” (come nel
caso di utilizzazione per un valore
terapeutico minore rispetto a
quello per il quale il farmaco in questione è stato prodotto[ omissis ] )”;
nonché, per certi aspetti, persino qualche battuta di caccia alle streghe
( nel Marzo 2006 la Guardia di Finanza ha
denunciato alla Corte dei Conti oltre 560 MMG lombardi per presunta
iperprescrizione di farmaci, ipotizzando un danno per il SSN di oltre 25
Milioni di Euro tra il 2002-2004) . In un contesto così complesso e articolato il medico può
essere esposto a due tipologie di rischi contrapposti. L’azione legale per
responsabilità professionale nel caso in cui egli compia una scelta più
conservativa per il SSN e di cui il paziente in un secondo momento si possa
dolere. L’azione legale per
responsabilità erariale , in caso di scelta più cautelativa per il paziente
e di cui il SSN si possa dolere. Tra il martello del paziente e
l’incudine del SSN come può il medico minimizzare il proprio rischio? La soluzione potrebbe arrivare da un sapiente
bilanciamento di ingredienti che mirino all’ appropriatezza prescrittiva ,
da un lato e sulla pianificazione di strumenti organizzativi finalizzati
al contenimento e alla gestione del rischio clinico, dall’altro Lo scenario normativo e
regolatorio (nazionale e regionale), purtroppo non è caratterizzato da
semplicità. Punto di partenza è sicuramente l’art.
3 del d.l. 23/1998, convertito nella l. 94/1998 (osservanza delle
indicazioni terapeutiche autorizzate) , a mente del quale “..Fatto salvo il
disposto dei commi 2 e 3, il medico
nel prescrivere una specialità medicinale o altro medicinale prodotto
industrialmente, si attiene alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle
modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in
commercio rilasciata dal Ministero della Sanità.”. In linea di massima, l’attività
curativa attraverso il farmaco può reputarsi giuridicamente appropriata, e
quindi pienamente legittima , soltanto qualora il medicinale sia stato preventivamente
autorizzato in sede ministeriale , per le medesime modalità di
somministrazione, dosaggi o indicazioni terapeutiche per le quali è
effettivamente prescritto al paziente, così come l’ammissione del farmaco all’interno
del regime di rimborsabilità stabilito dall’AIFA può avvenire soltanto in
relazione alle modalità di somministrazione, dosaggi o indicazioni terapeutiche
per le quali si sia rilevato un comprovato beneficio in un numero
statisticamente significativo di destinatari, per patologie di rilevante
interesse sociale, secondo criteri di evidenza scientifica. In sintesi, l ’appropriatezza
prescrittiva costituisce il presupposto sul quale il medico fonda la
correttezza delle proprie scelte farmacologiche, limitando il rischio di
responsabilità professionale ed erariale per : a) utilizzo del farmaco
inappropriato; b) abuso del farmaco appropriato; c) non uso del farmaco
appropriato e, infine, d) uso appropriato del farmaco non autorizzato, ma senza
gli adempimenti previsti per l’uso off label Intanto va ricordato come,
qualora il medicinale venga prescritto al paziente non per le
medesime indicazioni, modalità di somministrazione e dosaggi per i quali sia
stato preventivamente autorizzato in sede ministeriale, sarà esclusa
l’ammissione del farmaco dal regime di rimborsabilità da parte del SSN. Il
farmaco pertanto diventa a carico del paziente. La norme di riferimento in
materia di utilizzo dei farmaci off label sono sintetizzate nel
combinato disposto di cui agli artt. 3, comma 2, del decreto-legge 17
febbraio 1998, n. 23 , convertito, con modificazioni, dalla legge 8
aprile 1998, n. 94, e 1, comma 796
lett.z) l.296/2006 , a mente del quale la prima norma – cioè la disposizione
di cui all‘articolo 3, comma 2, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23
(prassi off label) - non è applicabile al ricorso a terapie farmacologiche a
carico del Servizio sanitario nazionale, che, nell'ambito dei presìdi
ospedalieri o di altre strutture e interventi sanitari, assuma carattere
diffuso e sistematico e si configuri, al di fuori delle condizioni di
autorizzazione all'immissione in commercio, quale alternativa terapeutica
rivolta a pazienti portatori di patologie per le quali risultino autorizzati
farmaci recanti specifica indicazione al trattamento. Il ricorso a tali terapie
è consentito solo nell'ambito delle sperimentazioni cliniche dei medicinali di
cui al decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 211 , e successive
modificazioni. In caso di ricorso improprio si applicano le disposizioni di cui
all‘ articolo 3, commi 4 e 5, del citato decreto-legge 17 febbraio
1998, n. 23 , cioè il medico che
viene sottoposto a procedimento disciplinare , In definitiva il bilancio sulla
pratica del “ off label ” è inesorabilmente magro: invero, la disciplina normativa
è – forse troppo prudenzialmente – restrittiva, anche perché inevitabilmente
inspirata a criteri e obiettivi economici, e in ultima analisi risente
della difficoltà di individuare il corretto punto di equilibrio tra innovazione
terapeutica e necessità di verifica regolatoria. Quanto alla repressione di estrose
sperimentazioni, la giurisprudenza sembra essersi inspirata a rigorosi criteri
che portano alla configurazione, ora del dolo, ora ella colpa ( 1 -
In una fattispecie relativa alla prescrizione di un antiepilettico per favorire
il dimagrimento di un adolescente, a fronte dei gravi disturbi determinatisi,
nel gennaio 2006, il Tribunale di Pistoia ha ravvisato il reato di lesioni
aggravate dolos e: l’uso off-label, “in astratto ammissibile”, è stato però
rilevato del tutto inappropriato nel caso concreto perché: alla madre della
bambina non erano state date adeguate informazioni; erano disponibili altre
terapie; non sussistevano pubblicazioni per suffragare l’uso off-label; la dose
iniziale era comunque eccessiva; non erano stati effettuati i necessari
controlli sui possibili effetti collaterali. 2 - Dopo che una Corte d’Appello della Repubblica aveva escluso il dolo
del medico, nel novembre 2008 la Corte di Cassazione ha confermato l’esistenza
di un comportamento colposo , da individuare: nella mancata verifica della
correttezza della prescrizione iniziale, pur a fronte di taluni eventi avversi,
ma ha ritenuto che: la finalità curativa escludesse il dolo; l’esistenza di
alcune pubblicazioni sostenesse in parte l’uso off-label, senza configurarlo
come “sperimentazione pura”; la mancanza di consenso informato non avesse
influito sulla colpevolezza per lesioni. 3
- Nell’Aprile 2008, la Corte di Cassazione ha stabilito che si può rilevare la
fattispecie di omicidio colposo, con colpa medica commissiva , qualora
venga prescritto un farmaco altamente tossico senza un’attenta valutazione e
comparazione del rischio/beneficio, e con colpa medica per omissione , in
caso di mancato controllo delle condizioni del paziente, nel corso della cura
(nel caso concreto era stato prescritto ad un’adolescente affetta da ovaio
policistico con alterazioni estetiche un farmaco per la cura delle neoplasie
della prostata). Legittime esigenze di
sperimentazione devono, comunque, essere blindate dalla “polizza” del consenso
informato. La condivisione dell’approccio
terapeutico, soprattutto in circostanze che esulano dalla prassi consolidata
(ad es., prescrizione off-label),
richiede l’acquisizione del consenso informato da parte del paziente. Fa bene – alla singola coscienza,
e alla responsabilità del sanitario –
condividere la consepovolezza dei rischi connaturati ad un salto nel vuoto. Dunque, chi mi legge sa bene che è
necessario fornire al paziente la più idonea informazione , commisurata
alle capacità di comprensione del paziente per promuovere la massima adesione
alle diverse opzioni : diagnosi, prognosi, eventuali prospettive,
alternative diagnostico-terapeutiche, prevedibili conseguenze delle scelte
operate. E, il risultato del colloquio,
deve fornire un consenso personale : (niente mogli e/o figli), in
forma espressa , (niente
comportamenti concludenti), dall’avente diritto, maggiore di età,
capace di intendere e di volere (c.d. diritto personalissimo). Ma deve essere anche preventivo
- prestato, dunque, prima dell’atto medico - specifico - rispetto al
trattamento medico cui si riferisce - consapevole – dunque, basato su
una completa e preventiva informazione – gratuito, libero - non viziato
da errore (se dall’informazione derivi una travisazione al punto che se avesse
compreso l’informativa non avrebbe dato il consenso), dolo (artifizi o raggiri del sanitario) o violenza
– attuale – perdurante per tutta la durata del trattamento medico. Recenti sentenze in materia di
consenso informato ( Cassazione Penale, marzo
2008 ), sottolineano come il consenso
eventualmente invalido, perché non consapevolmente prestato, non può di per
sé importare l’addebito a titolo di dolo . – dunque configurare
sempre, dall’intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso
prestato in modo invalido , la responsabilità a titolo di omicidio
preterintenzionale , in caso di esito letale, ovvero a titolo di lesioni
volontarie ., ma il comportamento abusivo rileverà, comunque, sotto il
profilo della colpa; ovvero, come il la responsabilità da consenso invalido
possa essere scriminata ( Cassazione Sezioni
Unite, dicembre 2008 ): ove il
medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello
in relazione al quale era stato prestato il consenso informato , e tale
intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle “ leges artis ”,
si sia concluso con esito fausto, con miglioramento delle condizioni di salute,
e senza che ci fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo,
tale condotta è priva di rilevanza penale, sia rispetto alla fattispecie della
lesione personale, che della violenza privata. In conclusione, allora, si può affermare che – sotto il profilo giuridico
– il medico può mitigare il proprio rischio professionale quando riesce a
conciliare gli interessi del paziente e del SSN, attraverso un
comportamento che può essere definito
“appropriato” sulla base di criteri regolatori e legali. Tuttavia, in taluni
casi, la necessità di contenere la spesa sanitaria (diagnostica, farmaceutica,
etc.) potrebbe comportare una divaricazione tra i precetti normativi nazionali
e regionali e l’esigenza di garantire al
paziente il migliore trattamento terapeutico. In questo caso, il comportamento secondo scienza e coscienza continua
a rappresentare il principale criterio guida per il medico. D’altra parte, l’osservanza di protocolli che indirizzino le scelte
terapeutiche nei casi particolarmente difficili può garantire un valido
supporto per il medico, consentendo di individuare quali misure “codificate”
seguire nei casi critici previamente catalogati: si determina così una linea di
comportamento omogenea, che costituisce espressione di diligenza e perizia
professionale, con conseguente riduzione dei contenziosi per malpractice e per responsabilità
erariale . Avv. Pierfrancesco Buttafuoco