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Patto di stabilità e patto di non concorrenza

Scritto da: Riccardo Ventura - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

Patto di stabilità e patto di non concorrenza.

Molto spesso il datore di lavoro ha la necessità di stipulare, con i propri dipendenti, accordi in forza dei quali tutelare sia la fase iniziale del rapporto di lavoro (formativa) sia quella finale successiva all’interruzione del rapporto di lavoro. In particolare, gli strumenti giuridici a disposizione del datore di lavoro possono essere individuati nel patto di stabilità e nel patto di non concorrenza. Di seguito verranno illustrate gli aspetti salienti dei detti negozi giuridici.

1)   DEFINIZIONE DEL PATTO DI STABILITA’

Il patto di stabilità consiste in una clausola di durata minima del rapporto di lavoro che limita, per un periodo prefissato, la possibilità di una o di entrambe le parti di recedere dal contratto di lavoro, a meno che non si verifichi una giusta causa di recesso o di impossibilità sopravvenuta della prestazione.

Viene sostanzialmente limitato con tale patto la facoltà di recedere unilateralmente dal rapporto di lavoro prima dello scadere di un determinato tempo.

In passato vi erano perplessità circa la previsione di una tale clausola in favore del solo datore di lavoro, ma successivamente anche la giurisprudenza di legittimità ha rilevato che "non contrasta con alcuna norma o principio dell'ordinamento giuridico il pactum de non recedendo con cui il lavoratore, disponendo della propria facoltà di recesso, si vincola unilateralmente a non dimettersi dal rapporto di lavoro prima dello scadere del termine di durata minima convenuto tra le parti. È ammissibile la clausola con cui, in caso di dimissioni anticipate, si stabilisce a carico del lavoratore l'obbligo del risarcimento del danno, anche con le modalità della penale ex art. 1382 c.c." (Cass., 7 settembre 2005, n. 17817).

Condizioni e limiti del patto di stabilità

Il patto di stabilità può essere previsto sia nel momento iniziale del rapporto di lavoro (in questo caso viene anche definito come “clausola di durata minima garantita”) sia in costanza dello stesso. Può essere posto:

- a carico del solo datore di lavoro (che si impegna a non licenziare il dipendente che chiede il patto per tutelarsi per un periodo minimo);

- a carico del solo lavoratore (che si impegna a non dimettersi, di regola a fronte del pagamento di un corrispettivo, per garantire al datore di lavoro un minimo di stabilità);

- per entrambe le parti.

Si precisa, tuttavia, che in caso di patto di stabilità in favore del solo datore di lavoro al lavoratore deve essere riconosciuto un corrispettivo proporzionato al sacrificio richiesto, consistente anche in particolari investimenti economici e/o formativi della risorsa. E’ possibile, infatti, prevedere un obbligo contrattuale per il lavoratore di rimborsare il datore di lavoro dei costi della formazione sostenuta in caso di recesso anticipato del dipendente.

Sul punto si segnala la recente sentenza del Tribunale di Velletri (n. 305 del 21 febbraio 2017) con la quale è stata confermata la legittimità del patto in questione quando da parte del datore di lavoro sia stato sostenuto un reale costo finalizzato alla formazione del lavoratore e che quindi sia interessato “a poter beneficiare per un periodo di tempo minimo ritenuto congruo, del bagaglio di conoscenze acquisiti dal lavoratore”.

Durata

In assenza di riferimenti normativi sul punto la dottrina ha sostenuto, per analogia con il contratto a termine, che il la limitazione temporale massima dovrebbe essere di tre anni, ad oggi attualizzato ai 24 mesi di durata massima del contratto a tempo determinato prevista dalla legge (art. 19, D.Lgs. n. 81/2015).

Strumenti di tutela del datore di lavoro in caso di violazione del patto

Al fine di tutelare l’investimento economico del datore di lavoro è consigliabile prevedere nel citato patto una clausola penale che possa predeterminare l’importo che il lavoratore dovrà corrispondere al datore di lavoro in caso di dimissioni ante tempo. La penale, si ricorda può essere equamente diminuita dal Giudice ai sensi dell’art.1384 c.c. i) se l’obbligazione principale è stata in parte eseguita; ii) se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo avuto riguardo all’interesse del datore di lavoro.

Da ultimo si segnala che è ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza (Cass. n. 21646 del 26 ottobre 2017; Tribunale di Udine, sez. lav., n. 38 del 21 febbraio 2022) anche la compensazione con il TFR dei crediti del datore di lavoro tra i quali può essere inclusa detta penale.

 

2) DEFINIZIONE DEL PATTO DI NON CONCORRENZA

 

Il patto di non concorrenza, disciplinato dall'art. 2125 c.c., è un contratto a prestazioni corrispettive ed a titolo oneroso in forza del quale il lavoratore, dietro pagamento di un corrispettivo da parte del datore di lavoro, si impegna a non svolgere attività concorrenziale per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. La finalità del patto consiste nell'interesse dell'imprenditore di tutelare il proprio know-how aziendale ed evitare che l'ex lavoratore possa mettere a disposizione di aziende concorrenti quanto appreso durante la precedente attività lavorativa cessata.

In conformità della citata normativa codicistica il patto di non concorrenza deve, a pena di nullità:

- risultare da atto scritto;

- essere contenuto entro predeterminati limiti di oggetto, luogo e tempo;

- prevedere un corrispettivo congruo.

Forma e durata

Con riferimento alla forma ed alla durata del patto non sussistono particolari problemi in quanto sono espressamente disciplinati dall'art. 2125 c.c.. Lo stesso patto può essere previsto direttamente nel contratto di lavoro, al momento dell'assunzione, oppure può essere stipulato con un documento separato in un momento successivo. La forma scritta è richiesta ad substantiam, pena la nullità. La durata del patto, invece, non deve essere superiore ad anni tre per il personale dipendente ed anni cinque per dirigenti.

Oggetto

In merito all'oggetto, invece, sebbene il dato letterale dell'art. 2125 c.c. sembrerebbe consentire la limitazione di qualunque attività esercitata dall'ex dipendente dopo la cessazione del rapporto, un'interpretazione tanto estensiva comporterebbe per lo stesso l'impossibilità di svolgere qualsivoglia attività lavorativa in violazione del principio generale secondo cui al lavoratore deve essere comunque consentito di esplicare la propria professionalità ed assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita, anche dopo la cessazione del precedente rapporto di lavoro (Cass., 4 aprile 2006, n. 7835; Trib. di Modena 23 maggio 2019; Cass. 4 agosto 2021, n. 22247; Cass. 25 agosto 2021, n. 23418).

La giurisprudenza ha così affermato la nullità del patto qualora il limite all'utilizzo della professionalità del lavoratore sia compressa al punto tale da privarlo di qualunque potenzialità reddituale.

La Suprema Corte ha poi precisato che "il patto di non concorrenza, previsto dall'art. 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso è, però, nullo allorché la sua ampiezza è tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale" (Cass., 10 settembre 2003, n. 13282; App. Milano, 17 marzo 2006; Trib. Ravenna, 24 marzo 2005; Trib. Milano, 31 luglio 2003; Trib. Milano, 4 marzo 2009).

Territorio

Ulteriore elemento che deve essere specificamente individuato nel patto di non concorrenza è la limitazione geografica, pena la nullità.

Sono pacificamente ritenuti legittimi patti estesi non solo all'Italia, ma anche all'intero territorio europeo anche se la congruità del limite territoriale andrà comunque valutata di volta in volta, insieme all'oggetto, tenendo conto del fatto che tanto più è ampio l'oggetto del patto, tanto più sarebbe opportuno delimitare l'operatività solo ad alcune zone, o, quantomeno, prevedere un compenso più elevato, per proporzionarlo al maggior sacrificio del lavoratore. In altri termini deve essere trovato sempre un bilanciamento tra il corrispettivo del lavoratore e le limitazioni imposte allo stesso.

Unico limite all'estensione del patto de quo è, tuttavia, come detto, quello di consentire, al lavoratore di svolgere un'attività coerente con la propria esperienza e la propria professionalità.

La congruità del corrispettivo

Il sacrificio richiesto al lavoratore in caso di cessazione del rapporto di lavoro deve essere remunerato da un corrispettivo che dovrà essere congruo in relazione alla retribuzione del dipendente, alla sua professionalità ed al suo inquadramento, alle sue mansioni e più in generale ai vincoli di oggetto, territorio e durata contenuti nel patto di non concorrenza.

Sul quantum e sul quomodo del versamento del corrispettivo il Legislatore ha lasciato alle parti ampia autonomia contrattuale: in ogni caso il corrispettivo non può consistere in compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno (Cass. n. 23418/2021; Cass. n. 9790/2020).

La modalità del pagamento

In assenza di precise previsioni normative sul punto, il corrispettivo del patto di non concorrenza viene talvolta pagato mediante:

- corresponsione periodica;

- in misura fissa;

- durante il rapporto di lavoro; o

- con corresponsione dell'importo pattuito in una o più soluzioni dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

Strumenti di tutela del datore di lavoro in caso di violazione del patto

In merito agli strumenti di tutela per il datore di lavoro, contro il proprio ex dipendente che violi il patto di non concorrenza regolarmente stipulato e retribuito, si rileva quanto segue:

a) disinteresse del datore di lavoro all'adempimento del patto.

Il datore di lavoro dovrà valutare la situazione e, qualora ritenesse di non essere più interessato ad ottenere l'adempimento del patto di non concorrenza, potrà risolvere il patto stesso per inadempimento dell'altra parte contraente e chiedere la restituzione del corrispettivo pagato, oltre al risarcimento dei danni provocati dall'attività svolta dall'ex dipendente (in tal caso nel contratto può essere anche stabilita un'apposita penale diretta a predeterminare l'ammontare dei danni).

b) interesse del datore di lavoro all'adempimento del patto.

In alternativa, qualora vi fosse un concreto e vivo interesse al rispetto del patto, il datore di lavoro potrebbe chiedere l'adempimento del detto patto, anche con una procedura di urgenza ex art. 700 c.p.c., al fine di ottenere dal giudice un'inibitoria che vieti al lavoratore di continuare a svolgere l'attività concorrenziale (potendo poi il datore chiedere nel giudizio ordinario il ristoro dei danni patiti). Nel caso venga provata la violazione del patto di non concorrenza il giudice concedere la tutela inibitoria e ordinare al lavoratore di cessare la condotta illecita, eventualmente anche ordinando di porre fine al rapporto di lavoro in essere.

 


Avv. Riccardo Ventura - Avvocato a Crema e Treviglio

Mi chiamo Riccardo Ventura, sono specializzato prevalentemente in diritto civile, commerciale e diritto successorio. Ogni pratica è svolta con la massima professionalità e serietà, dedicando il tempo necessario allo studio della controversia in modo da offrire al cliente un servizio completo e puntuale. Opero prevalentemente in provincia di Cremona, Lodi, Bergamo, Brescia e Milano. Sono iscritto alle liste del Gratuito Patrocinio.




Riccardo Ventura

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Nel corso degli anni mi sono specializzato nella materia successoria frequentando corsi di specializzazione nonché assistendo diverse clienti in tale ambito. In particolare, offro assistenza legale per impugnazioni di testamento, divisioni giudiziali, azioni di riduzione nonché attività di consulenza in generale.


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Referenze

Pubblicazione legale

Dichiarazione di successione ed accettazione tacita di eredità

Pubblicato su IUSTLAB

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21006/2021 ribadisce il principio secondo il quale il chiamato all'eredità non risponde dei debiti (tributari) se abbia appositamente rinunciato all'eredità ad esso devoluta, nemmeno per il periodo intercorrente tra la la presentazione della dichiarazione di successione e l'atto di rinuncia. Prima di esaminare l'iter giuridico seguito dalla Suprema Corte è utile richiamare sinteticamente gli aspetti salienti della rinuncia all'eredità. Tale istituto è ricompreso nei negozi giuridici unilaterali non recettizi e consente al chiamato all'eredità di manifestare la propria volontà di non acquisire l'eredità ad esso spettante. Trattasi di un negozio solenne per il quale è prevista ad substantiam la forma dell'atto pubblico, non potendo lo stesso rivestire la forma della scrittura privata autenticata. A fini pubblicitari, per rendere edotti i terzi della rinunzia all'eredità, la medesima deve essere inserita nel registro delle successioni, rendendola così opponibile ai terzi. Con riferimento al termine prescrizionale del diritto a rinunciare all'eredità si fa presente che vale lo stesso termine decennale previsto per l'accettazione di eredità, precisando che detto termine può subire modifiche per esempio nel caso in cui sia proposta un'actio interrogatoria da parte del creditore particolare del defunto, oppure nel caso in cui il chiamato sia nel possesso dei beni ereditari è necessario che lo stesso copia nel termine di tre mesi l'inventario o pur avendolo compiuto non dichiari di accettare l'eredità con beneficio di inventario nei quaranta giorni successivi; in quest'ultimo caso l'erede sarà considerato puro e semplice (art. 485); con la conseguenza che il chiamato dunque, divenuto erede, non può più dichiarare di voler rinunziare all'eredità. Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dall'agenzia delle entrate con il quale si insisteva per il recupero di Ires, Irap e Iva relative all'attività imprenditoriale del de cuius svolta nell'anno 2005. L'Agenzia sosteneva che il chiamato all'eredità, che non abbia accettato e che vi rinuncia, potesse essere considerato titolare della soggettività passiva rispetto ai debiti del de cuius. Tuttavia la Cassazione ha sancito il principio di diritto condiviso in modo unanime dalla giurisprudenza secondo cui: “ Il chiamato all'eredità, che abbia ad essa validamente rinunciato, non risponde nemmeno dei debiti tributari del "de cuius", neppure per il tempo intercorrente tra l'apertura della successione e la relativa rinuncia, nemmeno se i chiamati all'eredità abbiano presentato la denuncia di successione - che non costituisce accettazione-, in quanto, avendo la rinuncia effetto retroattivo ex art. 521 c.c., egli è considerato come mai chiamato alla successione e non deve più essere annoverato tra i successibili ”.

Titolo professionale

Corso di Specializzazione in diritto successorio

Ordine degli Avvocati di Cremona - 1/2021

Ho acquisito nuove competenze in materia successoria sia in tema di impugnazioni testamentarie sia in tema di successione legittima e divisioni ereditarie.

Pubblicazione legale

Il pagamento di un debito ereditario comporta accettazione di eredità?

Pubblicato su IUSTLAB

Accettazione tacita di eredità e debiti del defunto Quando un soggetto muore si apre la successione ereditaria, sia essa legittima o testamentaria, in forza della quale il patrimonio ereditario, se esistente, si trasferisce agli eredi legittimi o testamentari. In ogni caso per poter assumere la qualifica di erede è necessario da parte del soggetto chiamato una manifestazione di volontà in tal senso. Tale manifestazione può essere espressa, per esempio mediante una dichiarazione resa in atto pubblico alla presenza di un Notaio, oppure tacita, attraverso un comportamento che implica la volontà di accettare il lascito ereditario. L'art. 476 c.c. prevede che “l'accettazione è tacita di eredità quando il chiamato compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella sua qualità di erede”. Quali comportamenti implicano accettazione tacita di eredità? I tribunali sono spesso chiamati ad accertare l'avvenuta accettazione (tacita) di eredità soprattutto nel caso in cui il de cuius abbia lasciato delle passività per le quali i creditori intendono rivalersi sull'erede del medesimo. E' di particolare importanza distinguere gli atti/comportamenti che determinano l'accettazione tacita di eredità da quelli che, invece, non configurano accettazione. In particolare, secondo la giurisprudenza si ha accettazione tacita di eredita ogni volta in cui vengono esperite azioni volte al reclamo o alla tutela dei beni ereditari, oppure nel caso di incasso dell'assegno intestato al de cuius, o ancora quando si ha una voltura catastale da parte del chiamato. Diversamente, non implicano accettazione tacita di eredità i seguenti atti: il pagamento delle spese funerarie del defunto, la presentazione della denuncia di successione con il relativo pagamento delle imposte di successione, attività conservative sui beni ereditarie. Il pagamento di un debito ereditario implica accettazione tacita di eredità? Dipende. Il pagamento di un debito ereditario non è detto che comporti accettazione tacita di eredità. E' necessario, tuttavia, affinché non vi sia accettazione che l'estinzione del debito avvenga con fondi propri del chiamato, senza intaccare il patrimonio ereditario. Di recente anche la Cassazione ha avvallato tale impostazione: nello specifico il chiamato all'eredità aveva pagato un solo verbale di accertamento dei numerosi emessi per violazione di norme del codice della strada nei confronti del defunto, e su tale presupposto il Comune di Roma riteneva vi fosse accettazione tacita di eredità in capo al chiamato. Tuttavia la Corte ha rigettato il ricorso presentato alla pubblica amministrazione stabilendo che: “ Per aversi accettazione tacita dell'eredità non basta che un atto sia compiuto dal chiamato all'eredità con l'implicita volontà di accettarla, ma è necessario, altresì, che si tratti di un atto che egli non avrebbe diritto di porre in essere se non nella qualità di erede. Il pagamento di un debito del de cuius, che il chiamato all'eredità effettui con denaro proprio, non è un atto dispositivo e comunque suscettibile di menomare la consistenza dell'asse ereditario, cioè tale che solo l'erede abbia diritto di compiere. In esso, pertanto, difetta il secondo dei suddetti requisiti, richiesti in via cumulativa enon disgiuntiva per l'accettazione tacita ." (Cass. Civ. 30 settembre 2020, n. 20878).

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