Mi chiamo Riccardo Ventura, sono specializzato prevalentemente in diritto civile, commerciale e diritto successorio. Ogni pratica è svolta con la massima professionalità e serietà, dedicando il tempo necessario allo studio della controversia in modo da offrire al cliente un servizio completo e puntuale. Opero prevalentemente in provincia di Cremona, Lodi, Bergamo, Brescia e Milano. Sono iscritto alle liste del Gratuito Patrocinio.
Nel corso degli anni mi sono specializzato nella materia successoria frequentando corsi di specializzazione nonché assistendo diverse clienti in tale ambito. In particolare, offro assistenza legale per impugnazioni di testamento, divisioni giudiziali, azioni di riduzione nonché attività di consulenza in generale.
Offro assistenza sia giudiziale che stragiudiziale in materia di diritto commerciale (costituzioni di società di persone o di capitali, cessioni di azienda, trasferimenti di partecipazioni, operazioni straordinarie) nonché in tutte le fasi patologiche del rapporto societario (recesso, esclusione, ecc.) garantendo inoltre una consulenza trasversale con altri professionisti quali commercialisti e notai.
Sono iscritto alle liste del gratuito patrocinio potendo pertanto offrire assistenza legale a soggetti che soddisfano i requisiti stabiliti di volta in volta da Legislatore, in particolare per l'anno 2021 il limite di reddito è pari ad euro 11.746,68 e potrà, quindi, essere ammesso al gratuito patrocinio chi ha percepito un reddito imponibile ai fini delle imposte sui redditi, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a questo importo, tenendo conto tutti i componenti del nucleo familiare. In caso di prima consulenza gratuita verranno analizzati i requisiti previsti dalla normativa attuale per l'ammissione al GP.
Pignoramento, Diritto civile, Diritto immobiliare, Recupero crediti, Diritto condominiale, Domiciliazioni.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21006/2021 ribadisce il principio secondo il quale il chiamato all'eredità non risponde dei debiti (tributari) se abbia appositamente rinunciato all'eredità ad esso devoluta, nemmeno per il periodo intercorrente tra la la presentazione della dichiarazione di successione e l'atto di rinuncia. Prima di esaminare l'iter giuridico seguito dalla Suprema Corte è utile richiamare sinteticamente gli aspetti salienti della rinuncia all'eredità. Tale istituto è ricompreso nei negozi giuridici unilaterali non recettizi e consente al chiamato all'eredità di manifestare la propria volontà di non acquisire l'eredità ad esso spettante. Trattasi di un negozio solenne per il quale è prevista ad substantiam la forma dell'atto pubblico, non potendo lo stesso rivestire la forma della scrittura privata autenticata. A fini pubblicitari, per rendere edotti i terzi della rinunzia all'eredità, la medesima deve essere inserita nel registro delle successioni, rendendola così opponibile ai terzi. Con riferimento al termine prescrizionale del diritto a rinunciare all'eredità si fa presente che vale lo stesso termine decennale previsto per l'accettazione di eredità, precisando che detto termine può subire modifiche per esempio nel caso in cui sia proposta un'actio interrogatoria da parte del creditore particolare del defunto, oppure nel caso in cui il chiamato sia nel possesso dei beni ereditari è necessario che lo stesso copia nel termine di tre mesi l'inventario o pur avendolo compiuto non dichiari di accettare l'eredità con beneficio di inventario nei quaranta giorni successivi; in quest'ultimo caso l'erede sarà considerato puro e semplice (art. 485); con la conseguenza che il chiamato dunque, divenuto erede, non può più dichiarare di voler rinunziare all'eredità. Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dall'agenzia delle entrate con il quale si insisteva per il recupero di Ires, Irap e Iva relative all'attività imprenditoriale del de cuius svolta nell'anno 2005. L'Agenzia sosteneva che il chiamato all'eredità, che non abbia accettato e che vi rinuncia, potesse essere considerato titolare della soggettività passiva rispetto ai debiti del de cuius. Tuttavia la Cassazione ha sancito il principio di diritto condiviso in modo unanime dalla giurisprudenza secondo cui: “ Il chiamato all'eredità, che abbia ad essa validamente rinunciato, non risponde nemmeno dei debiti tributari del "de cuius", neppure per il tempo intercorrente tra l'apertura della successione e la relativa rinuncia, nemmeno se i chiamati all'eredità abbiano presentato la denuncia di successione - che non costituisce accettazione-, in quanto, avendo la rinuncia effetto retroattivo ex art. 521 c.c., egli è considerato come mai chiamato alla successione e non deve più essere annoverato tra i successibili ”.
Ho acquisito nuove competenze in materia successoria sia in tema di impugnazioni testamentarie sia in tema di successione legittima e divisioni ereditarie.
Accettazione tacita di eredità e debiti del defunto Quando un soggetto muore si apre la successione ereditaria, sia essa legittima o testamentaria, in forza della quale il patrimonio ereditario, se esistente, si trasferisce agli eredi legittimi o testamentari. In ogni caso per poter assumere la qualifica di erede è necessario da parte del soggetto chiamato una manifestazione di volontà in tal senso. Tale manifestazione può essere espressa, per esempio mediante una dichiarazione resa in atto pubblico alla presenza di un Notaio, oppure tacita, attraverso un comportamento che implica la volontà di accettare il lascito ereditario. L'art. 476 c.c. prevede che “l'accettazione è tacita di eredità quando il chiamato compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella sua qualità di erede”. Quali comportamenti implicano accettazione tacita di eredità? I tribunali sono spesso chiamati ad accertare l'avvenuta accettazione (tacita) di eredità soprattutto nel caso in cui il de cuius abbia lasciato delle passività per le quali i creditori intendono rivalersi sull'erede del medesimo. E' di particolare importanza distinguere gli atti/comportamenti che determinano l'accettazione tacita di eredità da quelli che, invece, non configurano accettazione. In particolare, secondo la giurisprudenza si ha accettazione tacita di eredita ogni volta in cui vengono esperite azioni volte al reclamo o alla tutela dei beni ereditari, oppure nel caso di incasso dell'assegno intestato al de cuius, o ancora quando si ha una voltura catastale da parte del chiamato. Diversamente, non implicano accettazione tacita di eredità i seguenti atti: il pagamento delle spese funerarie del defunto, la presentazione della denuncia di successione con il relativo pagamento delle imposte di successione, attività conservative sui beni ereditarie. Il pagamento di un debito ereditario implica accettazione tacita di eredità? Dipende. Il pagamento di un debito ereditario non è detto che comporti accettazione tacita di eredità. E' necessario, tuttavia, affinché non vi sia accettazione che l'estinzione del debito avvenga con fondi propri del chiamato, senza intaccare il patrimonio ereditario. Di recente anche la Cassazione ha avvallato tale impostazione: nello specifico il chiamato all'eredità aveva pagato un solo verbale di accertamento dei numerosi emessi per violazione di norme del codice della strada nei confronti del defunto, e su tale presupposto il Comune di Roma riteneva vi fosse accettazione tacita di eredità in capo al chiamato. Tuttavia la Corte ha rigettato il ricorso presentato alla pubblica amministrazione stabilendo che: “ Per aversi accettazione tacita dell'eredità non basta che un atto sia compiuto dal chiamato all'eredità con l'implicita volontà di accettarla, ma è necessario, altresì, che si tratti di un atto che egli non avrebbe diritto di porre in essere se non nella qualità di erede. Il pagamento di un debito del de cuius, che il chiamato all'eredità effettui con denaro proprio, non è un atto dispositivo e comunque suscettibile di menomare la consistenza dell'asse ereditario, cioè tale che solo l'erede abbia diritto di compiere. In esso, pertanto, difetta il secondo dei suddetti requisiti, richiesti in via cumulativa enon disgiuntiva per l'accettazione tacita ." (Cass. Civ. 30 settembre 2020, n. 20878).
Con riferimento alla possibilità per un medesimo soggetto di rivestire contestualmente la qualifica di socio e quella di dipendente di una s.r.l. si fa presente che tale ipotesi è ammessa dalla giurisprudenza in materia. Per far sì che venga a configurarsi un effettivo rapporto di lavoro subordinato è necessario che tra il datore di lavoro ed il dipendente si instauri un vincolo di subordinazione in forza del quale al primo è attribuito il potere organizzativo e disciplinare caratterizzato dall'emanazione di ordini specifici oltre che dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e di controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative del secondo (Tribunale di Firenze 21 gennaio 2016). In conformità al citato principio deve escludersi la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato in tutti quei casi in cui la figura amministrativa della s.r.l. (ossia il datore di lavoro) coincida con quella del dipendente, per esempio nel caso di una società in cui l’amministratore unico sia anche socio e dipendente della medesima non venendo ad esistenza il vincolo di subordinazione. Diversamente, qualora il socio non rivesta cariche amministrative lo stesso può anche rivestire la qualifica di dipendente essendo sottoposto al potere direttivo dell’amministratore della società. Oltre a queste casistiche per così dire pacifiche è inoltre opportuno ricordare come vi siano alcuni precedenti giurisprudenziali in cui viene ammesso che il socio-dipendente sia anche membro del consiglio di amministrazione purché le attribuzioni amministrative del medesimo siano ben delimitate senza possibilità di interferire nella gestione di quel poter direttivo/disciplinare tipico del datore di lavoro. In altri termini, dovrà essere documentata in concreto la subordinazione del socio-dipendente-amministratore rispetto all’organo amministrativo che sarà per forza di cose collegiale e non unipersonale. Per tali ragioni sarebbe opportuno evitare che il socio-dipendente della s.r.l. rivesta anche la qualifica di amministratore (ipotizziamo membro del C.d.a.) in quanto potrebbe verificarsi un concreto pericolo di accertamento ispettivo da parte della preposta autorità, a meno che non vi siano delle specifiche deleghe limitative dei poteri in modo che la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro siano ricollegabili ad una volontà della società distinta da quella del singolo amministratore. E' inoltre utile esaminare anche le conseguenze di eventuali dimissioni del dipendente/recesso del socio. Infatti, durante la vita della società, un dipendente potrebbe rassegnare le proprie dimissioni oppure essere licenziato per vari motivi. In tali casi, senza la specifica previsione di clausole statutarie, si determinerebbe una situazione paradossale nella quale l’ex dipendente (licenziato o dimesso) abbia ancora la titolarità di una quota di partecipazione nella società e possa comunque accedere a tutte quelle informazioni sociali a cui ogni socio ha diritto ad accedervi, con potenziale danno alla segretezza di informazioni riservate e strategiche per l’attività sociale; oltre al fatto che avrebbe diritto alla quota di utili allo stesso spettanti. Per evitare tale complicata situazione sarebbe opportuno prevedere già nello statuto sociale delle clausole che rendano obbligatoria per il dipendente la dismissione della propria quota di partecipazione, in modo da coordinare sia gli aspetti legati al rapporto di lavoro sia quelli relativi al rapporto sociale. Sul punto si richiama la recente sentenza della Corte d’Appello di Torino del 30 giugno 2021, nella quale è stata esaminata la validità di una clausola di “riscatto” della quota di partecipazione del socio-dipendente nel caso di interruzione del rapporto di lavoro. Tali clausole possono riguardare sia il socio-dipendente sia l’amministratore-dipendente e si possono suddividere in due macro categorie a seconda dell’effettiva causa che sta alla base dell’interruzione del rapporto di lavoro: il c.d. "good-leaver": per il dipendente, il licenziamento giustificato da motivi di carattere oggettivo o ingiustificato, le dimissioni per giusta causa, oltre alla risoluzione consensuale del rapporto, morte o invalidità permanente il cui avverarsi lascia immutato il diritto a conservare le partecipazioni sociali rivenienti dal loro esercizio in capo all'ex-dipendente (o amministratore); e il c.d. "bad-leaver" ("cattivo-partente"): es., con riferimento al dipendente, il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, nonché le dimissioni volontarie il cui accadimento determina la decadenza dei diritti connessi alle partecipazioni sociali. Sarà opportuno prevedere nel testo dello statuto sociale clausole di questo tenore al fine di meglio disciplinare tuttei vari scenari verificabili durante la vita della società.
La Corte d'Appello di Milano ha accolto il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento in quanto non rispettati i requisiti di cui all'art. 1 L.F. In particolare, trattandosi di ditta individuale, non soggetta all'obbligo di tenuta delle scritture contabili obbligatorie, la Corte ha ammesso come prova circa la carenza dei requisiti di cui all'art. 1 L.F. le certificazioni uniche dell'ultimo triennio.
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Attività pratiche in tema di delegati alle vendite e custodi giudiziari.
Il corso mi ha dato la possibilità di specializzarmi nella crisi da sovraindebitamento come definita dalla legge n. 3/2012 e ss mm, acquisendo tutti gli strumenti necessari a tutela del soggetto che si trova in stato di crisi finanziaria.
Il presente contributo intende esaminare sinteticamente il recente arresto delle Sezioni Unite in materia di scioglimento della comunione ereditaria di immobili abusivi. La Suprema Corte, oltre a delineare l'ambito di applicazione delle nullità previste dalla normativa urbanistica ( L. n. 47/1985 e nel D.P.R. n. 380/2001), prende l'occasione per chiarire alcuni aspetti cruciali circa la natura giuridica della divisione. Il caso da cui trae origine la pronuncia in esame riguarda la curatela di un soggetto fallito che agiva per chiedere l'assegnazione di una porzione immobiliare di proprietà del medesimo. Il fallito, infatti, in forza di successione legittima era titolare, in comproprietà con i due fratelli, di un fabbricato abitativo. Tale immobile presentava piani sopraelevati costruiti in assenza di concessione edilizia, risultando pertanto abusivi. Poste le difficoltà per la divisione si domandava la vendita del fabbricato con conseguente ripartizione di quanto ricavato. In primo grado, preso atto delle contumacia dei convenuti, il Tribunale rigettava la domanda attorea. La Corte di Appello confermava la decisione di primo grado, richiamandosi altresì alla normativa urbanistica e precisamente agli artt. 17 e 40, L. n. 47/1985 e l'art. 46, D.P.R. n. 380/2001 relativi all'abusivismo edilizio, secondo cui la divisione ereditaria non è ricompresa tra gli atti inter vivos per i quali è prevista la comminatoria della nullità in assenza degli estremi della concessione edilizia o della concessione in sanatoria. Tale decisione è stata oggetto di apposito ricorso in Cassazione. In tale pronuncia la Suprema Corte, prima di definire il caso sottopostole, affronta in modo esaustivo i dubbi che da tempo avvolgevano l'istituto della divisione ereditaria. In primo luogo, la Suprema Corte afferma la natura di atto inter vivos della divisione ereditaria. A tale conclusione si giunge osservando che solo grazie alla manifestazione di volontà dei comunisti si addiviene all'effetto tipico del negozio divisorio, diversamente dagli atti mortis causa ove è l'evento morto produttivo degli effetti giuridici. Nel caso di divisione ereditaria l'evento morte rappresenta l'antefatto che origina la situazione di comproprietà, non potendo questa rivestire la qualità di presupposto della divisione. Pertanto, gli atti di scioglimento della comunione sono ricompresi nella casistica degli atti soggetti alla nullità prevista dall'art. 46 D.P.R. n. 380/2001. In secondo luogo, la Corte si interroga sulla natura della divisione, ovvero se la stessa abbia natura dichiarativa o costitutiva. Nella giurisprudenza consolidata all'atto di divisione veniva attribuita natura dichiarativa anche in considerazione della retroattività degli effetti come previsto dall'art. 757 c.c.. Secondo la Corte, tuttavia, l'orientamento appena citato deve essere abbandonato in favore di un nuovo inquadramento della divisione quale negozio avente natura costitutiva. Infatti, appare sensato accogliere tale impostazione in quanto l'atto divisorio produce un effetto modificativo-sostitutivo della divisione, attribuendo specifiche porzioni ai singoli comunisti e modificando la situazione giuridica originaria della comproprietà con una nuova situazione di proprietà esclusiva. In altri termini, in forza dello scioglimento viene a mutare la consistenza dell'oggetto del diritto di proprietà: prima astratto sull'intera massa da dividere; dopo concreto sulla porzione assegnata. Tale ricostruzione non è del tutto nuova, in quanto già in passato alcuni autori avevano accolto la teoria dell'efficacia costitutiva del negozio in oggetto (Dejana, Concetto e natura giuridica del contratto di divisione, in Riv. Dir. Civ., 1939). La Corte precisa, altresì, che la divisione oltre ad avere una natura costitutiva presenta una causa distributiva-attributiva (G. Amadio, Funzione distributiva e tecniche di apporzionamento nel negozio divisorio , Contratto di divisione e autonomia privata - Convegno svoltosi a Santa Margherita di Pula, 30/31 maggio 2008, in Quaderni della fondazione italiana del Notariato e-library ). È per effetto della distribuzione delle porzioni che viene modificandosi la situazione in capo al condividente, non più comproprietario assieme agli altri comunisti, bensì proprietario esclusivo della porzione. Appaiono evidenti anche i due momenti intrinsecamente collegati di cui consta il fenomeno divisorio: la rinuncia al diritto pro quota e l'acquisto del diritto esclusivo sulla porzione. È vero che, talvolta, la divisione opera come una mera specificazione concreta della quota astratta, ma non per questo una modifica sostanziale della situazione soggettiva giuridica del comunista non vi è stata. La natura costitutiva, infatti, risiede in tutti quegli atti che innovano, anche solo con modifiche, la realtà giuridica. A tale costitutività la Corte di cassazione ha ritenuto di affiancare una traslatività dell'atto divisorio. Sembra ragionevole ritenere, però, che la divisione con efficacia costitutiva non presenti sempre effetti traslativi. Di fatto, in caso di divisione, solo talvolta si configurano reciproche alienazioni tra condividenti. Si potrà parlare tuttalpiù di divisione costitutiva-traslativa quando la divisione preveda conguagli. Il conguaglio, in effetti, si cala nella dimensione dello scambio, del trasferimento: in caso di difficoltà nella divisione, chi dei condividenti abbia ricevuto una porzione di valore maggiore rispetto alla sua quota è tenuto a versare un conguaglio a titolo di corrispettivo nei confronti del coerede che abbia invece ricevuto una porzione con valore inferiore alla sua quota. Solo in quest'ultimo caso, sembra opportuno qualificare la causa della divisione come anche traslativa, non solo attributiva-distributiva. Chiariti questi principi di primaria importanza relativi alla natura giuridica della divisione le Sezioni Unite si sono soffermate su due ipotesi più frequenti, ovvero la divisione parziale e la divisione “endoesecutiva” o “endoconcorsuale” In merito alla prima tipologia di divisione il nostro ordinamento sembrerebbe rifiutare una divisione parziale, posto che la divisione ereditaria deve comprendere tutti i beni facenti parte dell'asse ereditario. Si ricorda, tuttavia, che la giurisprudenza ammette una divisione parziale in virtù di un accordo unanime dei condividenti e definitivo, ossia senza la necessità di successive operazioni di apporzionamento (Cass., 14 novembre 1977, n 4924); la stessa giurisprudenza si è spinta oltre ammettendo anche una divisione parziale in assenza di accordo dei condividenti purché non vi fosse alcuna opposizione giudiziale a tale negozio (Cass., Sez. II, n. 6931 del 8 aprile 2016; Cass., Sez. II, n. 5869 del 24 marzo 2016; Cass., Sez. II, n. 573 del 12 gennaio 2011). Si consideri, inoltre, che lo stesso codice civile in caso di omessa indicazione di uno o più beni (art. 762 c.c.) non si configura un'ipotesi di nullità della divisione ma si rende necessario procedere all'integrazione del cespite mancante, accogliendo implicitamente la piena validità di una divisione parziale. Le Sezioni Unite, in definitiva, hanno ritenuto ammissibile una divisione parziale dell'asse ereditario con esclusione del fabbricato abusivo quando vi sia la volontà concorde di tutti i coeredi, rendendo tale atto conforme all'art. 46 D.P.R. n. 380/2001 e all'art. 40, comma II, L. 47/1985, impedendo al singolo coerede di opporsi alla domanda di divisione giudiziale parziale proposta da altro coerede con esclusione dell'immobile abusivo. Con riferimento alla c.d. divisione “endoesecuvita” o “endoconcorsuale” la Suprema Corte si è soffermata sull'applicabilità o meno dell'art. 46, comme 5, D.P.R. n. 380/2001 e dell'art. 40, comma 5 e 6, L. 47/1985 i quali prevedono l'esclusione della nullità per gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari relative ad immobili abusivi. La ratio di tale norma è individuabile nella volontà del Legislatore di velocizzare la procedura esecutiva diretta al ristoro dei creditore, senza che l'abusivismo di un immobile possa minare la detta procedura. Orbene, le Sezioni Unite stabiliscono che la divisione di un edificio abusivo che si renda necessaria nell'ambito dell'espropriazione di beni indivisi (divisione c.d. "endoesecutiva") o nell'ambito delle procedure concorsuali (divisione c.d. "endoconcorsuale") sia sottratta alla comminatoria di nullità prevista per gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi in forza delle norma sopra citate. La Corte evidenzia il rapporto di strumentalità che lega il giudizio di divisione endoesecutivo rispetto al procedimento espropriativo e a sostengo della propria affermazione richiama l'art. 600 c.p.c. alla luce del quale il giudizio di divisione si qualifica come “sviluppo normale di ogni procedura di espropriazione di beni indivisi”. In fatti, in caso di assenza di richiesta di separazione in natura della quota da parte del creditore pignorante o in caso di impossibilità materiale della separazione, la divisione rappresenta la via ordinaria per procedere alla separazione. In conclusione, la Suprema Corte ammette la comminatoria di nullità degli atti inter vivos che abbiano ad oggetto edifici abusivi, avente la stessa natura sanzionatoria nei confronti del proprietario di essi (o dei suoi eredi), impedendo agli stessi di disporre dei diritti reali relativi a tali immobili in costanza dell'abusivismo, mentre non prevede la sanzione della nullità rispetto agli atti strumentali all'espropriazione forzata attivata nei confronti del proprietario del fabbricato abusivo. In altri termini, è differente il requisito soggettivo: non si tratta di atti posti in essere ad iniziativa del proprietario dell'immobile abusivo, ma di atti posti in essere in suo danno, ad iniziativa e a vantaggio dei suoi creditori.
Quando si configura la c.d. sindrome da alienazione parentale? La sindrome da alienazione parentale ricomprende tutte quelle condotte poste in essere da un genitore (alienante) per screditare, emarginare e denigrare l'altro genitore (alienato). Tali comportamenti, oltre ad influenzare negativamente il minore, minano la presenza del genitore alienato nella vita del proprio figlio, compromettendo altresì il diritto di quest'ultimo ad una crescita serena e bilanciata. Spesso la genesi di siffatte condotte è da ricercarsi non tanto nel cattivo svolgimento dei doveri connessi alla figura genitoriale quanto ad una punizione diretta al genitore alienato per non essere stato, in pendenza del rapporto affettivo, un buon partner. E' evidente come i sentimenti rancorosi di un genitore nei confronti dell'altro possano causare la lesione del rapporto genitore-figlio. Il termine alienazione genitoriale (c.d. Parental Alienation Syndrome) non integra una nozione di patologia clinicamente accertabile, bensì un insieme di comportamenti posti in essere dal genitore collocatario per emarginare o neutralizzare l'altra figura genitoriale (Tribunale di Milano 11 marzo 2017). La giurisprudenza ha più volte sottolineato l'importanza della tutela alla bigenitorialità del minore anche nei casi in cui il minore si oppone (Trib. Brescia 19 novembre 2018). Proprio la capacità da parte del genitore affidatario di mantenere e preservare il rapporto affettivo del minore con l'altro genitore rappresenta un requisito dell'idoneità genitoriale (Cass. n. 6919/2016). Infatti, nel caso in cui il genitore affidatario ponga in essere condotte alienanti nei confronti dell'altro genitore il Tribunale, potrà, se sussistono risultanze peritali chiare, convergenti e motivate, disporre l'affidamento super-esclusivo in favore del genitore alienato, ovviamente se quest'ultimo dimostri di possedere la sufficiente capacità genitoriale (Corte Appello Venezia 16 dicembre 2019 n. 8607). Del medesimo avviso è la Cassazione secondo cui: “Qualora un genitore denunci comportamenti dell'altro genitore, affidatario o collocatario di un figlio di età minore, rivolti ad allontanare da sé il bambino ed indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle condizioni di affidamento del minore, il giudice è tenuto ad accertare l'effettiva sussistenza di tali comportamenti ed a valutarne la rilevanza per l'equilibrio psichico del minore, al fine di esprimere un corretto ed informato giudizio in materia di adeguatezza genitoriale, indipendentemente dalla qualifica che si intenda attribuire ai comportamenti alienanti” (Cass. n. 21215/2017). Tali approdi giurisprudenziali diretti alla tutela della bigenitorialità postulano l'identica importanza che le due figure genitoriali hanno nel percorso di crescita del minore, soprattutto nel momento di disgregazione della famiglia, con conseguente obbligo del genitore collocatario di favorire il rapporto con l'altro genitore, evitando condotte lesive di tale interazione affettiva. Nemmeno la resistenza del minore manifestata nei confronti del genitore non collocatario risulta sufficiente ad evitare la frequentazione di quest'ultimo, proprio in virtù di quanto sopra affermato circa la tutela della bigenitorialità. Si ricorda sul punto la recente decisione del Tribunale dei Minori di Perugia in data 2 aprile 2020, a seguito di una CTU disposta in un procedimento introdotto con ricorso del PM ex art. 333 c.c. e segg., per far cessare le condotte poste in essere da entrambi i genitori di una minore, ritenute pregiudizievoli per un suo sano sviluppo, ha così pronunciato: “Il trasferimento temporaneo della bambina (n.d.r.in una struttura protetta), pur rappresentando l'extrema ratio, al Collegio l'intervento più efficace, il cui vantaggio è rappresentato dal fatto che, da un lato permette di interrompere il legame disfunzionale della minore con la madre e, dall'altro, consente alla bambina uno spazio intermedio tra i due genitori”. Secondo il Tribunale Umbro, dalle evidenze emerse in sede di CTU, non vi erano valide alternative al collocamento della minore in una struttura protetta, in quanto la madre collocataria poneva in essere condotte alienanti nei confronti del padre, mentre quest'ultimo durante la consulenza si era sottratto alla stessa impedendo la valutazione delle sue capacità genitoriali. Si ricorda, infine, il provvedimento emesso dal Tribunale dei Minorenni di Roma in data 5 luglio 2019, con il quale, espletata la CTU, riteneva che il “ figlio fosse prigioniero di una relazione assolutizzante con la madre, che gli negava ogni rapporto con il padre e gli forniva una comunicazione strutturalmente incongrua e disorganizzante, clinicamente associata ad un funzionamento psicotico, con il serio rischio psicopatologico di sviluppare negativamente la propria personalità e l'identità del proprio sé, con possibile sostituzione della figura paterna e, disposto, l'allontanamento coatto del minore dall'abitazione della madre ed il suo collocamento presso il padre ”.
Il termine di prescrizione dell’obbligazione nascente dal contratto di mutuo decorre dalla data di comunicazione al debitore della decadenza del beneficio del termine La comunicazione della decadenza del beneficio del termine da parte dell’istituto di credito nei confronti del debitore/mutuatario determina il decorrere del termine decennale di prescrizione. Questo è il principio affermato dal Tribunale di Cremona (sentenza n. 348/2023) posto a fondamento della decisione di revocare il decreto ingiuntivo opposto da due debitori della società di cartolarizzazione. Pur essendo il mutuo un contratto di durata il cui debito può considerarsi scaduto solo dal termine previsto per l’ultima rata in caso di comunicazione di decadenza dal beneficio del termine ai sensi dell’art. 1186 c.c. è da tale momento che decorre il termine prescrizionale come ribadito dal citato Tribunale: “Per tali ragioni complessive si deve dunque ritenere che, nel caso di decadenza dal beneficio del termine, poiché il mutuante può pretendere il pagamento immediato dell’intera prestazione, venendo meno la precedente contrattazione relativa alla rateizzazione del debito, il termine di prescrizione debba essere fatto decorrere dal momento in cui il creditore comunica la decadenza dal beneficio del termine, ossia, nel caso di specie, dal 17 marzo 2020.”
Nel corso sono stati trattati gli aspetti sia pratici che giuridici connessi alle procedure esecutive immobiliari in modo da fornire ai professionisti incaricati tutti gli strumenti necessari per espletare l'incarico affidatogli.
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Patto di stabilità e patto di non concorrenza. Molto spesso il datore di lavoro ha la necessità di stipulare, con i propri dipendenti, accordi in forza dei quali tutelare sia la fase iniziale del rapporto di lavoro (formativa) sia quella finale successiva all’interruzione del rapporto di lavoro. In particolare, gli strumenti giuridici a disposizione del datore di lavoro possono essere individuati nel patto di stabilità e nel patto di non concorrenza. Di seguito verranno illustrate gli aspetti salienti dei detti negozi giuridici. 1) DEFINIZIONE DEL PATTO DI STABILITA’ Il patto di stabilità consiste in una clausola di durata minima del rapporto di lavoro che limita, per un periodo prefissato, la possibilità di una o di entrambe le parti di recedere dal contratto di lavoro, a meno che non si verifichi una giusta causa di recesso o di impossibilità sopravvenuta della prestazione. Viene sostanzialmente limitato con tale patto la facoltà di recedere unilateralmente dal rapporto di lavoro prima dello scadere di un determinato tempo. In passato vi erano perplessità circa la previsione di una tale clausola in favore del solo datore di lavoro, ma successivamente anche la giurisprudenza di legittimità ha rilevato che " non contrasta con alcuna norma o principio dell'ordinamento giuridico il pactum de non recedendo con cui il lavoratore, disponendo della propria facoltà di recesso, si vincola unilateralmente a non dimettersi dal rapporto di lavoro prima dello scadere del termine di durata minima convenuto tra le parti. È ammissibile la clausola con cui, in caso di dimissioni anticipate, si stabilisce a carico del lavoratore l'obbligo del risarcimento del danno, anche con le modalità della penale ex art. 1382 c.c. " ( Cass., 7 settembre 2005, n. 17817 ). Condizioni e limiti del patto di stabilità Il patto di stabilità può essere previsto sia nel momento iniziale del rapporto di lavoro (in questo caso viene anche definito come “clausola di durata minima garantita”) sia in costanza dello stesso. Può essere posto: - a carico del solo datore di lavoro (che si impegna a non licenziare il dipendente che chiede il patto per tutelarsi per un periodo minimo); - a carico del solo lavoratore (che si impegna a non dimettersi, di regola a fronte del pagamento di un corrispettivo, per garantire al datore di lavoro un minimo di stabilità); - per entrambe le parti. Si precisa, tuttavia, che in caso di patto di stabilità in favore del solo datore di lavoro al lavoratore deve essere riconosciuto un corrispettivo proporzionato al sacrificio richiesto, consistente anche in particolari investimenti economici e/o formativi della risorsa. E’ possibile, infatti, prevedere un obbligo contrattuale per il lavoratore di rimborsare il datore di lavoro dei costi della formazione sostenuta in caso di recesso anticipato del dipendente. Sul punto si segnala la recente sentenza del Tribunale di Velletri (n. 305 del 21 febbraio 2017) con la quale è stata confermata la legittimità del patto in questione quando da parte del datore di lavoro sia stato sostenuto un reale costo finalizzato alla formazione del lavoratore e che quindi sia interessato “ a poter beneficiare per un periodo di tempo minimo ritenuto congruo, del bagaglio di conoscenze acquisiti dal lavoratore ”. Durata In assenza di riferimenti normativi sul punto la dottrina ha sostenuto, per analogia con il contratto a termine, che il la limitazione temporale massima dovrebbe essere di tre anni, ad oggi attualizzato ai 24 mesi di durata massima del contratto a tempo determinato prevista dalla legge (art. 19, D.Lgs. n. 81/2015). Strumenti di tutela del datore di lavoro in caso di violazione del patto Al fine di tutelare l’investimento economico del datore di lavoro è consigliabile prevedere nel citato patto una clausola penale che possa predeterminare l’importo che il lavoratore dovrà corrispondere al datore di lavoro in caso di dimissioni ante tempo. La penale, si ricorda può essere equamente diminuita dal Giudice ai sensi dell’art.1384 c.c. i) se l’obbligazione principale è stata in parte eseguita; ii) se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo avuto riguardo all’interesse del datore di lavoro. Da ultimo si segnala che è ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza (Cass. n. 21646 del 26 ottobre 2017; Tribunale di Udine, sez. lav., n. 38 del 21 febbraio 2022) anche la compensazione con il TFR dei crediti del datore di lavoro tra i quali può essere inclusa detta penale. 2) DEFINIZIONE DEL PATTO DI NON CONCORRENZA Il patto di non concorrenza, disciplinato dall'art. 2125 c.c., è un contratto a prestazioni corrispettive ed a titolo oneroso in forza del quale il lavoratore, dietro pagamento di un corrispettivo da parte del datore di lavoro, si impegna a non svolgere attività concorrenziale per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. La finalità del patto consiste nell'interesse dell'imprenditore di tutelare il proprio know-how aziendale ed evitare che l'ex lavoratore possa mettere a disposizione di aziende concorrenti quanto appreso durante la precedente attività lavorativa cessata. In conformità della citata normativa codicistica il patto di non concorrenza deve, a pena di nullità: - risultare da atto scritto; - essere contenuto entro predeterminati limiti di oggetto, luogo e tempo; - prevedere un corrispettivo congruo. Forma e durata Con riferimento alla forma ed alla durata del patto non sussistono particolari problemi in quanto sono espressamente disciplinati dall'art. 2125 c.c.. Lo stesso patto può essere previsto direttamente nel contratto di lavoro, al momento dell'assunzione, oppure può essere stipulato con un documento separato in un momento successivo. La forma scritta è richiesta ad substantiam , pena la nullità. La durata del patto, invece, non deve essere superiore ad anni tre per il personale dipendente ed anni cinque per dirigenti. Oggetto In merito all'oggetto, invece, sebbene il dato letterale dell'art. 2125 c.c. sembrerebbe consentire la limitazione di qualunque attività esercitata dall'ex dipendente dopo la cessazione del rapporto, un'interpretazione tanto estensiva comporterebbe per lo stesso l'impossibilità di svolgere qualsivoglia attività lavorativa in violazione del principio generale secondo cui al lavoratore deve essere comunque consentito di esplicare la propria professionalità ed assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita, anche dopo la cessazione del precedente rapporto di lavoro (Cass., 4 aprile 2006, n. 7835; Trib. di Modena 23 maggio 2019; Cass. 4 agosto 2021, n. 22247; Cass. 25 agosto 2021, n. 23418). La giurisprudenza ha così affermato la nullità del patto qualora il limite all'utilizzo della professionalità del lavoratore sia compressa al punto tale da privarlo di qualunque potenzialità reddituale. La Suprema Corte ha poi precisato che " il patto di non concorrenza, previsto dall'art. 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso è, però, nullo allorché la sua ampiezza è tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale " (Cass., 10 settembre 2003, n. 13282; App. Milano, 17 marzo 2006; Trib. Ravenna, 24 marzo 2005; Trib. Milano, 31 luglio 2003; Trib. Milano, 4 marzo 2009). Territorio Ulteriore elemento che deve essere specificamente individuato nel patto di non concorrenza è la limitazione geografica, pena la nullità. Sono pacificamente ritenuti legittimi patti estesi non solo all'Italia, ma anche all'intero territorio europeo anche se la congruità del limite territoriale andrà comunque valutata di volta in volta, insieme all'oggetto, tenendo conto del fatto che tanto più è ampio l'oggetto del patto, tanto più sarebbe opportuno delimitare l'operatività solo ad alcune zone, o, quantomeno, prevedere un compenso più elevato, per proporzionarlo al maggior sacrificio del lavoratore. In altri termini deve essere trovato sempre un bilanciamento tra il corrispettivo del lavoratore e le limitazioni imposte allo stesso. Unico limite all'estensione del patto de quo è, tuttavia, come detto, quello di consentire, al lavoratore di svolgere un'attività coerente con la propria esperienza e la propria professionalità. La congruità del corrispettivo Il sacrificio richiesto al lavoratore in caso di cessazione del rapporto di lavoro deve essere remunerato da un corrispettivo che dovrà essere congruo in relazione alla retribuzione del dipendente, alla sua professionalità ed al suo inquadramento, alle sue mansioni e più in generale ai vincoli di oggetto, territorio e durata contenuti nel patto di non concorrenza. Sul quantum e sul quomodo del versamento del corrispettivo il Legislatore ha lasciato alle parti ampia autonomia contrattuale: in ogni caso il corrispettivo non può consistere in compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno (Cass. n. 23418/2021; Cass. n. 9790/2020). La modalità del pagamento In assenza di precise previsioni normative sul punto, il corrispettivo del patto di non concorrenza viene talvolta pagato mediante: - corresponsione periodica; - in misura fissa; - durante il rapporto di lavoro; o - con corresponsione dell'importo pattuito in una o più soluzioni dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Strumenti di tutela del datore di lavoro in caso di violazione del patto In merito a gli strumenti di tutela per il datore di lavoro, contro il proprio ex dipendente che violi il patto di non concorrenza regolarmente stipulato e retribuito, si rileva quanto segue: a) disinteresse del datore di lavoro all'adempimento del patto. Il datore di lavoro dovrà valutare la situazione e, qualora ritenesse di non essere più interessato ad ottenere l'adempimento del patto di non concorrenza, potrà risolvere il patto stesso per inadempimento dell'altra parte contraente e chiedere la restituzione del corrispettivo pagato, oltre al risarcimento dei danni provocati dall'attività svolta dall'ex dipendente (in tal caso nel contratto può essere anche stabilita un'apposita penale diretta a predeterminare l'ammontare dei danni). b) interesse del datore di lavoro all'adempimento del patto. In alternativa, qualora vi fosse un concreto e vivo interesse al rispetto del patto, il datore di lavoro potrebbe chiedere l'adempimento del detto patto, anche con una procedura di urgenza ex art. 700 c.p.c., al fine di ottenere dal giudice un'inibitoria che vieti al lavoratore di continuare a svolgere l'attività concorrenziale (potendo poi il datore chiedere nel giudizio ordinario il ristoro dei danni patiti). Nel caso venga provata la violazione del patto di non concorrenza il giudice concedere la tutela inibitoria e ordinare al lavoratore di cessare la condotta illecita, eventualmente anche ordinando di porre fine al rapporto di lavoro in essere.
Risarcimento danni da caduta su gradini scivolosi? Spesso una caduta a terra può comportare gravi lesioni fisiche, anche permanenti, per le quali è consigliabile attivarsi per ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti. In questi casi il soggetto titolare della cosa che ha causato il danno (o quello alla cui custodia-vigilanza è addetto) risponde dei danni provocati a terzi come disciplinato dall'art. 2051 c.c. relativo al danno da cose in custodia. Tale norma prevede espressamente che “ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”. Per la dottrina maggioritaria il danno da cose in custodia rientra nella categoria delle c.d. responsabilità oggettive, ovvero in quelle ipotesi in cui il danneggiante sarà ritenuto responsabile in assenza della prova del caso fortuito, anche se il danno non deriva da dolo o colpa propria del custode. Il caso fortuito, infatti, esonera da responsabilità il custode in quanto interrompe il nesso di causalità intercorrente tra la cosa e l'evento dannoso. In mancanza della prova del caso fortuito il custode sarà comunque responsabile anche se ha operato con la diligenza richiesta. Quando opera la responsabilità da cose in custodia? Ai fini dell'operatività della norma in esame sarà necessario, oltre all'affidamento in custodia di una cosa ad un soggetto, anche che la cosa abbia svolto un ruolo dinamico nella causazione del sinistro e che il custode abbia un effettivo potere di controllo sulla cosa, non temporaneo ed occasionale. Con riferimento all'onere probatorio, l'art. 2051 c.c. stabilisce in capo al danneggiato la prova del nesso causale fra la cosa in custodia e l’evento lesivo oltre all’esistenza del rapporto di custodia, Diversamente il custode dovrà provare l’esistenza di un fattore esterno che abbia quei requisiti di imprevedibilità e di eccezionalità sufficienti ad interrompere il nesso di causalità, ossia la prova del caso fortuito o della forza maggiore. Novità in tema di onere probatorio La Corte di Cassazione con l'ordinanza del giorno 11 febbraio 2021 n. 3589 ha precisato nuovamente i confini dell'onere probatorio richiesto al custode per andare esente da responsabilità. Il caso deciso riguarda una caduta di un soggetto durante un incontro di calcio sui gradoni dello stadio Olimpico resi scivolosi dalla presenza di una sostanza oleosa. In primo grado il giudice solleva l'ente gestore da ogni responsabilità in quanto lo sversamento della sostanza oleosa era attribuibile a terzi. In appello, invece, viene addebitata la responsabilità dall'ente gestore in quanto non è stata fornita la prova liberatoria richiesta dall'art. 2051 c.c. La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso promosso dal custode, ha stabilito che nei casi dell'art. 2051 c.c. il danneggiato ha l’onere di provare il nesso causale tra il danno subito e il dinamismo della cosa, mentre grava sul custode la prova liberatoria del fortuito e va evidenziato come la condotta del terzo che abbia reso la cosa pericolosa rientra tra i casi di prova liberatoria, ossia integra il caso fortuito quando, data l’immediatezza del danno rispetto alla condotta del terzo, il custode non ha avuto la possibilità di intervenire ed impedire il pregiudizio; pertanto è necessario che il custode dimostri che l'evento sia stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili.
Sono diverse le ipotesi di invalidità della misurazione del tasso alcolemico effettuata dagli organi della polizia mediante utilizzo di etilometro. In particolare, la nullità dell'accertamento effettuato mediante alcoltest può essere rilevata, tra l'altro, nei casi in cui l'organo accertatore non abbia avvisato la persona sottoposta ad indagini preliminari della facoltà di farsi assistere dal difensore. Come noto il diritto alla difesa è un diritto inviolabile che deve essere riconosciuto in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 Cost.) e, pertanto, deve essere garantito sin dai primi accertamenti preliminari e meramente esplorativi di cui all'art. 186, comma 3, Codice della Strada. Si ricorda sul punto l'art. 114 disp. att. c.p.p. il quale impone alla polizia giudiziaria l’obbligo di avvertire la persona sottoposta a indagini di farsi assistere da un avvocato in sede di tali accertamenti. In assenza di tale avviso l'accertamento etilico svolto dalla polizia giudiziaria non potrà essere utilizzato in giudizio in quanto assunto in palese violazione del diritto alla difesa della persona sottoposta all'accertamento. La Corte di Cassazione ha più volte confermato la nullità dell'accertamento alcolemico in assenza dell'avviso della facoltà di farsi assistere dal difensore. Sul punto si richiama la recente massima che precisa anche l'ultimo momento per rilevare tale nullità: “In tema di guida in stato di ebbrezza, la violazione dell'obbligo di avviso, al conducente da sottoporre all'esame alcolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, determina una nullità di ordine generale, deducibile nei termini di cui agli artt. 180 e 182, comma 2, c.p.p., con la conseguenza che, in caso di procedimento per decreto, il momento ultimo entro cui la nullità può essere dedotta va individuato nella deliberazione della sentenza di primo grado, e non nella presentazione dell'atto di opposizione al decreto stesso, essendo le norme sulla nullità di stretta interpretazione, e non contenendo l'art. 180 alcun riferimento al decreto penale di condanna e al relativo atto di opposizione” (Cassazione penale sez. IV, 10/12/2019, n.52085). Giova precisare, tuttavia, che gli organi della polizia giudiziaria non devono attendere che l'interessato sia in uno stato psicofisico tale da comprendere il contenuto dell'avviso della possibilità di farsi assistere da un difensore, in quanto trattasi di un accertamento urgente ed indifferibile (Cassazione penale sez. fer., 02/09/2020, n.27538). Anche in caso di rifiuto di sottoporsi all'alcol test da parte della persona sottoposta all'etilometro il mancato avvisto di cui sopra non comporterà la nullità dell'accertamento (Cassazione penale sez. IV, 16/01/2020, n.4896). Si ricorda, infine, che la prova dell'avvenuto avviso può risultare sia dal verbale di accertamento nonché dalla deposizione orale dell'agente di polizia che ha seguito l'esame alcolimetrico (Cassazione penale sez. IV, 10/09/2019, n.3725).
Chi intenda esercitare in giudizio un'azione relativa, fra l'altro, ad una controversia in materia condominiale, è tenuto in via preliminare ad esperire il procedimento di mediazione obbligatoria ai sensi del medesimo D.Lgs. n. 28 del 2010. L'art. 71-quater disp.att. c.c. precisa che le controversie in materia di condominio, ai sensi del citato art. 5 D.Lgs. n. 28 del 2010, si intendono quelle relative alla violazione o dall'errata applicazione degli artt. da 1117 a 1139 c.c. e da 61 a 72 disp.att.c.c. In assenza dell'esperimento del procedimento di mediazione la domanda giudiziale sarà improcedibile. La sentenza in commento esamina alcuni aspetti giuridici in materia condominiale di grande interesse pratico tra cui la capacità di stare in giudizio dell'amministratore condominiale e la legittimazione a conciliare. Nel caso in esame il Giudice di Pace di Roma aveva dichiarato improcedibile la domanda proposta dal condominio nei confronti di una condomina morosa di oneri condominiali in quanto l'attore non aveva attivato la procedura di mediazione a causa della omessa adozione da parte dell'assemblea condominiale di apposita delibera. Nel giudizio di gravame instaurato dal condominio attore il Tribunale confermava la decisione del Giudice di Pace rilevando il mancato svolgimento della mediazione di cui al D.Lgs. 28/2010 per esclusiva responsabilità del condominio. In seguito il condominio presentava ricorso in Cassazione al fine di ottenere la riforma della precedente decisione. La Suprema Corte rigettava il ricorso confermando l'impostazione dettata dal Tribunale di Roma. In particolare, secondo la Cassazione, il tenore letterale dell'art. 71 quater disp. att. c.c., comma 3, conduce alle medesime conclusioni del Tribunale ossia che il tentativo di mediazione non può essere esperito laddove l'amministratore di condominio intervenga a tale incontro sprovvisto della delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all'art. 1136 c.c. comma 2. Il fatto che la fattispecie per la quale è stato instaurato il giudizio (recupero spese condominiali) sia ricompresa nelle attribuzioni dell'amministratore ai sensi dell'art. 1130 c.c., e pertanto, il medesimo sia legittimato ad agire in giudizio senza necessità della delibera assembleare (art. 1131 c.c.) non giustifica l'assenza di apposita deliberazione assembleare che lo autorizzi specificatamente ad intervenire al procedimento di mediazione. La ratio di tale tesi è riscontrabile nell'assenza in capo all'amministratore di autonomi poteri di disposizione dei diritti sostanziali connessi alla mediazione stessa, in altri termini il potere di transigere e conciliare non è attribuito ex lege all'amministratore (Cass. n. 8473/2019). Spetta infatti all'assemblea (e non all'amministratore) il "potere" di approvare una transazione riguardante spese d'interesse comune, ovvero di delegare l'amministratore a conciliare, fissando gli eventuali limiti dell'attività transattiva affidatagli (cfr. Cass. n. 821/2014; Cass. Sez. n. 1994/1980). Parimenti, l'art. 1129 c.c., comma 9 (sempre introdotto dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220) obbliga l'amministratore ad " agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale sia compreso il credito esigibile, a meno che non sia stato espressamente dispensato dall'assemblea ", non rientrando, quindi, tra le attribuzioni dell'amministratore il potere di pattuire con i condomini morosi dilazioni di pagamento o accordi transattivi senza apposita autorizzazione dell'assemblea. La massima della sentenza in esame è la seguente: “Nelle liti condominiali sottoposte all’obbligo di mediazione (tali essendo quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione delle norme di diritto comune sul condominio negli edifici e quelle promosse per la riscossione dei contributi condominiali), l’amministratore di condominio è tenuto a procurarsi, eventualmente previo differimento dell’incontro di mediazione, la delibera autorizzativa adottata dall’assemblea con il voto di condomini che rappresentino la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del fabbricato. Ove ciò non avvenga, secondo l’ordinanza n. 10846 della Suprema Corte, la mediazione non può essere neppure avviata e le domande giudiziali proposte dal condominio sono improcedibili”.
In cosa consiste l'accordo di ristrutturazione dei debiti (o concordato minore)? L'accordo di ristrutturazione rientra tra le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento ed è stato introdotto nel nostro ordinamento con la L. n. 3/2012. E' una figura assimilabile al concordato preventivo previsto dalla Legge Fallimentare, ossia un accordo con tutti i creditori proposto dal debitore sovraindebitato che mira al soddisfacimento dei creditori ed alla ristrutturazione dei debiti mediante la cessione di cespiti o di crediti presenti e/o futuri. Nel caso di incapienza del creditore è, altresì, possibile prevedere il conferimento di finanza esterna da parte di terzi se necessario all'attuazione dell'accordo. Chi può richiederlo? La procedura di accordo di composizione della crisi può essere introdotta dai debitori non soggetti a fallimento ai sensi della Legge Fallimentare (come i piccoli imprenditori che non raggiungono i requisiti previsti dall’art. 1 della detta Legge, i professionisti, l'imprenditore agricolo) e le persone fisiche in genere (come consumatori o liberi professionisti). Per il consumatore, invece, è necessario proporre l'accordo se la natura dei debiti è mista, ovvero non comprensiva esclusivamente debiti derivanti da attività consumieristiche ma anche da attività imprenditoriali, societarie e professionali. Quando la proposta è inammissibile? La proposta di accordo deve anzitutto garantire il soddisfacimento dei crediti impignorabili ai sensi dell'art. 645 c.p.c. La proposta di accordo di composizione della crisi sarà inammissibile se: i) il debitore abbia già fatto ricorso a tale procedura negli ultimi cinque anni; ii) se vi è stata una pronuncia di risoluzione, revoca o cessazione degli effetti dell'accordo per cause imputabili al debitore; iii) se la documentazione prodotta dal debitore non consente una compiuta ricostruzione della situazione economico-patrimoniale del debitore; iv) se il debitore ha già beneficiato dell'esdebitazione per due volte; v) se il sovraindebitamento risulta diretto a frodare le ragioni dei creditori. Quali sono i benefici del debitore in caso di accoglimento? Valutata la documentazione prodotta dal debitore, esaminata la relazione particolareggiata predisposta da un gestore della crisi accreditato il giudice fissa con decreto l'udienza per la manifestazione del consenso dei creditori necessitando, ai fini dell'omologa dell'accordo, del 60% dei crediti. L'accordo omologato ha efficacia nei confronti di tutti i creditori anteriori alla data di pubblicità del decreto di omologa: eventuali creditori successivi a tale decreto non potranno intraprendere procedure esecutive sui beni del debitore. La proposta in esame potrà contenere, tra l'altro, la falcidia di tutti gli altri crediti, compresi quelli muniti di titolo di prelazione (pegno, ipoteca, privilegio). Per questi ultimi sarà consentita la c.d. falcidia parziale solo qualora venga garantito che il pagamento proposto non risulti inferiore al realizzo mediante liquidazione tenuto conto del valore di mercato dei beni di proprietà del debitore. In altri termini, possono essere falcidiati creditori prelatizi se l'alternativa liquidatoria non sia in grado di offrire al creditore medesimo un maggior realizzo del proprio credito.
Il piano del consumatore come introdotto dalla L. 3/2012 Il piano del consumatore, l'accordo di composizione della crisi e la liquidazione del patrimonio, rappresentano gli strumenti introdotti nel nostro ordinamento giuridico dalla L. 3/2012 (c.d. “legge salva suicidi”) al fine di porre rimedio alla situazione da sovraindebitamento che colpisce moltissimi soggetti soprattutto dopo le crisi finanziarie degli ultimi anni. In questo breve articolo analizzeremo i requisiti per poter presentare un piano del consumatore e gli effetti che tale piano può produrre in caso di accoglimento dello stesso. Cosa s'intende per sovrandibitamento? Per sovraindebitamento si definisce la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente (art. 6, comme 2, lett. a), L. 3/2012). Chi è il consumatore? Per consumatore, invece, si intende la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigiana o professionale eventualmente svolta, anche se socio di una delle società appartenenti ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, per i debiti estranei a quelli sociali. Quali sono i presupposti di ammissibilità? L'art. 6, comma 2, L. 3/2012 prevede espressamente diverse condizioni di ammissibilità del piano, che se non rispettate, comportano l'inammissibilità dello stesso. In particolare non sarà ammissibile la proposta se il debitore-consumatore: è assoggettabile a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dalla L. 3/2012; ha già fatto ricorso ai procedimenti da sovraindebitamento nei precedenti cinque anni; ha subito per cause allo stesso imputabili la risoluzione, l'annullamento o la revoca del piano, non ha fornito la documentazione necessaria a ricostruire compiutamente la sua situazione economica patrimoniale; ha già beneficiato dell'esdebitazione per due volte; ha determinato il sovraindebitamento per colpa grave, malafede o frode. Si ricorda che la proposta di piano sarà, inoltre, ritenuta inammissibile qualora non garantisca il regolare pagamento dei crediti impignorabili ex art. 545 c.p.c., ovvero, i crediti alimentari, sussidi dovuti per maternità o malattia, ecc. Che contenuto deve avere il piano del consumatore? Il piano del consumatore, ai sensi dell'art. 8 della L. 3/2012, deve tendere alla ristrutturazione dei debiti e alla soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione di crediti presenti e/o futuri. In particolare, in caso di incapienza del debitore, il piano può contenere l'impegno di terzi al conferimento, anche a garanzia, dei beni necessari alla realizzazione del piano. Il piano, inoltre, può prevedere in caso di liquidazione di beni del debitore l'affidamento ad un gestore che ne curi la liquidazione, la custodia e la distribuzione del ricavato ai creditori. Il novellato art. 8 L. 3/2012 la proposta di piano può prevedere la falcidia e la ristrutturazione dei debiti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio, tfr o pensione e delle operazioni di prestito su pegno. Lo stesso piano può prevedere il rimborso, alla scadenza convenuta, delle rate a scadere del contratto di mutuo garantito da ipoteca iscritta sull'abitazione principale del debitore se lo stesso ha adempiuto le proprie obbligazioni o se il giudice lo autorizza al pagamento del capitale ed interessi scaduti a tale data. In cosa consiste la relazione particolareggiata? La relazione particolareggiare viene redatta dal gestore della crisi e allegata alla proposta di piano. Tale documento deve contenere le indicazioni delle cause di indebitamento e della diligenza impiegata dal debitore nell'assumete le obbligazioni che hanno poi determinato la situazione di sovraindebitamento. Inoltre, devono essere esplicate le ragioni dell'incapacità del debitore di adempiere le obbligazioni assunte, la valutazione circa la completezza della documentazione depositata dal debitore e l'indicazione dei costi della procedura. Inoltre deve essere verificato a cura del gestore ed attestato nella relazione in parola se ai fini della concessione del finanziamento il soggetto finanziatore abbia tenuto in considerazione il merito creditizio del debitore valutato in base alle condizioni economico reddituali dello stesso. Si ricorda che il piano del consumatore, a differenza di quanto previsto per l'accordo, non è condizionato all'approvazione dei creditori, residuando in capo al Giudice delegato ogni valutazione in merito alla validità del piano predisposto, tenendo certamente conto di quanto attestato dal gestore nella relazione particolareggiata. La meritevolezza del creditore Elemento essenziale che deve sussistere affinché il piano venga accolto dal Giudice riguarda la meritevolezza e l'assenza del debitore nella genesi dello stato di sovraindebitamento. A tal proposito sarà indispensabile illustrare nella relazione particolareggiata in modo dettagliato le ragioni di fatto che hanno determinato lo stato di insolvenza. Se risulterà che il debitore abbia assunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere o se abbia contratto debiti in misura sproporzionata rispetto al patrimonio disponibile non sussisteranno gli elementi la meritevolezza dello stesso sarà dal Giudice esclusa. La procedura Il Giudice valutata l'assenza di atti in frode ai creditori, appurata la meritevolezza e l'assenza di colpa del debitore fissa con decreto l'udienza di omologazione del piano disponendo l'avviso ai creditori almeno trenta giorni prima di detta udienza. Si ricorda che la sospensione delle procedure esecutive individuali non è automatico con l'emissione del decreto di fissazione di udienza (come accade nell'accordo), ma serve apposita istanza in tal senso da parte del debitore. Il decreto di omologa ed effetti del piano Il Giudice, valutata la fattibilità del piano e l'idoneità dello stesso a soddisfare i creditori impignorabili, omologa il piano e dispone le opportune formalità pubblicitarie. In caso contrario il Giudice dispone con decreto il rigetto. Dall'omologazione del piano nessuna esecuzione individuale potrà essere iniziata o continuata dai creditori con causa o titolo anteriori all'omologa sui beni oggetto del piano; per i creditori con causa o titolo posteriori all'omologazione al piano non sarà possibile aggredire beni ricompresi nel piano (c.d. beni scudati).
Pensione di reversibilità e criteri di determinazione tra coniuge divorziato e coniuge superstite. La pensione di reversibilità rappresenta un assegno erogato dall'Inps a favore dei familiari dell'assicurato o pensionato iscritto in una delle gestioni previdenziali del predetto istituto. Tale erogazione è riconosciuta al coniuge, anche se legalmente separato, mentre viene riconosciuta al coniuge divorziato solo nel caso in cui si beneficiario dell'assegno periodico divorzile giudizialmente riconosciuto e non sia passato a nuove nozze. Cosa accade, invece, alla pensione di reversibilità se il defunto contrae nuove nozze? La questione è stata affrontata più volte dalla giurisprudenza e recentemente la Suprema Corte di Cassazione ha espresso un principio di diritto, concorde con i precedenti orientamenti. Secondo il Supremo Consesso “ La ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni, ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali – dovendosi riconoscere alla convivenza more uxorio non una semplice valenza “correttiva” dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale – senza mai confondere, però, la durata della convivenza con quella del matrimonio, cui si riferisce il criterio legale, né individuare nell’entità dell’assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso .” (Cass. Civ. 13 novembre2020, n. 25656). Secondo la Cassazione al fine di quantificare la ripartizione della detta pensione a favore del coniuge divorziato e del coniuge superstite, ovviamente laddove sussistano i requisiti da parte di entrambi, si dovrà tenere in considerazione non solo la durata del rapporto matrimoniale, ma anche la durata del rapporto prematrimoniale. Quindi, secondo la Corte, per effettuare la ripartizione della pensione di reversibilità tra più ex coniugi aventi diritto si dovrà prendere in considerazione, oltre alla durata del matrimonio e della convivenza more uxorio, anche le condizioni economiche del richiedente nonché l'entità dell'assegno di mantenimento riconosciuto all'ex coniuge, senza però individuare in tale importo un limite legale alla determinazione della quota di pensione da riconoscere all'ex coniuge. Sempre la Cassazione ha recentemente stabilito che non tutti tali elementi devono necessariamente concorrere né essere valutati in egual misura, rientrando nell'ambito del prudente apprezzamento del giudice di merito la determinazione della loro rilevanza in concreto (Cass., 28 aprile 2020, n. 8263). Infine, si ricorda che la pensione di reversibilità non è attribuibile al coniuge divorziato titolare di un assegno di mantenimento simbolico, in quanto la ratio della pensione di reversibilità è individuabile nel sostegno economico prestato in vita dall'ex coniuge non potendo la stessa realizzare un miglioramento delle condizioni economiche del coniuge divorziato (Cass., 28 settembre 2020, n. 20477).
Riccardo Ventura
Via Albarella
Crema (CR)
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