Avvocato Riccardo Ventura a Crema

Riccardo Ventura

Avvocato a Crema e Treviglio


Informazioni generali

Mi chiamo Riccardo Ventura, sono specializzato prevalentemente in diritto civile, commerciale e diritto successorio. Ogni pratica è svolta con la massima professionalità e serietà, dedicando il tempo necessario allo studio della controversia in modo da offrire al cliente un servizio completo e puntuale. Opero prevalentemente in provincia di Cremona, Lodi, Bergamo, Brescia e Milano. Sono iscritto alle liste del Gratuito Patrocinio.

Esperienza


Diritto condominiale

Sono in grado di offrire assistenza in ambito condominiale sia in caso di controversie tra vicini sia in caso di impugnazioni di delibere condominiali. Nel contempo assisto anche amministratori di condominio nello svolgimento della loro attività sia fornendo consulenze legali sia attivando il recupero del credito nei confronti di condomini morosi.


Eredità e successioni

Nel corso degli anni mi sono specializzato nella materia successoria frequentando corsi di specializzazione nonché assistendo diverse clienti in tale ambito. In particolare, offro assistenza legale per impugnazioni di testamento, divisioni giudiziali, azioni di riduzione nonché attività di consulenza in generale.


Diritto commerciale e societario

Offro assistenza sia giudiziale che stragiudiziale in materia di diritto commerciale (costituzioni di società di persone o di capitali, cessioni di azienda, trasferimenti di partecipazioni, operazioni straordinarie) nonché in tutte le fasi patologiche del rapporto societario (recesso, esclusione, ecc.) garantendo inoltre una consulenza trasversale con altri professionisti quali commercialisti e notai.


Altre categorie:

Gratuito patrocinio, Pignoramento, Diritto civile, Diritto immobiliare, Recupero crediti, Domiciliazioni.


Referenze

Pubblicazione legale

Risarcimento danni in caso di caduta su gradini scivolosi

Pubblicato su IUSTLAB

Risarcimento danni da caduta su gradini scivolosi? Spesso una caduta a terra può comportare gravi lesioni fisiche, anche permanenti, per le quali è consigliabile attivarsi per ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti. In questi casi il soggetto titolare della cosa che ha causato il danno (o quello alla cui custodia-vigilanza è addetto) risponde dei danni provocati a terzi come disciplinato dall'art. 2051 c.c. relativo al danno da cose in custodia. Tale norma prevede espressamente che “ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”. Per la dottrina maggioritaria il danno da cose in custodia rientra nella categoria delle c.d. responsabilità oggettive, ovvero in quelle ipotesi in cui il danneggiante sarà ritenuto responsabile in assenza della prova del caso fortuito, anche se il danno non deriva da dolo o colpa propria del custode. Il caso fortuito, infatti, esonera da responsabilità il custode in quanto interrompe il nesso di causalità intercorrente tra la cosa e l'evento dannoso. In mancanza della prova del caso fortuito il custode sarà comunque responsabile anche se ha operato con la diligenza richiesta. Quando opera la responsabilità da cose in custodia? Ai fini dell'operatività della norma in esame sarà necessario, oltre all'affidamento in custodia di una cosa ad un soggetto, anche che la cosa abbia svolto un ruolo dinamico nella causazione del sinistro e che il custode abbia un effettivo potere di controllo sulla cosa, non temporaneo ed occasionale. Con riferimento all'onere probatorio, l'art. 2051 c.c. stabilisce in capo al danneggiato la prova del nesso causale fra la cosa in custodia e l’evento lesivo oltre all’esistenza del rapporto di custodia, Diversamente il custode dovrà provare l’esistenza di un fattore esterno che abbia quei requisiti di imprevedibilità e di eccezionalità sufficienti ad interrompere il nesso di causalità, ossia la prova del caso fortuito o della forza maggiore. Novità in tema di onere probatorio La Corte di Cassazione con l'ordinanza del giorno 11 febbraio 2021 n. 3589 ha precisato nuovamente i confini dell'onere probatorio richiesto al custode per andare esente da responsabilità. Il caso deciso riguarda una caduta di un soggetto durante un incontro di calcio sui gradoni dello stadio Olimpico resi scivolosi dalla presenza di una sostanza oleosa. In primo grado il giudice solleva l'ente gestore da ogni responsabilità in quanto lo sversamento della sostanza oleosa era attribuibile a terzi. In appello, invece, viene addebitata la responsabilità dall'ente gestore in quanto non è stata fornita la prova liberatoria richiesta dall'art. 2051 c.c. La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso promosso dal custode, ha stabilito che nei casi dell'art. 2051 c.c. il danneggiato ha l’onere di provare il nesso causale tra il danno subito e il dinamismo della cosa, mentre grava sul custode la prova liberatoria del fortuito e va evidenziato come la condotta del terzo che abbia reso la cosa pericolosa rientra tra i casi di prova liberatoria, ossia integra il caso fortuito quando, data l’immediatezza del danno rispetto alla condotta del terzo, il custode non ha avuto la possibilità di intervenire ed impedire il pregiudizio; pertanto è necessario che il custode dimostri che l'evento sia stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili.

Pubblicazione legale

La delibera assembleare è necessaria per la mediazione obbligatoria in materia condominiale – Cass. n. 10846/2020

Pubblicato su IUSTLAB

Chi intenda esercitare in giudizio un'azione relativa, fra l'altro, ad una controversia in materia condominiale, è tenuto in via preliminare ad esperire il procedimento di mediazione obbligatoria ai sensi del medesimo D.Lgs. n. 28 del 2010. L'art. 71-quater disp.att. c.c. precisa che le controversie in materia di condominio, ai sensi del citato art. 5 D.Lgs. n. 28 del 2010, si intendono quelle relative alla violazione o dall'errata applicazione degli artt. da 1117 a 1139 c.c. e da 61 a 72 disp.att.c.c. In assenza dell'esperimento del procedimento di mediazione la domanda giudiziale sarà improcedibile. La sentenza in commento esamina alcuni aspetti giuridici in materia condominiale di grande interesse pratico tra cui la capacità di stare in giudizio dell'amministratore condominiale e la legittimazione a conciliare. Nel caso in esame il Giudice di Pace di Roma aveva dichiarato improcedibile la domanda proposta dal condominio nei confronti di una condomina morosa di oneri condominiali in quanto l'attore non aveva attivato la procedura di mediazione a causa della omessa adozione da parte dell'assemblea condominiale di apposita delibera. Nel giudizio di gravame instaurato dal condominio attore il Tribunale confermava la decisione del Giudice di Pace rilevando il mancato svolgimento della mediazione di cui al D.Lgs. 28/2010 per esclusiva responsabilità del condominio. In seguito il condominio presentava ricorso in Cassazione al fine di ottenere la riforma della precedente decisione. La Suprema Corte rigettava il ricorso confermando l'impostazione dettata dal Tribunale di Roma. In particolare, secondo la Cassazione, il tenore letterale dell'art. 71 quater disp. att. c.c., comma 3, conduce alle medesime conclusioni del Tribunale ossia che il tentativo di mediazione non può essere esperito laddove l'amministratore di condominio intervenga a tale incontro sprovvisto della delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all'art. 1136 c.c. comma 2. Il fatto che la fattispecie per la quale è stato instaurato il giudizio (recupero spese condominiali) sia ricompresa nelle attribuzioni dell'amministratore ai sensi dell'art. 1130 c.c., e pertanto, il medesimo sia legittimato ad agire in giudizio senza necessità della delibera assembleare (art. 1131 c.c.) non giustifica l'assenza di apposita deliberazione assembleare che lo autorizzi specificatamente ad intervenire al procedimento di mediazione. La ratio di tale tesi è riscontrabile nell'assenza in capo all'amministratore di autonomi poteri di disposizione dei diritti sostanziali connessi alla mediazione stessa, in altri termini il potere di transigere e conciliare non è attribuito ex lege all'amministratore (Cass. n. 8473/2019). Spetta infatti all'assemblea (e non all'amministratore) il "potere" di approvare una transazione riguardante spese d'interesse comune, ovvero di delegare l'amministratore a conciliare, fissando gli eventuali limiti dell'attività transattiva affidatagli (cfr. Cass. n. 821/2014; Cass. Sez. n. 1994/1980). Parimenti, l'art. 1129 c.c., comma 9 (sempre introdotto dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220) obbliga l'amministratore ad " agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale sia compreso il credito esigibile, a meno che non sia stato espressamente dispensato dall'assemblea ", non rientrando, quindi, tra le attribuzioni dell'amministratore il potere di pattuire con i condomini morosi dilazioni di pagamento o accordi transattivi senza apposita autorizzazione dell'assemblea. La massima della sentenza in esame è la seguente: “Nelle liti condominiali sottoposte all’obbligo di mediazione (tali essendo quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione delle norme di diritto comune sul condominio negli edifici e quelle promosse per la riscossione dei contributi condominiali), l’amministratore di condominio è tenuto a procurarsi, eventualmente previo differimento dell’incontro di mediazione, la delibera autorizzativa adottata dall’assemblea con il voto di condomini che rappresentino la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del fabbricato. Ove ciò non avvenga, secondo l’ordinanza n. 10846 della Suprema Corte, la mediazione non può essere neppure avviata e le domande giudiziali proposte dal condominio sono improcedibili”.

Pubblicazione legale

Il socio di s.r.l può essere anche dipendente?

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Con riferimento alla possibilità per un medesimo soggetto di rivestire contestualmente la qualifica di socio e quella di dipendente di una s.r.l. si fa presente che tale ipotesi è ammessa dalla giurisprudenza in materia. Per far sì che venga a configurarsi un effettivo rapporto di lavoro subordinato è necessario che tra il datore di lavoro ed il dipendente si instauri un vincolo di subordinazione in forza del quale al primo è attribuito il potere organizzativo e disciplinare caratterizzato dall'emanazione di ordini specifici oltre che dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e di controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative del secondo (Tribunale di Firenze 21 gennaio 2016). In conformità al citato principio deve escludersi la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato in tutti quei casi in cui la figura amministrativa della s.r.l. (ossia il datore di lavoro) coincida con quella del dipendente, per esempio nel caso di una società in cui l’amministratore unico sia anche socio e dipendente della medesima non venendo ad esistenza il vincolo di subordinazione. Diversamente, qualora il socio non rivesta cariche amministrative lo stesso può anche rivestire la qualifica di dipendente essendo sottoposto al potere direttivo dell’amministratore della società. Oltre a queste casistiche per così dire pacifiche è inoltre opportuno ricordare come vi siano alcuni precedenti giurisprudenziali in cui viene ammesso che il socio-dipendente sia anche membro del consiglio di amministrazione purché le attribuzioni amministrative del medesimo siano ben delimitate senza possibilità di interferire nella gestione di quel poter direttivo/disciplinare tipico del datore di lavoro. In altri termini, dovrà essere documentata in concreto la subordinazione del socio-dipendente-amministratore rispetto all’organo amministrativo che sarà per forza di cose collegiale e non unipersonale. Per tali ragioni sarebbe opportuno evitare che il socio-dipendente della s.r.l. rivesta anche la qualifica di amministratore (ipotizziamo membro del C.d.a.) in quanto potrebbe verificarsi un concreto pericolo di accertamento ispettivo da parte della preposta autorità, a meno che non vi siano delle specifiche deleghe limitative dei poteri in modo che la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro siano ricollegabili ad una volontà della società distinta da quella del singolo amministratore. E' inoltre utile esaminare anche le conseguenze di eventuali dimissioni del dipendente/recesso del socio. Infatti, durante la vita della società, un dipendente potrebbe rassegnare le proprie dimissioni oppure essere licenziato per vari motivi. In tali casi, senza la specifica previsione di clausole statutarie, si determinerebbe una situazione paradossale nella quale l’ex dipendente (licenziato o dimesso) abbia ancora la titolarità di una quota di partecipazione nella società e possa comunque accedere a tutte quelle informazioni sociali a cui ogni socio ha diritto ad accedervi, con potenziale danno alla segretezza di informazioni riservate e strategiche per l’attività sociale; oltre al fatto che avrebbe diritto alla quota di utili allo stesso spettanti. Per evitare tale complicata situazione sarebbe opportuno prevedere già nello statuto sociale delle clausole che rendano obbligatoria per il dipendente la dismissione della propria quota di partecipazione, in modo da coordinare sia gli aspetti legati al rapporto di lavoro sia quelli relativi al rapporto sociale. Sul punto si richiama la recente sentenza della Corte d’Appello di Torino del 30 giugno 2021, nella quale è stata esaminata la validità di una clausola di “riscatto” della quota di partecipazione del socio-dipendente nel caso di interruzione del rapporto di lavoro. Tali clausole possono riguardare sia il socio-dipendente sia l’amministratore-dipendente e si possono suddividere in due macro categorie a seconda dell’effettiva causa che sta alla base dell’interruzione del rapporto di lavoro: il c.d. "good-leaver": per il dipendente, il licenziamento giustificato da motivi di carattere oggettivo o ingiustificato, le dimissioni per giusta causa, oltre alla risoluzione consensuale del rapporto, morte o invalidità permanente il cui avverarsi lascia immutato il diritto a conservare le partecipazioni sociali rivenienti dal loro esercizio in capo all'ex-dipendente (o amministratore); e il c.d. "bad-leaver" ("cattivo-partente"): es., con riferimento al dipendente, il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, nonché le dimissioni volontarie il cui accadimento determina la decadenza dei diritti connessi alle partecipazioni sociali. Sarà opportuno prevedere nel testo dello statuto sociale clausole di questo tenore al fine di meglio disciplinare tuttei vari scenari verificabili durante la vita della società.

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Lo studio

Riccardo Ventura
Via Albarella
Crema (CR)

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