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Il socio di s.r.l può essere anche dipendente?

Scritto da: Riccardo Ventura - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

Con riferimento alla possibilità per un medesimo soggetto di rivestire contestualmente la qualifica di socio e quella di dipendente di una s.r.l. si fa presente che tale ipotesi è ammessa dalla giurisprudenza in materia. Per far sì che venga a configurarsi un effettivo rapporto di lavoro subordinato è necessario che tra il datore di lavoro ed il dipendente si instauri un vincolo di subordinazione in forza del quale al primo è attribuito il potere organizzativo e disciplinare caratterizzato dall'emanazione di ordini specifici oltre che dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e di controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative del secondo (Tribunale di Firenze 21 gennaio 2016).

In conformità al citato principio deve escludersi la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato in tutti quei casi in cui la figura amministrativa della s.r.l. (ossia il datore di lavoro) coincida con quella del dipendente, per esempio nel caso di una società in cui l’amministratore unico sia anche socio e dipendente della medesima non venendo ad esistenza il vincolo di subordinazione. Diversamente, qualora il socio non rivesta cariche amministrative lo stesso può anche rivestire la qualifica di dipendente essendo sottoposto al potere direttivo dell’amministratore della società. Oltre a queste casistiche per così dire pacifiche è inoltre opportuno ricordare come vi siano alcuni precedenti giurisprudenziali in cui viene ammesso che il socio-dipendente sia anche membro del consiglio di amministrazione purché le attribuzioni amministrative del medesimo siano ben delimitate senza possibilità di interferire nella gestione di quel poter direttivo/disciplinare tipico del datore di lavoro. In altri termini, dovrà essere documentata in concreto la subordinazione del socio-dipendente-amministratore rispetto all’organo amministrativo che sarà per forza di cose collegiale e non unipersonale. Per tali ragioni sarebbe opportuno evitare che il socio-dipendente della s.r.l. rivesta anche la qualifica di amministratore (ipotizziamo membro del C.d.a.) in quanto potrebbe verificarsi un concreto pericolo di accertamento ispettivo da parte della preposta autorità, a meno che non vi siano delle specifiche deleghe limitative dei poteri in modo che la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro siano ricollegabili ad una volontà della società distinta da quella del singolo amministratore. 

E' inoltre utile esaminare anche le conseguenze di eventuali dimissioni del dipendente/recesso del socio. Infatti, durante la vita della società, un dipendente potrebbe rassegnare le proprie dimissioni oppure essere licenziato per vari motivi. In tali casi, senza la specifica previsione di clausole statutarie, si determinerebbe una situazione paradossale nella quale l’ex dipendente (licenziato o dimesso) abbia ancora la titolarità di una quota di partecipazione nella società e possa comunque accedere a tutte quelle informazioni sociali a cui ogni socio ha diritto ad accedervi, con potenziale danno alla segretezza di informazioni riservate e strategiche per l’attività sociale; oltre al fatto che avrebbe diritto alla quota di utili allo stesso spettanti.
Per evitare tale complicata situazione sarebbe opportuno prevedere già nello statuto sociale delle clausole che rendano obbligatoria per il dipendente la dismissione della propria quota di partecipazione, in modo da coordinare sia gli aspetti legati al rapporto di lavoro sia quelli relativi al rapporto sociale. Sul punto si richiama la recente sentenza della Corte d’Appello di Torino del 30 giugno 2021, nella quale è stata esaminata la validità di una clausola di “riscatto” della quota di partecipazione del socio-dipendente nel caso di interruzione del rapporto di lavoro. Tali clausole possono riguardare sia il socio-dipendente sia l’amministratore-dipendente e si possono suddividere in due macro categorie a seconda dell’effettiva causa che sta alla base dell’interruzione del rapporto di lavoro: il c.d. "good-leaver": per il dipendente, il licenziamento giustificato da motivi di carattere oggettivo o ingiustificato, le dimissioni per giusta causa, oltre alla risoluzione consensuale del rapporto, morte o invalidità permanente il cui avverarsi lascia immutato il diritto a conservare le partecipazioni sociali rivenienti dal loro esercizio in capo all'ex-dipendente (o amministratore); e il c.d. "bad-leaver" ("cattivo-partente"): es., con riferimento al dipendente, il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, nonché le dimissioni volontarie il cui accadimento determina la decadenza dei diritti connessi alle partecipazioni sociali. Sarà opportuno prevedere nel testo dello statuto sociale clausole di questo tenore al fine di meglio disciplinare tuttei vari scenari verificabili durante la vita della società.



Avv. Riccardo Ventura - Avvocato a Crema e Treviglio

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Riccardo Ventura

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Referenze

Pubblicazione legale

Dichiarazione di successione ed accettazione tacita di eredità

Pubblicato su IUSTLAB

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21006/2021 ribadisce il principio secondo il quale il chiamato all'eredità non risponde dei debiti (tributari) se abbia appositamente rinunciato all'eredità ad esso devoluta, nemmeno per il periodo intercorrente tra la la presentazione della dichiarazione di successione e l'atto di rinuncia. Prima di esaminare l'iter giuridico seguito dalla Suprema Corte è utile richiamare sinteticamente gli aspetti salienti della rinuncia all'eredità. Tale istituto è ricompreso nei negozi giuridici unilaterali non recettizi e consente al chiamato all'eredità di manifestare la propria volontà di non acquisire l'eredità ad esso spettante. Trattasi di un negozio solenne per il quale è prevista ad substantiam la forma dell'atto pubblico, non potendo lo stesso rivestire la forma della scrittura privata autenticata. A fini pubblicitari, per rendere edotti i terzi della rinunzia all'eredità, la medesima deve essere inserita nel registro delle successioni, rendendola così opponibile ai terzi. Con riferimento al termine prescrizionale del diritto a rinunciare all'eredità si fa presente che vale lo stesso termine decennale previsto per l'accettazione di eredità, precisando che detto termine può subire modifiche per esempio nel caso in cui sia proposta un'actio interrogatoria da parte del creditore particolare del defunto, oppure nel caso in cui il chiamato sia nel possesso dei beni ereditari è necessario che lo stesso copia nel termine di tre mesi l'inventario o pur avendolo compiuto non dichiari di accettare l'eredità con beneficio di inventario nei quaranta giorni successivi; in quest'ultimo caso l'erede sarà considerato puro e semplice (art. 485); con la conseguenza che il chiamato dunque, divenuto erede, non può più dichiarare di voler rinunziare all'eredità. Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dall'agenzia delle entrate con il quale si insisteva per il recupero di Ires, Irap e Iva relative all'attività imprenditoriale del de cuius svolta nell'anno 2005. L'Agenzia sosteneva che il chiamato all'eredità, che non abbia accettato e che vi rinuncia, potesse essere considerato titolare della soggettività passiva rispetto ai debiti del de cuius. Tuttavia la Cassazione ha sancito il principio di diritto condiviso in modo unanime dalla giurisprudenza secondo cui: “ Il chiamato all'eredità, che abbia ad essa validamente rinunciato, non risponde nemmeno dei debiti tributari del "de cuius", neppure per il tempo intercorrente tra l'apertura della successione e la relativa rinuncia, nemmeno se i chiamati all'eredità abbiano presentato la denuncia di successione - che non costituisce accettazione-, in quanto, avendo la rinuncia effetto retroattivo ex art. 521 c.c., egli è considerato come mai chiamato alla successione e non deve più essere annoverato tra i successibili ”.

Titolo professionale

Corso di Specializzazione in diritto successorio

Ordine degli Avvocati di Cremona - 1/2021

Ho acquisito nuove competenze in materia successoria sia in tema di impugnazioni testamentarie sia in tema di successione legittima e divisioni ereditarie.

Pubblicazione legale

Il pagamento di un debito ereditario comporta accettazione di eredità?

Pubblicato su IUSTLAB

Accettazione tacita di eredità e debiti del defunto Quando un soggetto muore si apre la successione ereditaria, sia essa legittima o testamentaria, in forza della quale il patrimonio ereditario, se esistente, si trasferisce agli eredi legittimi o testamentari. In ogni caso per poter assumere la qualifica di erede è necessario da parte del soggetto chiamato una manifestazione di volontà in tal senso. Tale manifestazione può essere espressa, per esempio mediante una dichiarazione resa in atto pubblico alla presenza di un Notaio, oppure tacita, attraverso un comportamento che implica la volontà di accettare il lascito ereditario. L'art. 476 c.c. prevede che “l'accettazione è tacita di eredità quando il chiamato compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella sua qualità di erede”. Quali comportamenti implicano accettazione tacita di eredità? I tribunali sono spesso chiamati ad accertare l'avvenuta accettazione (tacita) di eredità soprattutto nel caso in cui il de cuius abbia lasciato delle passività per le quali i creditori intendono rivalersi sull'erede del medesimo. E' di particolare importanza distinguere gli atti/comportamenti che determinano l'accettazione tacita di eredità da quelli che, invece, non configurano accettazione. In particolare, secondo la giurisprudenza si ha accettazione tacita di eredita ogni volta in cui vengono esperite azioni volte al reclamo o alla tutela dei beni ereditari, oppure nel caso di incasso dell'assegno intestato al de cuius, o ancora quando si ha una voltura catastale da parte del chiamato. Diversamente, non implicano accettazione tacita di eredità i seguenti atti: il pagamento delle spese funerarie del defunto, la presentazione della denuncia di successione con il relativo pagamento delle imposte di successione, attività conservative sui beni ereditarie. Il pagamento di un debito ereditario implica accettazione tacita di eredità? Dipende. Il pagamento di un debito ereditario non è detto che comporti accettazione tacita di eredità. E' necessario, tuttavia, affinché non vi sia accettazione che l'estinzione del debito avvenga con fondi propri del chiamato, senza intaccare il patrimonio ereditario. Di recente anche la Cassazione ha avvallato tale impostazione: nello specifico il chiamato all'eredità aveva pagato un solo verbale di accertamento dei numerosi emessi per violazione di norme del codice della strada nei confronti del defunto, e su tale presupposto il Comune di Roma riteneva vi fosse accettazione tacita di eredità in capo al chiamato. Tuttavia la Corte ha rigettato il ricorso presentato alla pubblica amministrazione stabilendo che: “ Per aversi accettazione tacita dell'eredità non basta che un atto sia compiuto dal chiamato all'eredità con l'implicita volontà di accettarla, ma è necessario, altresì, che si tratti di un atto che egli non avrebbe diritto di porre in essere se non nella qualità di erede. Il pagamento di un debito del de cuius, che il chiamato all'eredità effettui con denaro proprio, non è un atto dispositivo e comunque suscettibile di menomare la consistenza dell'asse ereditario, cioè tale che solo l'erede abbia diritto di compiere. In esso, pertanto, difetta il secondo dei suddetti requisiti, richiesti in via cumulativa enon disgiuntiva per l'accettazione tacita ." (Cass. Civ. 30 settembre 2020, n. 20878).

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