Avvocato Riccardo Ventura a Crema

Riccardo Ventura

Avvocato a Crema e Treviglio

About     Contatti






La divisione di un immobile abusivo alla luce della recente giurisprudenza.

Scritto da: Riccardo Ventura - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

Il presente contributo intende esaminare sinteticamente il recente arresto delle Sezioni Unite in materia di scioglimento della comunione ereditaria di immobili abusivi.

La Suprema Corte, oltre a delineare l'ambito di applicazione delle nullità previste dalla normativa urbanistica (L. n. 47/1985 e nel D.P.R. n. 380/2001), prende l'occasione per chiarire alcuni aspetti cruciali circa la natura giuridica della divisione.


Il caso da cui trae origine la pronuncia in esame riguarda la curatela di un soggetto fallito che agiva per chiedere l'assegnazione di una porzione immobiliare di proprietà del medesimo. Il fallito, infatti, in forza di successione legittima era titolare, in comproprietà con i due fratelli, di un fabbricato abitativo. Tale immobile presentava piani sopraelevati costruiti in assenza di concessione edilizia, risultando pertanto abusivi. Poste le difficoltà per la divisione si domandava la vendita del fabbricato con conseguente ripartizione di quanto ricavato. In primo grado, preso atto delle contumacia dei convenuti, il Tribunale rigettava la domanda attorea. La Corte di Appello confermava la decisione di primo grado, richiamandosi altresì alla normativa urbanistica e precisamente agli artt. 17 e 40, L. n. 47/1985 e l'art. 46, D.P.R. n. 380/2001 relativi all'abusivismo edilizio, secondo cui la divisione ereditaria non è ricompresa tra gli atti inter vivos per i quali è prevista la comminatoria della nullità in assenza degli estremi della concessione edilizia o della concessione in sanatoria. Tale decisione è stata oggetto di apposito ricorso in Cassazione.


In tale pronuncia la Suprema Corte, prima di definire il caso sottopostole, affronta in modo esaustivo i dubbi che da tempo avvolgevano l'istituto della divisione ereditaria.


In primo luogo, la Suprema Corte afferma la natura di atto inter vivos della divisione ereditaria. A tale conclusione si giunge osservando che solo grazie alla manifestazione di volontà dei comunisti si addiviene all'effetto tipico del negozio divisorio, diversamente dagli atti mortis causa ove è l'evento morto produttivo degli effetti giuridici. Nel caso di divisione ereditaria l'evento morte rappresenta l'antefatto che origina la situazione di comproprietà, non potendo questa rivestire la qualità di presupposto della divisione. Pertanto, gli atti di scioglimento della comunione sono ricompresi nella casistica degli atti soggetti alla nullità prevista dall'art. 46 D.P.R. n. 380/2001.


In secondo luogo, la Corte si interroga sulla natura della divisione, ovvero se la stessa abbia natura dichiarativa o costitutiva. Nella giurisprudenza consolidata all'atto di divisione veniva attribuita natura dichiarativa anche in considerazione della retroattività degli effetti come previsto dall'art. 757 c.c.. Secondo la Corte, tuttavia, l'orientamento appena citato deve essere abbandonato in favore di un nuovo inquadramento della divisione quale negozio avente natura costitutiva. Infatti, appare sensato accogliere tale impostazione in quanto l'atto divisorio produce un effetto modificativo-sostitutivo della divisione, attribuendo specifiche porzioni ai singoli comunisti e modificando la situazione giuridica originaria della comproprietà con una nuova situazione di proprietà esclusiva. In altri termini, in forza dello scioglimento viene a mutare la consistenza dell'oggetto del diritto di proprietà: prima astratto sull'intera massa da dividere; dopo concreto sulla porzione assegnata. Tale ricostruzione non è del tutto nuova, in quanto già in passato alcuni autori avevano accolto la teoria dell'efficacia costitutiva del negozio in oggetto (Dejana, Concetto e natura giuridica del contratto di divisione, in Riv. Dir. Civ., 1939).

La Corte precisa, altresì, che la divisione oltre ad avere una natura costitutiva presenta una causa distributiva-attributiva (G. Amadio, Funzione distributiva e tecniche di apporzionamento nel negozio divisorio, Contratto di divisione e autonomia privata - Convegno svoltosi a Santa Margherita di Pula, 30/31 maggio 2008, in Quaderni della fondazione italiana del Notariato e-library).


È per effetto della distribuzione delle porzioni che viene modificandosi la situazione in capo al condividente, non più comproprietario assieme agli altri comunisti, bensì proprietario esclusivo della porzione. Appaiono evidenti anche i due momenti intrinsecamente collegati di cui consta il fenomeno divisorio: la rinuncia al diritto pro quota e l'acquisto del diritto esclusivo sulla porzione.

È vero che, talvolta, la divisione opera come una mera specificazione concreta della quota astratta, ma non per questo una modifica sostanziale della situazione soggettiva giuridica del comunista non vi è stata. La natura costitutiva, infatti, risiede in tutti quegli atti che innovano, anche solo con modifiche, la realtà giuridica.

A tale costitutività la Corte di cassazione ha ritenuto di affiancare una traslatività dell'atto divisorio.

Sembra ragionevole ritenere, però, che la divisione con efficacia costitutiva non presenti sempre effetti traslativi.

Di fatto, in caso di divisione, solo talvolta si configurano reciproche alienazioni tra condividenti. Si potrà parlare tuttalpiù di divisione costitutiva-traslativa quando la divisione preveda conguagli. Il conguaglio, in effetti, si cala nella dimensione dello scambio, del trasferimento: in caso di difficoltà nella divisione, chi dei condividenti abbia ricevuto una porzione di valore maggiore rispetto alla sua quota è tenuto a versare un conguaglio a titolo di corrispettivo nei confronti del coerede che abbia invece ricevuto una porzione con valore inferiore alla sua quota. Solo in quest'ultimo caso, sembra opportuno qualificare la causa della divisione come anche traslativa, non solo attributiva-distributiva.


Chiariti questi principi di primaria importanza relativi alla natura giuridica della divisione le Sezioni Unite si sono soffermate su due ipotesi più frequenti, ovvero la divisione parziale e la divisione “endoesecutiva” o “endoconcorsuale”

In merito alla prima tipologia di divisione il nostro ordinamento sembrerebbe rifiutare una divisione parziale, posto che la divisione ereditaria deve comprendere tutti i beni facenti parte dell'asse ereditario. Si ricorda, tuttavia, che la giurisprudenza ammette una divisione parziale in virtù di un accordo unanime dei condividenti e definitivo, ossia senza la necessità di successive operazioni di apporzionamento (Cass., 14 novembre 1977, n 4924); la stessa giurisprudenza si è spinta oltre ammettendo anche una divisione parziale in assenza di accordo dei condividenti purché non vi fosse alcuna opposizione giudiziale a tale negozio (Cass., Sez. II, n. 6931 del 8 aprile 2016; Cass., Sez. II, n. 5869 del 24 marzo 2016; Cass., Sez. II, n. 573 del 12 gennaio 2011).

Si consideri, inoltre, che lo stesso codice civile in caso di omessa indicazione di uno o più beni (art. 762 c.c.) non si configura un'ipotesi di nullità della divisione ma si rende necessario procedere all'integrazione del cespite mancante, accogliendo implicitamente la piena validità di una divisione parziale.

Le Sezioni Unite, in definitiva, hanno ritenuto ammissibile una divisione parziale dell'asse ereditario con esclusione del fabbricato abusivo quando vi sia la volontà concorde di tutti i coeredi, rendendo tale atto conforme all'art. 46 D.P.R. n. 380/2001 e all'art. 40, comma II, L. 47/1985, impedendo al singolo coerede di opporsi alla domanda di divisione giudiziale parziale proposta da altro coerede con esclusione dell'immobile abusivo.

Con riferimento alla c.d. divisione “endoesecuvita” o “endoconcorsuale” la Suprema Corte si è soffermata sull'applicabilità o meno dell'art. 46, comme 5, D.P.R. n. 380/2001 e dell'art. 40, comma 5 e 6, L. 47/1985 i quali prevedono l'esclusione della nullità per gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari relative ad immobili abusivi. La ratio di tale norma è individuabile nella volontà del Legislatore di velocizzare la procedura esecutiva diretta al ristoro dei creditore, senza che l'abusivismo di un immobile possa minare la detta procedura.

Orbene, le Sezioni Unite stabiliscono che la divisione di un edificio abusivo che si renda necessaria nell'ambito dell'espropriazione di beni indivisi (divisione c.d. "endoesecutiva") o nell'ambito delle procedure concorsuali (divisione c.d. "endoconcorsuale") sia sottratta alla comminatoria di nullità prevista per gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi in forza delle norma sopra citate.

La Corte evidenzia il rapporto di strumentalità che lega il giudizio di divisione endoesecutivo rispetto al procedimento espropriativo e a sostengo della propria affermazione richiama l'art. 600 c.p.c. alla luce del quale il giudizio di divisione si qualifica come “sviluppo normale di ogni procedura di espropriazione di beni indivisi”.

In fatti, in caso di assenza di richiesta di separazione in natura della quota da parte del creditore pignorante o in caso di impossibilità materiale della separazione, la divisione rappresenta la via ordinaria per procedere alla separazione.


In conclusione, la Suprema Corte ammette la comminatoria di nullità degli atti inter vivos che abbiano ad oggetto edifici abusivi, avente la stessa natura sanzionatoria nei confronti del proprietario di essi (o dei suoi eredi), impedendo agli stessi di disporre dei diritti reali relativi a tali immobili in costanza dell'abusivismo, mentre non prevede la sanzione della nullità rispetto agli atti strumentali all'espropriazione forzata attivata nei confronti del proprietario del fabbricato abusivo. In altri termini, è differente il requisito soggettivo: non si tratta di atti posti in essere ad iniziativa del proprietario dell'immobile abusivo, ma di atti posti in essere in suo danno, ad iniziativa e a vantaggio dei suoi creditori.


Avv. Riccardo Ventura - Avvocato a Crema e Treviglio

Mi chiamo Riccardo Ventura, sono specializzato prevalentemente in diritto civile, commerciale e diritto successorio. Ogni pratica è svolta con la massima professionalità e serietà, dedicando il tempo necessario allo studio della controversia in modo da offrire al cliente un servizio completo e puntuale. Opero prevalentemente in provincia di Cremona, Lodi, Bergamo, Brescia e Milano. Sono iscritto alle liste del Gratuito Patrocinio.




Riccardo Ventura

Esperienza


Diritto condominiale

Sono in grado di offrire assistenza in ambito condominiale sia in caso di controversie tra vicini sia in caso di impugnazioni di delibere condominiali. Nel contempo assisto anche amministratori di condominio nello svolgimento della loro attività sia fornendo consulenze legali sia attivando il recupero del credito nei confronti di condomini morosi.


Eredità e successioni

Nel corso degli anni mi sono specializzato nella materia successoria frequentando corsi di specializzazione nonché assistendo diverse clienti in tale ambito. In particolare, offro assistenza legale per impugnazioni di testamento, divisioni giudiziali, azioni di riduzione nonché attività di consulenza in generale.


Diritto commerciale e societario

Offro assistenza sia giudiziale che stragiudiziale in materia di diritto commerciale (costituzioni di società di persone o di capitali, cessioni di azienda, trasferimenti di partecipazioni, operazioni straordinarie) nonché in tutte le fasi patologiche del rapporto societario (recesso, esclusione, ecc.) garantendo inoltre una consulenza trasversale con altri professionisti quali commercialisti e notai.


Altre categorie:

Gratuito patrocinio, Pignoramento, Diritto civile, Diritto immobiliare, Recupero crediti, Domiciliazioni.


Referenze

Pubblicazione legale

Risarcimento danni in caso di caduta su gradini scivolosi

Pubblicato su IUSTLAB

Risarcimento danni da caduta su gradini scivolosi? Spesso una caduta a terra può comportare gravi lesioni fisiche, anche permanenti, per le quali è consigliabile attivarsi per ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti. In questi casi il soggetto titolare della cosa che ha causato il danno (o quello alla cui custodia-vigilanza è addetto) risponde dei danni provocati a terzi come disciplinato dall'art. 2051 c.c. relativo al danno da cose in custodia. Tale norma prevede espressamente che “ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”. Per la dottrina maggioritaria il danno da cose in custodia rientra nella categoria delle c.d. responsabilità oggettive, ovvero in quelle ipotesi in cui il danneggiante sarà ritenuto responsabile in assenza della prova del caso fortuito, anche se il danno non deriva da dolo o colpa propria del custode. Il caso fortuito, infatti, esonera da responsabilità il custode in quanto interrompe il nesso di causalità intercorrente tra la cosa e l'evento dannoso. In mancanza della prova del caso fortuito il custode sarà comunque responsabile anche se ha operato con la diligenza richiesta. Quando opera la responsabilità da cose in custodia? Ai fini dell'operatività della norma in esame sarà necessario, oltre all'affidamento in custodia di una cosa ad un soggetto, anche che la cosa abbia svolto un ruolo dinamico nella causazione del sinistro e che il custode abbia un effettivo potere di controllo sulla cosa, non temporaneo ed occasionale. Con riferimento all'onere probatorio, l'art. 2051 c.c. stabilisce in capo al danneggiato la prova del nesso causale fra la cosa in custodia e l’evento lesivo oltre all’esistenza del rapporto di custodia, Diversamente il custode dovrà provare l’esistenza di un fattore esterno che abbia quei requisiti di imprevedibilità e di eccezionalità sufficienti ad interrompere il nesso di causalità, ossia la prova del caso fortuito o della forza maggiore. Novità in tema di onere probatorio La Corte di Cassazione con l'ordinanza del giorno 11 febbraio 2021 n. 3589 ha precisato nuovamente i confini dell'onere probatorio richiesto al custode per andare esente da responsabilità. Il caso deciso riguarda una caduta di un soggetto durante un incontro di calcio sui gradoni dello stadio Olimpico resi scivolosi dalla presenza di una sostanza oleosa. In primo grado il giudice solleva l'ente gestore da ogni responsabilità in quanto lo sversamento della sostanza oleosa era attribuibile a terzi. In appello, invece, viene addebitata la responsabilità dall'ente gestore in quanto non è stata fornita la prova liberatoria richiesta dall'art. 2051 c.c. La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso promosso dal custode, ha stabilito che nei casi dell'art. 2051 c.c. il danneggiato ha l’onere di provare il nesso causale tra il danno subito e il dinamismo della cosa, mentre grava sul custode la prova liberatoria del fortuito e va evidenziato come la condotta del terzo che abbia reso la cosa pericolosa rientra tra i casi di prova liberatoria, ossia integra il caso fortuito quando, data l’immediatezza del danno rispetto alla condotta del terzo, il custode non ha avuto la possibilità di intervenire ed impedire il pregiudizio; pertanto è necessario che il custode dimostri che l'evento sia stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili.

Pubblicazione legale

La delibera assembleare è necessaria per la mediazione obbligatoria in materia condominiale – Cass. n. 10846/2020

Pubblicato su IUSTLAB

Chi intenda esercitare in giudizio un'azione relativa, fra l'altro, ad una controversia in materia condominiale, è tenuto in via preliminare ad esperire il procedimento di mediazione obbligatoria ai sensi del medesimo D.Lgs. n. 28 del 2010. L'art. 71-quater disp.att. c.c. precisa che le controversie in materia di condominio, ai sensi del citato art. 5 D.Lgs. n. 28 del 2010, si intendono quelle relative alla violazione o dall'errata applicazione degli artt. da 1117 a 1139 c.c. e da 61 a 72 disp.att.c.c. In assenza dell'esperimento del procedimento di mediazione la domanda giudiziale sarà improcedibile. La sentenza in commento esamina alcuni aspetti giuridici in materia condominiale di grande interesse pratico tra cui la capacità di stare in giudizio dell'amministratore condominiale e la legittimazione a conciliare. Nel caso in esame il Giudice di Pace di Roma aveva dichiarato improcedibile la domanda proposta dal condominio nei confronti di una condomina morosa di oneri condominiali in quanto l'attore non aveva attivato la procedura di mediazione a causa della omessa adozione da parte dell'assemblea condominiale di apposita delibera. Nel giudizio di gravame instaurato dal condominio attore il Tribunale confermava la decisione del Giudice di Pace rilevando il mancato svolgimento della mediazione di cui al D.Lgs. 28/2010 per esclusiva responsabilità del condominio. In seguito il condominio presentava ricorso in Cassazione al fine di ottenere la riforma della precedente decisione. La Suprema Corte rigettava il ricorso confermando l'impostazione dettata dal Tribunale di Roma. In particolare, secondo la Cassazione, il tenore letterale dell'art. 71 quater disp. att. c.c., comma 3, conduce alle medesime conclusioni del Tribunale ossia che il tentativo di mediazione non può essere esperito laddove l'amministratore di condominio intervenga a tale incontro sprovvisto della delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all'art. 1136 c.c. comma 2. Il fatto che la fattispecie per la quale è stato instaurato il giudizio (recupero spese condominiali) sia ricompresa nelle attribuzioni dell'amministratore ai sensi dell'art. 1130 c.c., e pertanto, il medesimo sia legittimato ad agire in giudizio senza necessità della delibera assembleare (art. 1131 c.c.) non giustifica l'assenza di apposita deliberazione assembleare che lo autorizzi specificatamente ad intervenire al procedimento di mediazione. La ratio di tale tesi è riscontrabile nell'assenza in capo all'amministratore di autonomi poteri di disposizione dei diritti sostanziali connessi alla mediazione stessa, in altri termini il potere di transigere e conciliare non è attribuito ex lege all'amministratore (Cass. n. 8473/2019). Spetta infatti all'assemblea (e non all'amministratore) il "potere" di approvare una transazione riguardante spese d'interesse comune, ovvero di delegare l'amministratore a conciliare, fissando gli eventuali limiti dell'attività transattiva affidatagli (cfr. Cass. n. 821/2014; Cass. Sez. n. 1994/1980). Parimenti, l'art. 1129 c.c., comma 9 (sempre introdotto dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220) obbliga l'amministratore ad " agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale sia compreso il credito esigibile, a meno che non sia stato espressamente dispensato dall'assemblea ", non rientrando, quindi, tra le attribuzioni dell'amministratore il potere di pattuire con i condomini morosi dilazioni di pagamento o accordi transattivi senza apposita autorizzazione dell'assemblea. La massima della sentenza in esame è la seguente: “Nelle liti condominiali sottoposte all’obbligo di mediazione (tali essendo quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione delle norme di diritto comune sul condominio negli edifici e quelle promosse per la riscossione dei contributi condominiali), l’amministratore di condominio è tenuto a procurarsi, eventualmente previo differimento dell’incontro di mediazione, la delibera autorizzativa adottata dall’assemblea con il voto di condomini che rappresentino la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del fabbricato. Ove ciò non avvenga, secondo l’ordinanza n. 10846 della Suprema Corte, la mediazione non può essere neppure avviata e le domande giudiziali proposte dal condominio sono improcedibili”.

Pubblicazione legale

Il socio di s.r.l può essere anche dipendente?

Pubblicato su IUSTLAB

Con riferimento alla possibilità per un medesimo soggetto di rivestire contestualmente la qualifica di socio e quella di dipendente di una s.r.l. si fa presente che tale ipotesi è ammessa dalla giurisprudenza in materia. Per far sì che venga a configurarsi un effettivo rapporto di lavoro subordinato è necessario che tra il datore di lavoro ed il dipendente si instauri un vincolo di subordinazione in forza del quale al primo è attribuito il potere organizzativo e disciplinare caratterizzato dall'emanazione di ordini specifici oltre che dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e di controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative del secondo (Tribunale di Firenze 21 gennaio 2016). In conformità al citato principio deve escludersi la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato in tutti quei casi in cui la figura amministrativa della s.r.l. (ossia il datore di lavoro) coincida con quella del dipendente, per esempio nel caso di una società in cui l’amministratore unico sia anche socio e dipendente della medesima non venendo ad esistenza il vincolo di subordinazione. Diversamente, qualora il socio non rivesta cariche amministrative lo stesso può anche rivestire la qualifica di dipendente essendo sottoposto al potere direttivo dell’amministratore della società. Oltre a queste casistiche per così dire pacifiche è inoltre opportuno ricordare come vi siano alcuni precedenti giurisprudenziali in cui viene ammesso che il socio-dipendente sia anche membro del consiglio di amministrazione purché le attribuzioni amministrative del medesimo siano ben delimitate senza possibilità di interferire nella gestione di quel poter direttivo/disciplinare tipico del datore di lavoro. In altri termini, dovrà essere documentata in concreto la subordinazione del socio-dipendente-amministratore rispetto all’organo amministrativo che sarà per forza di cose collegiale e non unipersonale. Per tali ragioni sarebbe opportuno evitare che il socio-dipendente della s.r.l. rivesta anche la qualifica di amministratore (ipotizziamo membro del C.d.a.) in quanto potrebbe verificarsi un concreto pericolo di accertamento ispettivo da parte della preposta autorità, a meno che non vi siano delle specifiche deleghe limitative dei poteri in modo che la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro siano ricollegabili ad una volontà della società distinta da quella del singolo amministratore. E' inoltre utile esaminare anche le conseguenze di eventuali dimissioni del dipendente/recesso del socio. Infatti, durante la vita della società, un dipendente potrebbe rassegnare le proprie dimissioni oppure essere licenziato per vari motivi. In tali casi, senza la specifica previsione di clausole statutarie, si determinerebbe una situazione paradossale nella quale l’ex dipendente (licenziato o dimesso) abbia ancora la titolarità di una quota di partecipazione nella società e possa comunque accedere a tutte quelle informazioni sociali a cui ogni socio ha diritto ad accedervi, con potenziale danno alla segretezza di informazioni riservate e strategiche per l’attività sociale; oltre al fatto che avrebbe diritto alla quota di utili allo stesso spettanti. Per evitare tale complicata situazione sarebbe opportuno prevedere già nello statuto sociale delle clausole che rendano obbligatoria per il dipendente la dismissione della propria quota di partecipazione, in modo da coordinare sia gli aspetti legati al rapporto di lavoro sia quelli relativi al rapporto sociale. Sul punto si richiama la recente sentenza della Corte d’Appello di Torino del 30 giugno 2021, nella quale è stata esaminata la validità di una clausola di “riscatto” della quota di partecipazione del socio-dipendente nel caso di interruzione del rapporto di lavoro. Tali clausole possono riguardare sia il socio-dipendente sia l’amministratore-dipendente e si possono suddividere in due macro categorie a seconda dell’effettiva causa che sta alla base dell’interruzione del rapporto di lavoro: il c.d. "good-leaver": per il dipendente, il licenziamento giustificato da motivi di carattere oggettivo o ingiustificato, le dimissioni per giusta causa, oltre alla risoluzione consensuale del rapporto, morte o invalidità permanente il cui avverarsi lascia immutato il diritto a conservare le partecipazioni sociali rivenienti dal loro esercizio in capo all'ex-dipendente (o amministratore); e il c.d. "bad-leaver" ("cattivo-partente"): es., con riferimento al dipendente, il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, nonché le dimissioni volontarie il cui accadimento determina la decadenza dei diritti connessi alle partecipazioni sociali. Sarà opportuno prevedere nel testo dello statuto sociale clausole di questo tenore al fine di meglio disciplinare tuttei vari scenari verificabili durante la vita della società.

Leggi altre referenze (17)

Lo studio

Riccardo Ventura
Via Albarella
Crema (CR)

Contatti:

Telefono WhatsApp Email

Per informazioni e richieste

Contatta l'Avv. Ventura:

Contatta l'Avv. Ventura per sottoporre il tuo caso:

Nome e cognome:
Città:
Email:
Telefono:
Descrivi la tua richiesta:
Telefono WhatsApp Email

Accetto l’informativa sulla privacy ed il trattamento dati

Telefono Email Chat
IUSTLAB

Il portale giuridico al servizio del cittadino ed in linea con il codice deontologico forense.
© Copyright IUSTLAB - Tutti i diritti riservati
Privacy e cookie policy