Mi chiamo Romina Anichini, mi occupo prevalentemente di diritto di famiglia. Sono anche mediatrice familiare, socia di A.i.me.f. (Associazione Italiana Mediatori Familiari) nonché curatrice speciale per i minori, presso il Tribunale di Modena e presso il Tribunale dei Minorenni di Bologna. Da oltre venti anni gestisco casi di diritto civile, con una particolare predilezione per il diritto di famiglia e delle persone. Precisione, attenzione e contatto diretto con il cliente sono le caratteristiche principali del mio modo di lavorare.
Il mio studio gestisce anche casi di diritto del lavoro, sia a favore di dipendenti che di imprese, ed ha ottenuto ottimi risultati in questo ambito.
Ho sempre avuto una particolare inclinazione per il diritto civile, sin dai tempi dell'Università che ho frequentato a Pisa dove mi sono laureata con il massimo dei voti. Ho continuato a studiare e praticare il diritto civile, collaborando con uno studio notarile di Roma per alcuni anni, mentre mi preparavo al concorso notarile, esperienza che mi ha fortificato molto ed ha accentuato molto le caratteristiche di scrupolosità, precisione e ricerca del modo migliore per realizzare l'interesse del cliente.
Ritengo che l'Avvocato di Famiglia debba avere specifiche competenze, ma anche capacità di empatizzare con chi chiede aiuto e necessita di essere non solo assistito, ma anche accompagnato nel percorso di gestione e di soluzione della criticità familiare. Affronto con lo stesso approccio anche le altre problematiche di diritto civile, convinta che il miglior accordo lo possano trovare le parti in conflitto. Il mio studio si avvale anche di esperti in coordinazione genitoriale, per i casi di elevata conflittualità.
Separazione, Tutela dei minori, Contratti, Eredità e successioni, Divorzio, Diritto del lavoro, Unioni civili, Matrimonio, Affidamento, Recupero crediti, Pignoramento, Diritto condominiale, Locazioni, Sfratto, Mediazione, Negoziazione assistita, Gratuito patrocinio, Domiciliazioni.
Principi e tecniche della mediazione civile e commerciale, aggiornamenti normativi
Attraverso l'esperienza di Lisa Parkinson, una delle massime esponenti di mediazione familiare, ho appreso l'importanza di intercettare i segnali della violenza in ambito familiare e come offrire un contesto protetto alla "vittima" presente nella stanza di mediazione
CHI E’ E COSA FA L’AVVOCATO DI FAMIGLIA? Sentiamo parlare di “avvocato divorzista”, di “avvocato familiarista” o “matrimonialista”. Io preferisco parlare di “avvocato di famiglia”. Innanzitutto perché l’avvocato che si occupa di diritto di famiglia non si occupa solo di divorzi o di matrimoni e sarebbe riduttivo, pertanto, definirlo “avvocato divorzista o matrimonialista”. Inoltre un aggettivo non definisce bene il raggio d’azione del professionista, quanto il suo oggetto di interesse, ovvero, in questo caso, la “famiglia”. L’avvocato di famiglia è il professionista che si occupa, in generale, della crisi delle relazioni familiari , non limitandosi alle crisi di coppia, coniugale o non coniugale, ma rivolgendosi anche alla tutela dei minori nei casi di negligenza genitoriale o alle conflittualità nell’ambito della famiglia parentale per motivi ereditari. L’avvocato di famiglia si occupa anche di adozione e di tutela legale delle persone fragili (ad es. chi è affetto da una qualsiasi forma di infermità e necessita della nomina di un amministratore di sostegno) AVVOCATO DI FAMIGLIA: COMPETENZA E ATTITUDINE In tutti questi casi l’avvocato di famiglia si trova davanti una persona, che sta attraversando un momento di sofferenza, di frustrazione, di debolezza e che quindi non presenta soltanto un problema giuridicamente rilevante, ma anche una situazione soggettiva estremamente delicata. L’avvocato di famiglia si trova infatti di fronte a chi, a differenza del cliente che vanta un credito e o che si lamenta dell’inquilino moroso, presenta una condizione personale che richiede un approccio più profondo in quanto il suo problema legale ha anche ricadute emotive e psicologiche importanti. Per questo l’avvocato di famiglia deve avere, oltre alle competenze giuridiche, anche un’attitudine speciale. L’avvocato di famiglia deve tener conto del fatto che la relazione in crisi di cui si sta occupando è una relazione familiare che, in quanto tale, richiede un supporto non soltanto legale. Per questa ragione l’avvocato che si occupa di diritto di famiglia deve avere non soltanto una vasta e completa preparazione giuridica, ma anche una competenza multidisciplinare che lo aiuti a comprendere tutte le sfaccettature non giuridiche della problematica sottopostagli. Ciò richiede delicatezza, sensibilità ed anche umiltà, soprattutto laddove quanto emerge dall’ascolto del cliente evidenzi l’opportunità di consigliare anche altri tipi di valutazione o di supporto (ad es. lo psicologo, il mediatore familiare , il coordinatore genitoriale). Questa riflessione suscita ulteriori considerazioni sulle peculiarità dell’avvocato di famiglia e sul fatto che chi si occupa di relazioni familiari in crisi (di coppia, per questioni ereditarie) o di soggetti da tutelare (minori, disabili) debba avere un quid pluris rispetto all’avvocato in generale. LA DEONTOLOGIA DELL’AVVOCATO DI FAMIGLIA La deontologia è la cornice di regole che il professionista deve rispettare nell’esercizio della sua attività. La violazione di tali regole comporta l’applicazione di sanzioni, più o meno gravi, da parte di organismi preposti alla loro osservanza. L’art. 14 del codice deontologico forense prescrive all’avvocato di NON ACCETTARE incarichi se non è in grado di svolgerli con adeguata competenza . E per “adeguata competenza”, con riferimento all’avvocato che si occupa di crisi familiare, si intende non soltanto il possesso di conoscenze giuridiche e di un’etica inappuntabile. L’avvocato di famiglia deve anche possedere la capacità individuare l’interesse autentico del cliente, aiutando quest’ultimo a decantarlo da tutte le appendici emotive che lo offuscano e che rischiano di condurlo ad una lite giudiziale estremamente faticosa dal punto di vista psicologico, oltre che costosa (togliendo quindi risorse personali ed economiche a chi in primis le merita, come i figli). Il lavoro dell’avvocato di famiglia deve essere pertanto orientato a identificare, sotto le manifestazioni emotive, i reali bisogni di chi è coinvolto nella relazione familiare e a raggiungere soluzioni condivise del conflitto, che scongiurino il più possibile (e quando possibile) la fase giudiziale, attenuando così l’impatto negativo della crisi familiare sui soggetti più deboli, quali i figli. Pertanto è compito dell’avvocato di famiglia raggiungere il massimo equilibrio tra il dovere di fedeltà al cliente (art. 10 del codice deontologico), l’ indipendenza nell’esercizio della sua professione (art. 9 del codice deontologico) ed il dovere di esercitare la professione anche a tutela degli altri interessi partecipi della relazione familiare, ovvero l’interesse dei figli minori, se ve ne siano. Da questo punto di vista, si può notare che anche il profilo deontologico dell’avvocato di famiglia si differenza rispetto a quello dell’avvocato in generale, rivelandosi più complesso nella misura in cui non è soltanto l’interesse individuale (se non individualistico) del suo cliente a fare da faro nell’espletamento dell’incarico legale, ma è un insieme di posizioni cui sono sottesi bisogni diversi che l’avvocato di famiglia, con le sue competenze multidisciplinari, deve saper cogliere, individuare e ben rappresentare al suo cliente (spesso “preso” o concentrato su altro nel momento della crisi) Per questo l’avvocato di famiglia deve prestare attenzione a non lasciarsi travolgere dai sentimenti di rabbia e dalla voglia di vendetta espressi dal cliente, restando indipendente ed autonomo nella scelta della strategia di difesa e delle relative modalità di estrinsecazione. L’avvocato di famiglia non deve alimentare il conflitto e, se mai, deve ricondurlo ad una forma gestibile in modo da poter individuare, nel confronto con l’altra parte, i reali bisogni ed interessi in gioco. In sintesi l’avvocato di famiglia deve lavorare mantenendo la propria autonomia e indipendenza professionale, nella fedeltà al mandato conferitogli dal cliente, ma con un’obiettività ed un approccio etico tesi a perseguire un interesse che potremmo definire “superiore”, l’interesse alla cura della relazione familiare. In questo senso l’avvocato di famiglia svolge una funzione sociale perché non circoscrive il suo sguardo e la sua azione al perimetro disegnato dal suo cliente, ma va oltre, spronandolo ad approfondire le sue reali esigenze, dopo avere accolto la sua sofferenza e la delusione, per portarlo a riflettere sulla necessità di preservare la relazione familiare e di tutelare quindi anche l’interesse di chi, nell’imperversare di sentimenti di frustrazione, rabbia e rancore, non ha voce in quel momento, come i figli. Tale funzione sociale è, del resto, riflessa dalle stesse norme deontologiche laddove prescrivono che il mandato ricevuto dal cliente deve essere espletato nel rispetto del rilievo costituzionale e sociale della difesa . Ed è naturale che la difesa del genitore debba riflettere quella dei propri figli. Contemporaneamente l’avvocato di famiglia svolge anche una funzione preventiva perché se il conflitto è stato ben gestito ed ha condotto ad una soluzione ponderata e condivisa, previene ulteriore contenzioso giudiziale, promuovendo la stabilità degli accordi, nell’interesse di quella famiglia, sia pure divisa, ma anche nell’interesse della collettività (che non dovrà sostenere i costi sociali dell’ulteriore conflittualità). Sotto questo profilo è significativo quanto espresso dal Parlamento Europeo nella risoluzione del 23 marzo 2006 quando ha attribuito alla professione dell’avvocato il valore precipuo di “ garantire la qualità dei servizi a beneficio dei clienti e della società in generale e di salvaguardare l’interesse pubblico ”. In una significativa ordinanza del 2016, un illuminato giudice del Tribunale di Milano ha riconosciuto l’avvocato come parte del “servizio pubblico di Giustizia” e come professionista che ha “ non solo il dovere ma invero l’obbligo di svolgere un ruolo protettivo del minore , arginando il conflitto invece che alimentarlo ” (dr. Giuseppe Buffone, ordinanza del 23.03.2016). Ciò richiama quanto raccomandato nelle Linee Guida del Consiglio d’Europa sulla Giustizia a misura di minore dove è chiaramente indicata la necessità che in tutti i procedimenti giudiziari i minori siano protetti da eventuali pregiudizi, come intimidazioni, rappresaglie, vittimizzazione secondaria ed in generale ogni genere di strumentalizzazione del minore, indicazione che non può essere ignorata dall’avvocato che si occupa di diritto di famiglia. Approfondendo la tematica della deontologia dell’avvocato di famiglia, è corretto richiamare alcune norme del codice deontologico forense che definiscono ancor meglio le sue peculiarità. L’art. 56 del codice deontologico VIETA all’avvocato del genitore di ascoltare o di avere qualsiasi forma di contatto con il figlio minore sulle circostanze relative alle controversie familiari o minorili, manifestando quindi il chiaro intento di proteggere il minore da qualsiasi tipo di condizionamento che naturalmente subirebbe in un simile frangente. L’art. 68, ultimo comma, del codice deontologico VIETA inoltre all’avvocato che ha assistito il minore in una controversia familiare di prestare assistenza in favore di uno dei genitori in controversie successive della stessa natura. Così come è vietato, senza alcun limite di tempo, assumere incarico da uno dei coniugi o dei conviventi, congiuntamente assistiti in precedenza, in controversie successive sorte tra loro, norma che presume, in via assoluta, la sussistenza di un conflitto di interesse e la conseguente incompatibilità dell’avvocato di famiglia rispetto al coniuge già assistito, del quale conosce informazioni che, se utilizzate, potrebbero arrecare gravi danni costituendo peraltro una condotta sleale. Il divieto di assumere incarichi in favore di uno dei coniugi o conviventi già assistito in precedenza ha carattere assoluto e permanente a differenza del divieto di assumere incarichi contro la parte già assistita in una controversia non familiare, divieto che ha durata biennale. Questa differenza di trattamento specifica in maniera significativa la particolare posizione dell’avvocato di famiglia rispetto all’avvocato che non si occupa della materia familiare, sottolineandone i limiti nell’esercizio della propria attività e rendendo particolarmente rigorosa l’osservanza dei principi di lealtà, indipendenza e autonomia intellettuale. In conclusione si può sottolineare che chi sceglie di esercitare la professione forense nell’ambito, prevalente o esclusivo, del diritto di famiglia deve seguire ancor più severamente le regole deontologiche avendo riguardo ai particolari interessi che, attraverso la loro osservanza, devono essere tutelati, tra cui l’interesse del minore. È chiaro che questa considerazione dovrebbe aiutare anche l’utenza nella scelta del professionista, orientandola verso chi, per esperienza, formazione e competenze acquisite nel tempo, sia in grado di garantire assistenza legale mirata, continua e diretta, ma anche capacità di consigliare in maniera obiettiva e razionale, oltre l’onda emotiva del momento di chi attraversa la crisi in famiglia. QUANTO COSTA L’AVVOCATO DI FAMIGLIA Non esiste una risposta univoca perché ogni caso è particolare e richiede assistenza specifica e, come tale, variabile con conseguente naturale ricaduta sui compensi dovuti al professionista. Esistono i parametri ministeriali , disciplinati dal DM 55/2014 recante: "Determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense ai sensi dell'art. 13 comma 6 della legge 31 dicembre 2012 n. 247" , aggiornati al DM 147/2022 che definiscono un range nell’ambito del quale il professionista può fissare il suo compenso, che non può essere inferiore al valore minimo dei parametri stabiliti per cause di valore indeterminabile, come quelle in esame. Ciò non impedisce al professionista di concordare liberamente i compensi con il cliente (art. 25 codice deontologico): in tal caso l’accordo dovrà essere scritto ed i compensi non dovranno comunque essere sproporzionati rispetto all’attività da svolgere. L’indicazione che ci si sente di dare per la valutazione della congruità di un preventivo – che il cliente ha sempre il diritto di pretendere dall’avvocato – è considerare il complesso lavoro che l’avvocato di famiglia è chiamato a fare e che non si limita né, anzi, deve limitarsi ad essere la traduzione letterale delle volontà del cliente in un atto giudiziario. Come ampiamente scritto nei paragrafi precedenti, l’avvocato di famiglia è chiamato a svolgere un lavoro più profondo e più ampio con il cliente, che può richiedere tanti incontri e varie sessioni telefoniche, che può prevedere la formulazione di diverse ipotesi di soluzione o la necessità di testarle con l’altra parte per verificarne l’efficacia e la potenziale tenuta anche dopo la separazione. L’analisi di una controversia familiare può richiedere lo studio della giurisprudenza per capire come sono orientati a decidere i giudici su casi analoghi a quello sottoposto dal cliente, ma anche l’esame di copiosa documentazione (basti pensare alle controversie ereditarie) che può essere anche complicata da comprendere o richiedere addirittura il supporto tecnico di altre figure professionali (es. un commercialista o un geometra) che avranno un costo distinto da quello dell’avvocato, spesso necessario da sostenere per valutare le proprie ragioni e capire se sia opportuno o meno affrontare una lite giudiziale. Anche il confronto con altri professionisti rappresenta per l’avvocato di famiglia un’attività importante, perché dalla interazione sinergica con altre figure professionali deriva una prestazione completa e mirata, precipuamente focalizzata sul bisogno del cliente. Pertanto, il costo dell’avvocato di famiglia non è determinabile a priori e non è fisso perché dipende dalle attività che in concreto saranno necessarie nel caso sottoposto dal cliente. La predisposizione di un preventivo sarà possibile solo dopo la conoscenza del caso e la consapevolezza, anche da parte del cliente, delle attività che saranno necessarie per rispondere al suo bisogno. A parere di chi scrive anche l’utente che, apparentemente, non presenta particolari criticità deve essere specificamente seguito dall’avvocato di famiglia il quale può rilevare questioni da discutere, cui il cliente non aveva prestato attenzione e che probabilmente emergerebbero in futuro, o proporre soluzioni diverse e maggiormente funzionali al caso in esame. In questo senso l’avvocato di famiglia svolge anche una funzione preventiva. In conclusione, chi propone tariffe fisse per una controversia familiare fornirà di conseguenza un servizio standardizzato e necessariamente “basico”, senza alcun riguardo alla specificità del caso e giungerà a dare una prestazione parziale e difficilmente soddisfacente per il cliente. Per questa ragione il consiglio è affidarsi ad un professionista specificamente competente in diritto di famiglia che ascolti con attenzione il caso portato dal cliente e che, sulla base delle peculiarità e delle probabili attività necessarie per quel caso , fornisca una protezione “su misura” ed un preventivo di costi coerente rispetto a tali attività.
La partecipazione al corso su "Il trust nel diritto di famiglia" mi ha consentito di approfondire le varie applicazione del trust nel contetsto familiare, in relazione ai rapporti tra coniugi, tra conviventi o uniti civilmente, alla successione ereditaria, al passaggio generazionale dell'impresa di famiglia
Due giornate di seminario in cui ho imparato ad utilizzare la domanda maieutica (cioè la domanda che genera riflessioni) come strumento indispensabile nella gestione del conflitto familiare
Diritto delle relazioni familiari, secondo le indicazioni della Legge delega n. 206/2021
Il corso mi ha fornito conoscenze specifiche per rivestire l'importante funzione di curatore speciale per il minore nei procedimenti che lo riguardano e nei quali, quindi, necessita di assistenza legale. I formatori erano avvocati di alto spessore, dotati di specifica competenza e grande esperienza sul campo e non hanno mancato di fornire consigli pratici tratti dai numerosi casi che hanno affrontato.
Ho frequentato il master biennale in mediazione familiare presso Formared, scuola riconosciuta dall'Associazione Italiana Mediatori Familiari. Il master era strutturato in materie diversificate ed anche estranee al diritto, come la psicologia, grazie alla quale ho potuto approfondire aspetti fondamentali nella gestione del conflitto familiare ed utili, in generale, come modalità operativa. I momenti didattici di simulazione dei casi da mediare mi hanno aiutato ad avere un approccio equidistante e di non-giudizio rispetto alle parti in conflitto e ad affrontare in modo pragmatico il caso specifico.
Fare il genitore è un “mestiere” che si impara facendo . Chi ha più di un figlio può concordare con me che certe difficoltà incontrate con il primo figlio, non si presentano con il secondo o vengono gestite con minore apprensione e maggiore disinvoltura. Si diventa più esperti, più abili ad affrontare le complessità della vita da genitore, pur essendo ogni figlio diverso e quindi differentemente reattivo alle modalità relazionali del genitore. Ciò che non si impara facendo , come genitori, è affrontare con i figli il tema della separazione: su questo aspetto non si può vantare un’esperienza a cui appellarsi per trovare un’indicazione o un consiglio, perché la crisi di coppia può insorgere e quando insorge è la prima volta e va affrontata, anche con i figli. Poiché, in senso pedagogico, la genitorialità è in sintesi la capacità di rispondere ai bisogni del figlio , nel caso di crisi familiare si delinea il bisogno del figlio di conoscere quello che sarà il futuro della sua famiglia e, soprattutto, il bisogno del figlio di essere protetto e preservato dalle conseguenze negative della crisi familiare . Da qui la considerazione che la genitorialità si debba declinare anche nella fase patologica della vita di coppia al fine di evitare scompensi nel rapporto dei genitori con i figli. L’avvocato di famiglia, un faro che deve far luce su tutto Non è raro che il cliente chieda al suo avvocato come e quando deve comunicare al figlio della separazione, soprattutto quando il cliente si sente accolto, anche emotivamente, dal professionista cui si è rivolto per la gestione della sua separazione. Perché l’ avvocato di famiglia fa anche questo. L’avvocato di famiglia non può e non deve limitarsi a raccogliere gli elementi per preparare il ricorso di separazione, ma deve preparare un terreno che sia il più possibile “arato” affinché la separazione sia gestita proficuamente sotto ogni profilo, incluso il profilo della genitorialità . Diversamente il lavoro dell’avvocato sarebbe parziale e poco efficace, perché non realizzerebbe pienamente l’interesse del cliente e di chi gravita attorno al cliente- genitore, ovvero i figli. L’avvocato di famiglia, quindi, deve informare il suo cliente dell’esistenza di strumenti e percorsi utili a gestire nella sua complessità la separazione, a sviscerarne ogni profilo, per fornire al cliente un’assistenza il più possibile completa e che tenga conto di tutti gli interessi da tutelare. Come comportarsi quindi? Come e quando spiegare al figlio o ai figli che i genitori si separano? La separazione rappresenta un momento di passaggio o di conclusione della coppia, ma riverbera inevitabilmente i suoi effetti anche sui figli. E tali effetti sono estremamente tangibili perché riguardano la quotidianità più elementare dei figli, a partire dal fatto che da un certo momento in poi non avranno più una sola casa ma due, non più una cameretta ma (forse) due, non più un unico tavolo attorno al quale sedersi a pranzo o cena, ma due. L’esercizio della genitorialità durante la crisi familiare è senza dubbio e - diremmo - ovviamente più difficile perché i genitori, coppia in crisi o in procinto di separarsi, devono fare lo sforzo di riconoscersi coppia genitoriale e quindi di co-gestire rispetto ai figli il momento della separazione . Ciò significa che, a prescindere dall’età dei figli, l’esercizio consapevole della genitorialità richiede che l’argomento della separazione sia affrontato in modo congiunto dai genitori, in modi consoni all’età degli interlocutori (figli) ed in tempi adatti alla situazione concreta. Questa non è una frase vuota o generica, ma vuole essere una frase aperta all’interpretazione che il caso specifico richiede. Infatti ogni separazione è diversa dall’altra, perché ogni crisi di coppia è particolare e deve essere gestita dai genitori in modo coerente alle peculiarità del caso. Può infatti accadere che la convivenza e la coabitazione cessino prima del provvedimento di separazione, per scelta di uno o di entrambi i genitori o per la necessità di proteggere i figli dalle tensioni presenti in casa: in questi casi, a prescindere e anche prima dell’intervento del giudice, i genitori devono affrontare l’argomento con i figli i quali altrimenti resterebbero senza risposte e senza alcuna certezza di fronte ad un cambiamento significativo. Non servono competenze in psicologia per ritenere che i figli hanno il diritto di sapere che i genitori non hanno più una relazione affettiva e che, ciononostante, il loro rapporto con i genitori continuerà in tempi e in modi adattati alla nuova situazione, nel rispetto dei loro interessi e delle loro esigenze. Al contrario, ci sono casi in cui la coabitazione permane fino al provvedimento del giudice che stabilisce a quale dei due genitori viene assegnata la casa familiare; in taluni altri casi la coabitazione cessa solo dopo qualche mese dal provvedimento del giudice in quanto può accadere che il genitore non collocatario (ovvero il genitore al quale non è stata assegnata la casa familiare) abbia difficoltà a reperire un alloggio. In questi casi i genitori devono comprendere quando affrontare l’argomento della separazione con i figli e, peraltro, sono costretti a farlo in un momento nel quale devono elaborare anche il momento dell’uscita dalla casa familiare, passaggio fisico ed emotivo di grande sofferenza sia per il genitore che deve uscire che per i figli che vedono uscire il genitore dalla casa familiare. La coabitazione “forzata”, in questa ipotesi per nulla rara, rende la comunicazione della verità ai figli ancora più difficoltosa, ma assolutamente necessaria affinché siano rassicurati sulla continuità della relazione con il genitore “uscente”. In questi momenti la genitorialità viene messa a dura prova, sia per il genitore che deve uscire dalla casa familiare sia per il genitore che resta, con il figlio, nella casa familiare. In queste situazioni è molto difficile che il risentimento, inevitabilmente presente, consenta ai genitori di dare al figlio informazioni allineate e scevre da condizionamenti personali o dalla tensione tra i genitori. Se da una parte è necessario normalizzare le difficoltà che i genitori possono incontrare nell’informare i figli della separazione, soprattutto quando è in corso una causa, dall’altra può essere opportuno chiedere un supporto a livello personale per evitare che una cattiva comunicazione o una mancata comunicazione ingeneri nei figli incertezza sul futuro, sensi di colpa e frustrazione, senso di abbandono e, talvolta, rabbia verso il genitore che è uscito di casa o verso il genitore che è rimasto e che può essere visto dal figlio come “fortunato” rispetto all’altro, viceversa ritenuto bisognoso di protezione. STRUMENTI UTILI ALLA GENITORIALITA’ DURANTE LA CRISI FAMILIARE Essere, anzi fare il genitore in tempo di crisi richiede un’attenzione diversa ed ulteriore affinché il cambiamento che la separazione determina sia vissuto dai figli nella certezza che i genitori continueranno ad esserci e a condividere le scelte riguardanti la loro vita, senza coinvolgerli in tensioni e conflitti personali. Per giungere a questo obiettivo è consigliabile migliorare e talvolta recuperare una comunicazione efficace tra i genitori affinché la genitorialità, intesa come esercizio della relazione tra genitore e figlio e come capacità di rispondere ai bisogni del figlio in ogni fase della sua vita, si esprima in maniera appropriata e funzionale. A tale scopo la mediazione familiare si presenta come lo strumento più adatto al recupero o alla ottimizzazione della comunicazione tra i genitori perché permette, attraverso la manifestazione ed il riconoscimento reciproco delle emozioni, di far emergere i bisogni autentici delle parti in conflitto e di incanalarli nella stessa direzione, rendendo i genitori consapevoli del fatto che tale direzione è comune, pur nella differenza delle posizioni, perché riguarda il benessere dei figli e non l’interesse individualistico di ciascuno di loro. Su questo tema, la mediazione familiare, come strumento che aiuta a riattivare un dialogo costruttivo tra i genitori, è utile ad individuare la modalità più appropriata per informare i figli della separazione e per comunicare loro, sempre congiuntamente, la riorganizzazione della vita familiare: due genitori che sanno comunicare bene tra loro e che fanno fronte comune nel trasmettere ai figli una novità così significativa, come la separazione, determinano un effetto rassicurante negli stessi, contribuendo a ridimensionare il senso di disorientamento e le paure che possono emergere nei figli a fronte di eventi familiari obiettivamente destabilizzanti. D’altro canto, mentre il mediatore familiare si rivolge e lavora necessariamente con entrambi i genitori, può accadere che la disfunzione riguardi il rapporto del singolo genitore con il figlio o il figlio stesso che non accetta la separazione dei genitori o che non è stato adeguatamente rassicurato dagli stessi sulla continuità del rapporto genitoriale, sviluppando malessere e disagio. In questi casi il supporto psicologico o psicoterapeutico è fondamentale e quando non è possibile perché manca la volontà del figlio (o, ancor peggio, di uno dei genitori) il genitore può ricorrere a professionisti, privati o pubblici, per iniziare un percorso di sostegno alla genitorialità , lavorando su sé stesso e fruendo di competenze specifiche per poter aiutare e quindi rispondere efficacemente al bisogno di protezione del figlio in un momento così delicato come quello della separazione dei genitori. Riconoscere il bisogno di chiedere un supporto esterno per acquisire la capacità di relazionarsi con il figlio nella fase della crisi familiare è espressione di una genitorialità consapevole ed attenta che dovrebbe costituire un modello di esempio per evitare i potenziali effetti deleteri della crisi familiare sui figli. A MALI ESTREMI, ESTREMI RIMEDI Mi pare utile concludere questo articolo accennando ad un ulteriore strumento che, come provocatoriamente si vuol far intendere dal titolo, è da ritenersi un rimedio estremo. Mi riferisco alla coordinazione genitoriale , strumento sensibilmente diverso dalla mediazione familiare, dalla quale si distingue per il carattere direttivo e propulsivo del soggetto che la esercita, il coordinatore genitoriale appunto. Questa figura, implicitamente riconosciuta dalla Riforma Cartabia (art. 473 bis n. 26 c.p.c.), è rappresentata da un professionista, specificamente formato, che in casi di grave conflittualità orienta fattivamente i genitori indicando loro proposte o modalità di esercizio della genitorialità al fine di sbloccare situazioni di stallo che potrebbero pregiudicare il benessere dei minori coinvolti e necessitano quindi di un intervento concreto ed immediato che colmi le lacune presenti nelle condotte dei genitori in estremo conflitto. I punti di scontro dei genitori riguardano questioni eminentemente pratiche ma centrali nella vita di un minore, come la scelta della scuola, della religione, dello sport, se frequentare o meno il catechismo, aspetti che attengono allo sviluppo della personalità del figlio e che se restano irrisolti possono comprometterne la sereno ed equilibrata crescita. Mentre il mediatore familiare aiuta le parti a comunicare efficacemente affinché, ritrovato il dialogo, siano loro stesse a trovare le soluzioni pratiche necessarie per la riorganizzazione familiare dopo la separazione, incoraggiandole ad autodeterminarsi e a riconoscersi reciprocamente in grado di prendere una decisione comune, il coordinatore genitoriale indirizza specificamente i genitori in conflitto ad assumere decisioni o a mettere in atto proposte educative al fine di rispondere al bisogno emergente del minore al quale essi, a causa della grave conflittualità, non sono in grado di rispondere in autonomia e tempestivamente. Si tratta di una figura che può essere nominata dal giudice nell’ambito di un procedimento, eventualmente su richiesta delle parti, o può essere direttamente designata dai genitori, al di fuori di un giudizio, eventualmente su consiglio di un professionista, come l’avvocato o lo psicologo o l’assistente sociale. **** Lo studio legale dell’avvocato Anichini mette a disposizione tutte le figure citate nel presente articolo per garantire un’assistenza completa e la tutela di tutte le persone coinvolte nella crisi familiare.
Capita, a volte, di ricevere nonni che si lamentano del fatto di non avere la possibilità di frequentare i propri nipoti perché uno o entrambi i genitori si oppongono o ostacolano il rapporto con i nipotini. Capita, più volte, che questa situazione si verifichi nei casi di separazione, divorzio o cessazione di una convivenza, soprattutto se la conflittualità tra i genitori è molto aspra. Da qui la classica domanda dei nonni “ ma noi cosa c’entriamo? ” e, di conseguenza, “ ma noi quali diritti abbiamo sui nostri nipoti? ”. Come si parla di “genitorialità”, si potrebbe parlare di “nonnità”, come diritto dei nonni di avere rapporti con i nipoti minorenni. Anzi, si potrebbe parlare di “nonnanza”, come preferiscono scrivere i pedagogisti Maria Teresa Zattoni e Gilberto Gillini nel loro libro “Nonni, che fortuna!” nel quale si sottolinea “più che il diritto a essere nonni, il diritto a fare i nonni e ad avere dei nonni (cit.). Una biunivocità che anche il nostro sistema normativo riconosce. IL DIRITTO A FARE IL NONNO: UNA CONQUISTA RECENTE, MA AD UNA CONDIZIONE Il nostro codice civile sancisce espressamente che “gli ascendenti hanno il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni”. Lo dispone l’art. 317 bis c.c., modificato nel 2013, che per la prima volta introduce il diritto dei nonni di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni . Quindi è abbastanza recente la presa di posizione del nostro legislatore in merito al riconoscimento di un vero e proprio diritto in favore dei nonni , diritto che è speculare e complementare al diritto del minore di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti , come prescrive l’art. 315 bis c.c. In altre parole il diritto dei nonni trova la sua origine ed il suo contenuto nel diritto del minore ad avere e conservare rapporti proficui con i primi. Oltre all’art. 315 bis c.c., leggiamo l’art. 337 ter c.c. che sancisce il diritto del minore di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale anche - e, sarebbe il caso di dire, a maggior ragione - nei casi di crisi familiare ovvero nei casi di separazione, divorzio, cessazione della convivenza dei genitori. E qui veniamo al tema della cura della relazione familiare , quale diritto del minore a mantenere intatta e a rafforzare la relazione familiare nell’evolversi della relazione sentimentale tra i genitori e, di conseguenza, nell’evolversi della famiglia. Richiamando il diritto del minore a preservare rapporti con i parenti di ciascun ramo genitoriale , la cura della relazione familiare si delinea come opera di recupero, conservazione e valorizzazione delle origini familiari, finalizzata a realizzare l’interesse del minore a mantenere vive le radici della famiglia e a non spezzare , ma semmai a tenere ben attaccato, il legame con ciascun ramo genitoriale, in quanto valore da proteggere . Su questo punto si osserva che l’importanza della conservazione del rapporto tra nonni e nipoti è stata sottolineata, di recente, anche dalla Riforma Cartabia che all’art. 473 bis n. 6 c.p.c. stabilisce che il giudice deve procedere senza ritardo ad ascoltare il minore quando, tra l’altro, venga affermata o segnalata una condotta genitoriale volta ad ostacolare la conservazione di un rapporto significativo con i nonni (oltre che con i parenti di ciascun ramo genitoriale). In tal caso è potere del giudice - nell’ambito di una causa di famiglia - assumere sommarie informazioni per verificare la lamentata situazione ostativa alla relazione nonni-nipoti o anche abbreviare i termini processuali per accelerare l’assunzione della decisione che deve essere presa sempre nel rispetto dell’interesse del minore. EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE E NORMATIVA DEL DIRITTO DEI NONNI Prima dell’intervento legislativo del 2013, che ha modificato l’art. 316 bis c.c., il nonno pretermesso dalla vita del nipote era costretto, per poter avere uno spazio nella vita del nipote, a ricorrere al giudice minorile affinché accertasse che la condotta del genitore che ostacolava il rapporto nonno-nipote fosse indice dell’inidoneità genitoriale e potesse quindi giustificare una pronuncia di decadenza o di limitazione della responsabilità genitoriale. In altre parole per poter rivendicare il suo ruolo, il nonno doveva dimostrare l’incapacità genitoriale, provando che il comportamento ostativo del genitore avrebbe danneggiato il minore, privandolo dell’importante contributo del nonno alla crescita equilibrata ed armoniosa del nipote, anche dal punto di vista emotivo. In tal senso si esprimeva la giurisprudenza, cercando di supplire alle lacune di un sistema normativo che non prevedeva alcun diritto ed alcuna tutela giurisdizionale “diretta” in favore dei nonni. Oggi, invece, a seguito della modifica dell’art. 317 bis c.c. intervenuta nel 2013, ai nonni viene riconosciuto uno strumento processuale specifico finalizzato in maniera mirata a far valere il loro di diritto di conservare rapporti significativi con i nipoti minorenni: quando vi è un impedimento in tal senso, i nonni possono proporre ricorso al tribunale dei minorenni del luogo in cui il nipote abitualmente risiede affinché il giudice adotti “ i provvedimenti più idonei nell’ esclusivo interesse del minore ”. Questa norma – insieme alle altre norme sopra citate – rappresentano senza dubbio un elemento di progresso nell’ambito del riconoscimento della posizione giuridica di tutela in favore dei nonni. Tale posizione, tuttavia, si traduce in un diritto non illimitato o incondizionato, ma sempre subordinato al soddisfacimento dell’ esclusivo interesse del minore , come recita l’art. 317 bis c.c. Ciò significa, in altre parole, che il rapporto tra nonni e nipote avrà titolo per essere preservato o instaurato solo se non arrechi danno al minore e corrisponda, quindi, al suo interesse . E non solo. La più recente giurisprudenza specifica ancor meglio quali debbano essere le condizioni per l’esistenza o il mantenimento del rapporto nonno-nipote, dando un contenuto ben preciso a quello che è “ the best interest of the child ”, come citano le fonti internazionali in materia di diritti dei minori. In particolare, la Suprema Corte ha di recente osservato che “ ciascun minore ha un rilevante interesse a fruire di un legame, relazionale ed affettivo con la linea articolata delle generazioni che, per il tramite dei propri genitori, costituiscono la sua scaturigine…..l’intervento del giudice in questo ambito deve tener conto del fatto che l’art. 317 bis c.c. nel riconoscere agli ascendenti un vero e proprio diritto a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, non attribuisce allo stesso un carattere incondizionato, ma ne subordina l’esercizio e la tutela, a fronte di contestazioni o comportamenti ostativi di uno o di entrambi i genitori, a una valutazione del giudice avente di mira l’esclusivo interesse del minore , ovverosia la realizzazione di un progetto educativo e formativo, volto ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità del minore , nell’ambito del quale possa trovare spazio anche un’attiva partecipazione degli ascendenti, quale espressione del loro coinvolgimento nella sfera relazionale ed affettiva del nipote ” ( Cass. 31.01.2023 n. 2881 ). Alla luce di questo principio va letta quella giurisprudenza che non accoglie le istanze di quei nonni la cui presenza della vita del nipote risulta (e viene dimostrato essere) pregiudizievole allo sviluppo armonioso e sereno del minore. Cito al riguardo la decisione dell’ 8 aprile 2024 n. 9281 della Suprema Corte che ha rigettato la domanda della nonna paterna alla conservazione del rapporto con i nipoti poiché dagli atti di causa era emerso che quest’ultima non era stata in grado di ricostituire con i minori un sereno rapporto e che i nipoti stessi avevano manifestato progressivamente sempre maggior disagio nell’incontrarla. Nel caso specifico la nonna non soltanto non si era sottoposta alla consulenza tecnica psicologica disposta dal giudice sulla sua persona, ma di fatto non aveva posto in essere alcun comportamento positivo con i nipoti: la consulenza psicologica era stata disposta dal giudice a seguito di quanto riportato da uno dei nipoti minori che aveva riferito della aggressione subita dalla mamma da parte della nonna, dichiarazione che aveva indotto il giudice a far valutare i profili personologici di quest’ultima per capire se fosse possibile la ricostruzione di un rapporto sereno ed armonioso con i nipoti. L’ingiustificato rifiuto della nonna di sottoporsi alla perizia psicologica era stato interpretato, anche dalla corte di merito, come espressione del sostanziale disinteresse della nonna alla possibilità di accertare l’esistenza di eventuali linee comportamentali e terapeutiche utili alla ricostruzione del rapporto con i nipoti , possibilità che avrebbe dovuto persuadere la nonna paterna ad avere una condotta collaborativa e proattiva allo scopo. D’altra parte l’inesistenza di un rapporto pregresso con i nonni non è di ostacolo all'instaurazione o al recupero della relazione con i nipoti quando essa possa, anche solo potenzialmente, rappresentare una risorsa per la crescita e lo sviluppo equilibrato del minore. A tal proposito è interessante il provvedimento n. 34566 del 23.11.2022 della Corte di Cassazione che ha deciso sul ricorso presentato dalla madre di una bambina nei confronti dei nonni paterni che avevano appunto azionato l’art. 317 bis c.c. per poter riprendere la relazione con la nipotina, con la quale di fatto non avevano contatti da diversi anni a seguito della disgregazione della relazione sentimentale tra i genitori. Questa pronuncia è rilevante perché valorizza il rapporto tra nonni e nipoti guardando all’apporto positivo che esso può dare nello sviluppo della personalità del minore, senza porre necessariamente l’accento sulla consistenza temporale della relazione tra nonni e nipote, che nel caso specifico si era interrotta da molto tempo, essendosi la coppia genitoriale divisa e, peraltro, essendosi il padre completamente allontanatosi dalla bambina. Da questa vicenda, molto complessa anche dal punto di vista giudiziario (il ricorso al Tribunale dei Minori era stato promosso dai nonni verso la madre della bambina quando era ancora in corso la causa promossa da quest’ultima contro il padre della minore per decadenza dalla responsabilità genitoriale), emerge il principio in base al quale l’interesse del minore, al quale è condizionato l’interesse dei nonni a mantenere rapporti con il nipote, non può ritenersi insussistente per il solo fatto che i rapporti si siano interrotti per alcuni anni se dalla ricostituzione di tale rapporto possa derivare un beneficio nella vita del minore. Nel caso specifico la madre della minore si era opposta alla domanda dei nonni paterni di mantenere, anzi ripristinare il rapporto con la nipotina “i n una prospettiva di contrasto nei confronti del suo l’ex compagno, senza porsi nella corretta ottica dell’interesse della bambina a coltivare la relazione con i propri nonni ” (da Cass. ord. 23.11.2022 n. 34566). Pertanto il comportamento ostativo o anche solo pretestuoso del genitore che, per mera ritorsione contro l’ex partner , impedisce ai nonni, genitori di quest’ultimo, di continuare ad avere rapporti con i nipoti, rappresenta un atteggiamento negativamente valutabile dal giudice, in quanto esclusivamente finalizzato ad appagare esigenze individualistiche e non, invece, ad attuare l’interesse del minore ad avere anche il contributo affettivo e materiale dei nonni nello sviluppo della propria personalità. QUANTO INCIDE IL CONFLITTO TRA GENITORI E NONNI NEL RAPPORTO CON I NIPOTI? Oltre alla conflittualità tra i genitori, quale possibile ostacolo al rapporto tra nonni e nipoti, vi è da considerare la possibilità che la conflittualità sia radicata tra genitori e nonni. Su questo tema si registrano sentenze che escludono radicalmente la possibilità che i nonni abbiano diritto a mantenere i rapporti con i nipoti quando le tensioni con i genitori sono forti (come ha ritenuto la Cassazione nella sentenza n. 2881 del 31.01.2023) ed altre che invece ritengono che le ostilità tra nonni e genitori non siano di impedimento alla conservazione del rapporto ma che possano giustificare una rimodulazione dei tempi che i nonni passeranno con i nipoti “onde limitare il più possibile le occasioni di incontro e, quindi, di scontro” (in tal senso Cass. n. 21895 del 11.07.2022). Entrambe le posizioni hanno in comune l’obiettivo di preservare il minore dal conflitto tra adulti, in un caso tranciando nettamente il rapporto con i nonni con la finalità di evitare completamente qualsiasi occasione di tensione che possa essere percepita dal minore, nell’altro caso minimizzando tali occasioni ma cercando di valorizzare nei limiti del possibile l’apporto positivo dei nonni nella crescita del nipote. In entrambe le decisioni è individuabile una visione puerocentrica, dove, in ogni caso, il focus deve rimanere sul minore e sul suo diritto ad avere una crescita serena ed equilibrata, salvo poi declinare diversamente le modalità per garantire tale interesse, estromettendo del tutto i nonni o modulando ad hoc i tempi dagli stessi fruibili con i nipoti. I NONNI HANNO UN DIRITTO DI VISITA? Il diritto ad avere o mantenere un rapporto significativo con i nipoti è qualcosa di più ampio rispetto al c.d. diritto di visita ovvero al diritto di frequentazione del minore, locuzione normalmente utilizzata, soprattutto in passato, con riferimento al genitore non collocatario e soppiantata da diritto alla permanenza del minore presso il genitore nell’ottica della bigenitorialità. Per utilizzare lo stesso termine, i nonni non hanno un diritto alla permanenza del minore presso di loro e quindi non hanno lo strumento processuale per rivendicarlo. Ai nonni, in particolare, non è consentito di intervenire nelle cause di separazione o di divorzio tra i genitori del nipote, né nelle cause di revisione delle condizioni di separazione o di divorzio per far valere un proprio diritto di visita. L’unico strumento processuale che hanno a disposizione è finalizzato ad ottenere qualcosa di più ampio che corrisponda funzionalmente e necessariamente all’interesse del minore ed è attivabile presso il giudice che, per definizione, è deputato alla sua tutela, cioè il giudice minorile. I “rapporti significativi” oggetto delle norme fin qui citate si sostanziano nel contributo affettivo e materiale che la presenza dei nonni riveste (o può rivestire) nella vita dei nipoti: tale presenza deve essere preservata solo se sia funzionale alla crescita serena ed equilibrata del minore. La giurisprudenza è ferma nell’escludere che esista un vero e proprio diritto di visita dei nonni e piuttosto pone l’accento sul diritto dei nipoti a frequentare i nonni quando hanno instaurato relazioni significative con gli stessi o quando possono recuperarle e quindi nell’ottica di “valorizzare il bagaglio di memoria e di affetto di cui i nonni sono portatori” (Corte d’appello di Milano 11.02.2008) purché funzionale allo sviluppo psico-emotivo del minore. IL NONNO SOCIALE. LA FAMIGLIA DEGLI AFFETTI. Allo stesso fine, la giurisprudenza di legittimità sottolinea un altro aspetto interessante, osservando che non è essenziale l’esistenza di un legame biologico con il minore per coltivare e conservare il rapporto già radicato con lo stesso. In altre parole, il diritto di preservare rapporti significativi con il minore spetta non soltanto agli ascendenti ed ai parenti del minore, ma anche “ad ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore, sia esso il coniuge o il convivente di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile, dalla quale quest’ultimo possa trarre un beneficio sul piano della sua formazione e del suo equilibrio psico-fisico”. Da questo punto di vista e tenuto della crescente importanza che viene riconosciuta ai rapporti di fatto instaurati dal minore, se affettivamente arricchenti , la giurisprudenza, attribuendo un significato estensivo alla nozione – di per sé fredda e distaccata - di “ascendente”, vi ha ricompreso anche il c.d. nonno sociale , cioè il coniuge o il convivente di fatto del nonno biologico, con cui il minore abbia instaurato una stabile relazione affettiva , idonea ad assicurargli un beneficio sotto il profilo formativo o dell’equilibrata crescita psico-fisica (Cass. n. 19780 del 25.07.2018). Con l’espressione famiglia degli affetti , si chiarisce il diritto della persona, e quindi anche del minore, al rispetto della propria vita privata e familiare e si abbraccia, con il termine famiglia, l’insieme degli affetti in certo senso puri, ovvero scardinati dal vincolo di sangue ma fondati sull’esperienza dell’amore, dei quali il minore può autenticamente giovare. L’OBBLIGO DEI NONNI DI MANTENERE I NIPOTI Passando ad un altro aspetto della nonnità o nonnanza , mi viene chiesto abbastanza di frequente se i nonni abbiano l’obbligo di mantenere i nipoti. Su questo tema dobbiamo richiamare l’art. 316 bis c.c. che, in prima battuta, richiama il dovere dei genitori di provvedere economicamente ai figli e, in seconda battuta, stabilisce che “ quando i genitori non hanno mezzi sufficienti , gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere ai loro doveri nei confronti dei figli ”. La giurisprudenza ha specificato bene il contenuto ed i termini di applicazione di tale norma, chiarendo che i nonni non sono tenuti a mantenere i nipoti quando il genitore che di fatto è l’unico a provvedere al minore sia in grado, da solo, di farlo (Cass. 20509/2010; Trib. Monza 14.02.2012). Nello specifico, l’obbligo dei nonni sorge soltanto laddove entrambi i genitori si trovino nell’impossibilità di provvedervi, a tal fine non essendo sufficiente semplicemente che uno dei due non voglia provvedervi. Anche di recente la Corte di Cassazione ha chiarito che il genitore può rivolgersi ai nonni solo se l’inadempimento sia dovuto a mancanza di mezzi e solo se il genitore che ha richiesto l’intervento dei nonni “non possa fa fronte per intero alle esigenze dei figli con le sue sostanze e le sue capacità reddituali”. La fattispecie di cui si è occupata la Suprema Corte con la pronuncia n. 28446 del 12.10.2023 ha addirittura precisato che la madre dei minori, prima di sollecitare l’adempimento dell’obbligo sussidiario degli ascendenti, avrebbe dovuto affrontare in proprio la situazione “ vuoi agendo in giudizio nei confronti del coniuge separato perché facesse fronte ai propri obblighi di mantenimento delle figlie, nel caso in cui questi avesse avuto una qualche disponibilità economica; vuoi sfruttando la propria capacità di lavoro e tutte le occasioni di ottenere le risorse economiche a tal fine ”. Per comprendere tale orientamento occorre porre mette al fatto che l’obbligo di mantenere un figlio grava principalmente ed interamente su ciascun genitore e che, quindi, se l’altro non provvede, il genitore adempiente non può pretendere di default l’intervento economico dei nonni. Pertanto, l’obbligo di mantenimento dei nonni verso i nipoti è sussidiario nel senso che è esigibile solo laddove entrambi i genitori non abbiano i mezzi economici per crescere i figli e quindi, solo in presenza di tali condizioni, sorge il diritto dei genitori, strumentale al diritto dei figli, ad ottenere direttamente dai nonni i mezzi per poter provvedere al sostentamento della prole. In presenza dell’impossibilità dei genitori di provvedere alle esigenze dei figli, il credito viene attribuito direttamente agli stessi al fine di evitare qualsiasi interferenza dei nonni nell’esercizio della responsabilità genitoriale e consentire ai genitori di assumere liberamente le scelte nell’interesse dei figli, supportati materialmente dai nonni, in un’ottica di massima solidarietà familiare. Tale obbligo sorge in capo a tutti i nonni in vita, in proporzione alle capacità economiche di ognuno ed in ordine di prossimità (quindi i primi ad essere tenuti sono i nonni e, dopo, eventualmente, i bisnonni). Dal punto di vista processuale, viene riconosciuto a chiunque abbia interesse – quindi non soltanto al genitore che non riesce, da solo, a far fronte al mantenimento dei figli – la possibilità di attivare un procedimento monitorio, di natura sommaria, volto ad ottenere un ordine di distrazione di una quota dei redditi dell’obbligato (genitore o ascendenti) dovuti da un terzo (es. datore di lavoro, ente previdenziale). Tali redditi possono consistere in redditi da lavoro o da capitale, rendite di vario tipo o canoni periodici nonché da trattamenti di quiescenza. La giurisprudenza di merito ha ravvisato in tale procedimento un carattere ibrido, poiché il decreto del giudice riveste sia la natura di titolo esecutivo, che l’inizio di un’esecuzione presso terzi con la conseguenza che l’eventuale opposizione parteciperà sia delle caratteristiche dell’opposizione a decreto ingiuntivo – quando verterà sull’ an e sul quantum della quota di redditi – sia delle caratteristiche dell’opposizione all’esecuzione, quando verterà, ad es. sulla misura della pignorabilità dei redditi. La Riforma Cartabia prevede che la trattazione del procedimento possa essere delegata ad un giudice designato dal presidente del tribunale e che al procedimento di opposizione si debba applicare la disciplina processuale, in materia di persone, minori e famiglia, incluso quindi il criterio della competenza territoriale. Il procedimento in questione contempla anche l’audizione dell’inadempiente e l’assunzione sommaria di informazioni e si conclude con un decreto che deve essere notificato a tutti gli interessati, ovvero al/ai genitore/i inadempiente/i, eventualmente agli ascendenti e al terzo debitore. Il decreto è opponibile dalle parti o dal terzo debitore, avanti il tribunale ordinario, entro 20 giorni dalla notifica –come in caso di opposizione all’esecuzione – termine ritenuto più appropriato alla natura del diritto da tutelare, ovvero il diritto al mantenimento dei figli, in luogo dell’ordinario termine di 40 giorni previsto per l’opposizione a decreto ingiuntivo, ritenuto troppo lungo in relazione all’esigenza di speditezza che una tale materia richiede. Tale decreto è sempre modificabile e revocabile al mutare delle circostanze che ne hanno giustificato l’emissione. NONNI E MEDIAZIONE FAMILIARE Concludo questo mio articolo sui nonni, con un piccolo ma doveroso cenno a ciò che può rappresentare un’alternativa vincente e duratura: l’applicazione della mediazione familiare anche nel conflitto relativo al rapporto tra nonni e nipoti, soprattutto laddove il conflitto affonda le sue radici nel rapporto dei nonni con i genitori. Affidare alla mediazione familiare la gestione di questo tipo di conflitto significa guardare al passato per capire il presente e preparare, in modo consapevole, il futuro. La mediazione familiare aiuta a focalizzare il bisogno al centro del rapporto in discussione e a distinguerlo da nodi irrisolti, da dinamiche non inerenti a tale bisogno ma che possono essere sviscerate per comprendere l’origine del conflitto al fine, poi, di riuscire a mettere in luce le risorse utili al soddisfacimento dei bisogni individuati. Il lavoro del mediatore familiare insieme ai mediandi – che saranno il genitore/i genitori da una parte e il nonno/i nonni dall’altra – sarà volto a comprendere se e in quale misura i nonni potranno avere spazio nel progetto educativo e formativo del minore e quindi nello sviluppo della sua personalità. Per giungere a questo risultato si guarda spesso al passato, non per rivangarlo e suscitare accuse o ritorsioni reciproche, ma per consentire alle parti in conflitto di enunciare la propria posizione e, attraverso tale enunciazione, scendere, gradualmente, al bisogno sotteso, mai esplicitato prima perché offuscato da pretese e rivendicazioni, in quanto tali non accettabili dall’altra parte. La scelta del percorso giudiziario per un nonno che chiede di poter recuperare il rapporto con il proprio nipote è certamente un’opportunità – peraltro fino al 2013 inesistente – ma è comunque un’opzione che non consente di affondare alle radici del conflitto e risalire ad una comprensione o almeno alla conoscenza reciproca dell’interesse autentico di ciascuna parte. In giudizio la conoscenza del giudice è limitata, necessariamente, alla posizione espressa dalle parti e la decisione del giudice si basa su tali posizioni, che non esplicitano tuttavia i bisogni sottesi. La consapevolezza dei bisogni di ciascuna parte si raggiunge meglio se un soggetto imparziale e neutrale ascolta in modo attivo, formula domande per ottenere chiarimenti (e ottenerli anche a beneficio dell’altra parte), aiuta le parti ad accogliere (o, almeno, ad ascoltare) un punto di vista diverso dal proprio, coadiuvandole anche a scoprire la disponibilità di risorse – affettive e materiali - utili a soddisfare l’interesse del minore e, nel caso specifico, l’interesse del minore a riconoscere anche ai nonni uno spazio utile ad una crescita equilibrata e allo sviluppo della personalità del nipote. Per questo mi piace concludere queste riflessioni con un invito a valutare il percorso di mediazione familiare anche per i casi di conflitto riguardante il rapporto tra nonni e nipoti e di considerare quale extrema ratio l’opzione del ricorso al giudice il quale, dal canto suo, inviterà esso stesso le parti a valutare l’opportunità di un percorso di mediazione familiare, come previsto dall’art. 473 bis n. 10 c.p.c., introdotto dalla Riforma Cartabia. Infine, vale la pena notare che la consapevolezza dell’utilità della mediazione familiare e la sua stessa efficacia hanno un valore diverso e maggiore quando sono le parti stesse che scelgono di avviare il percorso, in piena autonomia e senza sentirsi, in qualche misura, “costrette” dall’esistenza di un giudizio in corso. L’instaurazione di un giudizio contribuisce ad irrigidire le posizioni e a rinforzare il conflitto rendendone meno facile la gestione, soprattutto laddove si sono già sostenuti, almeno in parte, i costi legali, circostanza che naturalmente tende a svilire l’opportunità di avviare e proseguire un altro tipo di percorso. Per tutti questi motivi è consigliabile informarsi, sin da subito e comunque prima di scegliere la strada del giudizio, sul funzionamento e sulle potenzialità della mediazione familiare, al fine di ottimizzarne l’efficacia.
Ho affiancato il notaio nello studio dei casi e nella preparazione delle bozze degli atti notarili, durante il tirocinio propedeutico al concorso per notaio. Questa esperienza mi ha consentito di approfondire e trattare con estrema precisione e cura i casi di diritto civile che mi venivano sottoposti ed ha posto le basi per la metodologia di lavoro che oggi utilizzo nei casi che i miei clienti mi sottopongono.
Ho affiancato il titolare dello studio nella gestione di casi di diritto civile, spaziando dalla contrattualistica, al recupero del credito, al diritto di famiglia.
Ho conseguito la certificazione in Legal English presso un ente accreditato in Italia, il British Council di Milano, che verifica mediante appositi test il livello di conoscenza della lingua inglese sulla base di una scala di livelli riconosciuta a livello europeo.
L’idea di famiglia ha acquisito nel nostro ordinamento, con il passare del tempo, un’accezione sempre più ampia. Se, nel 1948, la nostra carta costituzionale definiva la famiglia come “ società naturale fondata sul matrimonio ” (art. 29 Cost.), legando quindi il concetto di famiglia all’esistenza del vincolo coniugale, la stessa Costituzione conteneva e contiene in sé il germe per estendere il concetto di famiglia a formazioni non generate dal matrimonio, ma derivanti dalla semplice relazione affettiva e stabile tra due persone . L’art. 2 della Costituzione, infatti, riconosce e legittima tutte le formazioni sociali in cui si può sviluppare la personalità dell’individuo, al quale garantisce diritti inviolabili, tra i quali è da annoverare senza alcun dubbio il diritto a crescere in una famiglia, ancorché non fondata su un legame giuridico quale il matrimonio, ma suggellata dall’esistenza di un legame affettivo significativo. In questo senso è famiglia anche il nucleo nel quale non sono presenti entrambi i genitori, la c.d. famiglia mono-genitoriale, o la famiglia senza prole. Ciascun tipo di formazione sociale fondata su legami affettivi stabili è quindi definibile famiglia. Tuttavia, fino al 2016, il nostro sistema legislativo ha accordato riconoscimento e tutela solo alla “famiglia matrimoniale”. Peraltro il giudice delle leggi, nel 2014, ha sottolineato l’interesse dello Stato italiano a non modificare il paradigma eterosessuale del matrimonio ed ha ricondotto pertanto la tutela matrimoniale esclusivamente delle coppie eterosessuali, ritenendo non modificabili i caratteri fondamentali del matrimonio, quale istituzione di un legame giuridico tra uomo e donna. Pertanto, da una parte il riconoscimento giuridico della coppia era previsto solo rispetto alla coppia coniugata e, dall’altra, per essere una coppia coniugata occorreva essere di sesso diverso. In altre parole, nessun diritto era previsto per le coppie eterosessuali di fatto, né tanto meno alle coppie omosessuali di fatto. Ciò fino alla legge n. 76 del 20 maggio 2016, nota come Legge Cirinnà , che ha delineato la nozione di convivenza di fatto e disciplinato, in un unico articolo, sia i contratti di convivenza che le unioni civili. In questo articolo parlerò di convivenza di fatto, lasciando al prossimo la trattazione delle unioni civili. IL PERCORSO CHE HA PORTATO AL RICONOSCIMENTO NORMATIVO DELLA COPPIA DI FATTO Il percorso di diversificazione dall’unico modello di famiglia, quella fondata sul matrimonio, è in realtà in corso da tempo, nonostante la legge sulle convivenze di fatto (e sulle unioni civili) sia del 2016. La legge n. 898 del 1970, sullo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, ne è l’indicazione più risalente nel tempo. Peraltro, già prima della Legge Cirinnà, troviamo in varie normative il riferimento alla convivenza di fatto (o convivenza more uxorio ): ad esempio nella legge sui consultori familiari del 1975, come pure nella legge sulle locazioni del 1978, aggiornata a seguito della sentenza della Corte costituzionale del 1988 che ha annoverato, tra i successibili nel contratto di locazione, il convivente del conduttore deceduto; nella legge n. 40 del 2004 che ha consentito l’accesso alla procreazione medicalmente assistita ai conviventi di fatto; nella legge di riforma delle adozioni (L. 149/2001) che consente l’adozione anche a persone che convivono stabilmente da almeno tre anni; infine nella legge sull’affido condiviso dei figli dove si fa riferimento a figli non nati da persone coniugate (l. 54/2006). Giungiamo quindi nel 2016 ad una normativa che ha recepito istanze giurisprudenziali e indicazioni già presenti anche nella normativa sovranazionale, come la Convenzione europea sui diritti dell’uomo che all’art. 8 sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Nel sancire il diritto al rispetto della vita familiare la Corte di Strasburgo ha affermato che essa non si intende sussistente soltanto in presenza di coppia formalmente coniugata, ma anche in presenza di relazioni che, pur non ufficializzate, si alimentano nella consuetudine di vita e nell’affettività, siano esse relazioni tra partner di sesso diverso o dello stesso sesso o tra partner e i figli dell’altro. LA SCELTA DI CONVIVERE, LA SCELTA DI ESSERE (E RESTARE) UNA COPPIA DI FATTO . I DIRITTI DI CHI NON CONVOLA A NOZZE La Legge Cirinnà definisce la convivenza di fatto come il legame tra due persone maggiorenni unite stabilmente dal punto di vista affettivo e che si prestano vicendevolmente assistenza materiale e morale . La legge quindi ravvisa la convivenza di fatto (detta anche convivenza more uxorio ) in presenza di un comportamento, protratto nel tempo, che ingeneri la sostanza di una relazione affettivamente significativa. Pertanto il dato anagrafico, ovvero l’accertamento anagrafico di un nucleo di persone che convivono presso lo stesso indirizzo, non prova di per sé la convivenza di fatto in assenza del requisito fattuale (la relazione stabile affettiva), anche se può essere un indice probatorio importante, come si vedrà in seguito. Dal punto di vista giuridico, inoltre, per potersi parlare di convivenza (o coppia) di fatto, non deve intercorrere tra le stesse persone un rapporto di parentela, affinità, adozione, matrimonio o unione civile. In sostanza il legislatore decide finalmente, nel 2016, di dare una definizione al concetto, socialmente rilevante, di coppia o convivenza di fatto, in modo da legittimare, una volta appuratane la presenza, una serie di situazioni soggettive di vantaggio in favore del convivente di fatto, allo stesso modo in cui sono state riconosciute al coniuge. Ed infatti sempre al coniuge si fa riferimento per dare il contenuto a tali diritti: il comma 38 dell’unico articolo della legge Cirinnà riconosce al convivente di fatto gli stessi diritti garantiti al coniuge dall’ordinamento penitenziario ; il comma 39 riconosce al convivente di fatto, per il caso di malattia e di ricovero, il diritto di visita, di assistenza e di accesso alle informazioni personali ; il comma 40 specifica le facoltà correlate allo stato di malattia del partner nel designare l’altro come suo rappresentante, con pieni o limitati poteri per decidere su questioni di salute se questi sia incapace di intendere e di volere nonché, per il caso di morte, il potere di decidere in ordine alla donazione degli organi, al trattamento del corpo e alle celebrazioni funerarie . La designazione del partner con tali poteri deve rispettare la forma scritta e autografa o, in caso di impossibilità del partner di redigerla, alla presenza di un testimone. Allo stesso proposito, il comma 48 estende al convivente di fatto la cerchia dei soggetti che possono essere nominati tutori, curatori o amministratori di sostegno del partner che si trovi in condizioni di fragilità tale da richiedere la nomina di un rappresentante legale. CESSAZIONE DELLA CONVIVENZA PER MORTE DEL COMPAGNO O PER CRISI DELLA COPPIA DI FATTO: QUALI DIRITTI HA L’EX CONVIVENTE? MORTE DEL CONVIVENTE In tale ipotesi il legislatore del 2016 garantisce al partner superstite che non sia proprietario della casa familiare nel quale tuttavia ha e ha avuto la residenza (la legge parla di casa di residenza comune ) il diritto di continuare ad abitarvi per un periodo che è commisurato alla durata della relazione, dando una base minima di due anni e indicando una durata massima di cinque anni per convivenze protrattesi per oltre due anni. Tale diritto risponde all’interesse del partner superstite di adattarsi gradualmente alla nuova situazione, concedendo un tempo minimo per trovare una soluzione abitativa diversa, comprimendo temporaneamente il diritto di proprietà di eventuali eredi (e in generale di chi vanta diritti sull’immobile) e riconoscendo pertanto, attraverso questa tutela giuridica, un valore concreto alla relazione affettiva intercorsa con il partner deceduto. Il legislatore ha rafforzato tale tutela in presenza di figli minori o disabile del convivente superstite, prolungando la durata della permanenza nella casa familiare (di proprietà del convivente deceduto) per un periodo non inferiore a tre anni. Questa disciplina rappresenta un grande progresso nella tutela del convivente di fatto se si considera che la giurisprudenza di metà Novecento equiparava il convivente di fatto, in assenza di vincolo coniugale, ad un mero ospite della casa familiare del partner deceduto, pur in presenza di una relazione duratura, ed in quanto considerato tale non era destinatario di alcuna tutela possessoria. Successivamente e con l’evoluzione sociale la giurisprudenza ha assunto un orientamento diametralmente opposto, riconoscendo tutela possessoria al convivente di fatto, privato della casa familiare, sulla base del fatto che lo stesso è da ritenersi portatore di un interesse proprio a mantenere il potere di fatto sull’immobile, ben diverso da ragioni di mera ospitalità. Tale orientamento è stato quindi recepito dalla legge Cirinnà che oggi garantisce al convivente di fatto superstite la possibilità di continuare a vivere, sia pure per un tempo determinato e commisurato alla durata della relazione, nella casa di residenza comune. L’accertamento anagrafico della convivenza è determinante per stabilire la durata del diritto del convivente a continuare a vivere nell’immobile di residenza comune. Tale diritto viene meno quando il partner superstite, di fatto, cessa di abitare nell’immobile di residenza comune o nel caso in cui inizi una nuova convivenza, contragga matrimonio o un’unione civile. Altro diritto del partner superstite riguarda il passaggio di titolarità dell’immobile condotto in locazione in forza di contratto già intestato al convivente deceduto. La Legge Cirinnà ha perfettamente recepito la pronuncia della Corte Costituzionale del 1988, già fatta propria dalla Legge sull’equo canone, a dimostrazione dell’intenzione del legislatore di fornire un corpus unico di norme in cui il convivente possa trovare garanzie e tutele. Chiaramente queste norme rispondono alla necessità di garantire il bisogno abitativo, come pure il comma 45 dell’art. 1 che, con riferimento agli alloggi in edilizia popolare, stabilisce che l’appartenenza ad un nucleo familiare rappresenta un requisito soddisfatto anche in presenza di una convivenza di fatto. Da ultimo preme rilevare come, tuttavia, la Legge Cirinnà non abbia previsto alcuna modifica in relazione alla disciplina della successione ereditaria e, nello specifico, alcun diritto successorio in favore del convivente di fatto superstite. Pertanto, in caso di morte del convivente di fatto ed in assenza di disposizioni testamentarie a favore del convivente di fatto (nel rispetto delle norme in favore dei legittimari), il convivente superstite non potrà vantare alcun diritto sul patrimonio del convivente deceduto. Né il convivente di fatto superstite avrà diritto alle prestazioni previdenziali previste in caso di morte (c.d. pensione di reversibilità). La Legge Cirinnà invece ha recepito l’orientamento giurisprudenziale che riconosce il risarcimento del danno in favore del convivente di soggetto deceduto a causa di fatto illecito del terzo: il comma 49 dell’art. 1 della Legge, infatti, estende al convivente superstite l’applicazione dei criteri per la quantificazione del danno risarcibile previsti per il coniuge superstite. CRISI DELLA COPPIA DI FATTO: LA ROTTURA DELLA RELAZIONE In presenza di una relazione di fatto, la cessazione della stessa può avvenire, naturalmente, in maniera libera ed informale senza che sia necessario alcun accertamento giudiziario. In merito agli oneri economici conseguenti a tale rottura, ci si è interrogati nel tempo sia con riferimento alla possibilità di un contributo economico in favore del convivente economicamente debole, sia con riferimento ad eventuali profili risarcitori derivanti dalla rottura della relazione. La giurisprudenza che si è pronunciata su tali questioni era determinata ad escludere sia il primo che il secondo tipo di spettanza in favore dell’ex convivente poiché la relazione di convivenza si caratterizza per essere fondata sulla libertà e sulla spontaneità dei comportamenti ed è avulsa da qualsiasi obbligo giuridico (Trib. Roma, 10.10.1985; Trib. Foggia, 9.08.1982, Cass. 9505/1996). Naturalmente tale affermazione è da riferirsi unicamente al cessato rapporto tra i conviventi e non ai figli della coppia, poiché il rapporto di filiazione genera in capo al genitore obblighi distinti, fondati sulla procreazione, del tutto autonomi rispetto alla relazione intercorsa tra i genitori. Va comunque dato atto delle incrinature che tale orientamento giurisprudenziale sta subendo anche alla luce della influenza della Corte Europea dei diritti umani, la quale afferma che la violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto che abbia caratteristiche di stabilità e serietà (Cass. n. 4184/2012). Su questa linea è avanzata la giurisprudenza, anche costituzionale (Corte cost. n. 237/1986) e sovranazionale (Corte europea dei diritti dell’uomo 24.06.2010) fino al recepimento normativo nel comma 65 dell’art. 1 della Legge Cirinnà il quale oggi statuisce che “In caso di cessazione della convivenza di fatto il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento ”. Sebbene tale norma riconosca al convivente di fatto, che si trovi in stato di bisogno, la titolarità di un diritto mai previsto finora in suo favore, in realtà questa disposizione non riveste la portata innovativa che l’evoluzione sociale della materia si sarebbe aspettata, sottolineando anzi ancora una volta la distinzione tra i diritti del convivente di fatto dai diritti del coniuge separato. Poiché, come noto, il diritto al mantenimento del coniuge separato ha un contenuto modulato non solo sul bisogno economico del coniuge, ma anche sul tenore di vita avuto in costanza di rapporto e perdura fino alla cessazione del vincolo coniugale (salva la revisione in presenza di circostanze sopravvenute da accertarsi), è evidente come il diritto riconosciuto al convivente di fatto a seguito della rottura della relazione non è un diritto al mantenimento, avendo un contenuto più limitato, sia in senso temporale che oggettivo. Infatti, sebbene la norma, in maniera ambigua e comunque impropria, richiami l’incapacità del convivente di mantenersi, il diritto in questione si compendia nel diritto ad avere un sostegno economico correlato ad un mero stato di bisogno dipendente dall’incapacità di provvedere a sé stesso e commisurato alla durata della relazione e non alla durata dello stato di bisogno. Pertanto il diritto agli alimenti previsto in favore del convivente dalla legge Cirinnà ha un contenuto diverso anche rispetto al diritto agli alimenti previsto dall’art. 433 e ss. del c.c. (il quale nel caso in questione prevede che nell’ordine degli obbligati agli alimenti sia annoverato il convivente di fatto prima dei fratelli e sorelle dell’avente diritto agli alimenti). In definitiva quindi la tutela del convivente economicamente più debole si limita ad una prestazione assistenziale limitata nel contenuto e destinata ad esaurirsi entro un certo termine, a prescindere dal protrarsi dello stato di bisogno. Altro tema che può porsi in occasione o a causa della rottura della convivenza è la restituzione di beni, cespiti o liquidità versata in corso di rapporto: essa, al pari di quanto succede nell’ambito dei rapporti coniugali, è da escludersi in via generale, ma nella misura in cui le contribuzioni economiche e le elargizioni siano state rispondenti alle condizioni economiche e patrimoniali di chi le ha effettuate, rappresentando l’adempimento di doveri morali e sociali giustificati dalla relazione sentimentale e in quanto tali non restituibili. Diverso è il caso in cui tali contribuzioni ed elargizioni siano state sproporzionate rispetto alle effettive possibilità economiche e alla posizione sociale del convivente e abbiano determinato un arricchimento ingiustificato in favore dell’altro, circostanza che ne giustificherebbe il risarcimento o la restituzione. In tal senso la Suprema Corte si è espressa con riferimento al caso di un soggetto che aveva regalato alla compagna un quadro di Picasso e un anello da tredici carati, pur non avendone le possibilità (Cass. 18280/2016). CRISI DELLA RELAZIONE DI FATTO IN PRESENZA DI FIGLI La trattazione sulla famiglia di fatto e, nello specifico, della disciplina applicabile in caso di crisi e di rottura della convivenza, in presenza di figli minori o maggiorenni non economicamente sufficienti segue un percorso diverso e dettagliatamente delineato dal codice civile e dal codice di procedura civile (quest’ultimo particolarmente rinnovato dopo la Riforma Cartabia). In tal caso infatti è prioritaria la tutela della prole e pertanto anche la disciplina relativa alla permanenza del convivente nella casa familiare (o di residenza comune) risponderà all’interesse dei figli e si configurerà, in termini di assegnazione, nel caso in cui il convivente non proprietario venga individuato, dal giudice, come genitore collocatario dei figli. Questo argomento non si potrà approfondire in questo articolo nel quale tuttavia preme sottolineare come, in caso di crisi della famiglia di fatto e della conseguente necessità di regolamentare l’affidamento, il collocamento ed il mantenimento dei figli, si può ricorrere non soltanto al giudice, ma anche a metodi di risoluzione alternativi al giudizio, come la negoziazione assistita , che con la Riforma Cartabia è stata estesa anche alle ipotesi di figli nati da relazioni di fatto. Infine, non si può non sottolineare l’importanza, anche in questa materia e forse più che mai in questi casi dove il ricorso al giudice può essere evitato proprio per l’assenza di un vincolo coniugale, dello strumento della mediazione familiare che può efficacemente aiutare le coppie di fatto in crisi a trovare gli accordi più funzionali a gestire l’organizzazione familiare dopo la cessazione della convivenza. IL CONTRATTO DI CONVIVENZA Arriviamo infine a trattare del contratto di convivenza. Preliminarmente si deve precisare che la stipula di un contratto di convivenza non determina di per sé la convivenza di fatto poiché questa dipende dall’esistenza di una relazione affettiva stabile comprovata da un comportamento concludente. Come si è premesso, neanche il dato anagrafico (ovvero l’appartenenza anagrafica allo stesso nucleo familiare) è determinante ai fini della prova della convivenza, in mancanza del dato fattuale. Ciò precisato il contratto di convivenza rappresenta il programma economico a cui la coppia di fatto ha manifestato, per iscritto e con specifiche formalità, di volersi attenere. Il comma 50 dell’art. 1 della Legge Cirinnà stabilisce infatti che i conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza . Tale programma economico deve rivestire la forma scritta (come anche le sue modifiche e la risoluzione), dovendo trasfondersi in un atto notarile o in una scrittura autenticata dal notaio o dall’avvocato che ne certificano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico. In entrambi i casi, il professionista, ai fini dell’opponibilità a terzi del contratto, dovrà trasmetterlo entro dieci giorni al Comune di residenza dei partners per l’iscrizione anagrafica. Stessi oneri avrà nel caso di risoluzione o recesso unilaterale dal contratto. Il contratto di convivenza è una sorta di “contenitore” delle regole economiche che le parti pongono a presidio dei loro rapporti economici e che possono riguardare, nello specifico ed essenzialmente, le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune nonché il regime patrimoniale della comunione dei beni . Questa opportunità normativa poggia sul principio generale dell’autonomia contrattuale, tipico del nostro sistema giuridico che consente alle parti di liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela (art. 1322 c.c.). Orbene è evidente la meritevolezza degli interessi in questione, sebbene il vincolo affettivo che lega i conviventi di fatto non abbia lo stesso contenuto giuridico del vincolo coniugale, non contemplando ad esempio l’obbligo di fedeltà al partner . Ciononostante l’esistenza di una relazione affettiva stabile, consustanziandosi nel dovere vicendevole, solo morale, di prestare assistenza morale e materiale al partner legittima l’interesse a formalizzare un tale dovere e, conseguentemente, anche a dargli un contenuto specifico, nei limiti della legge. In questo senso il contratto di convivenza deve confrontarsi con le norme imperative del nostro sistema giuridico, onde evitare la sanzione della nullità, come può accadere ad esempio nel caso di statuizioni di natura personale. Innanzitutto il contratto di convivenza è nullo in presenza di altro contratto di convivenza, di matrimonio o di unione civile, ma anche nel caso in cui uno dei due conviventi sia minore, interdetto o condannato per omicidio o tentato omicidio del coniuge dell’altro convivente oppure nel caso in cui non si sia in presenza di una convivenza di fatto come definita dalla legge Cirinnà. Inoltre tra le clausole che rendono nullo il contratto totalmente, nel caso in cui abbiano rappresentato il motivo determinante per la sua conclusione, vi sono quelle che impongono l’impegno a sposarsi o a non sposarsi, quelle che limitano il periodo di convivenza ad una certa durata, quelle relative alla regolazione dei rapporti sessuali o quelle che determinano le modalità di esercizio della convivenza o ancora clausole penali a carico di chi interrompe la convivenza. Sono invece ammissibili le disposizioni contrattuali che pongono l’impegno reciproco a contribuire economicamente alle necessità della convivenza e che stabiliscono anche in termini quantitativi e qualitativi il contenuto di tale impegno, parametrandolo in base alle capacità reddituali, patrimoniale e domestiche dei partners . Con i contratti di convivenza è possibile anche stabilire l’impegno alla costituzione di un patrimonio comune (ad esempio l’impegno ad includervi tutti o parte dei beni personali dei partners o soltanto i beni acquisiti durante la convivenza) e le sue modalità di amministrazione. Tale impegno, che si traduce in un vero e proprio obbligo giuridico a contrarre, dovrà essere poi attuato attraverso un atto notarile o, in caso di inadempimento, potrà essere fatto valere in giudizio al fine di ottenere una sentenza costitutiva in adempimento dell’obbligo assunto dal convivente inadempiente. Rispetto alle convenzioni matrimoniali tipiche (come la separazione dei beni o il fondo patrimoniale) si registra un’ampia autonomia negoziale delle parti che possono ad esempio anche costituire un trust, con l’espresso scopo di far fronte alle necessità della convivenza. È inoltre possibile correlare la durata del contratto di convivenza alla durata della relazione o stabilirne una durata determinata. Come qualsiasi contratto, anche il contratto di convivenza può risolversi. Tra le cause di risoluzione vi è l’accordo delle parti, il recesso unilaterale, il matrimonio o l’unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed un terzo ed infine la morte di uno dei conviventi. Merita nota la norma che prevede che in caso di recesso unilaterale, da farsi in forma scritta e da comunicarsi all’altro convivente a cura del professionista che riceve e autentica la dichiarazione, se il convivente recedente ha anche la disponibilità esclusiva della casa familiare dovrà altresì indicare, a pena di nullità del recesso, un termine non inferiore a novanta giorni entro il quale l’altro convivente dovrà lasciare l’abitazione. Anche questa norma è evidentemente segno del valore che viene riconosciuto al rapporto di fatto (pregresso) e alla necessità di tutela del bisogno abitativo del convivente non recedente. Infine, è importante rilevare che la risoluzione del contratto di convivenza determina, in caso di costituzione di un patrimonio comune, anche lo scioglimento del regime di comunione con la conseguente necessità di procedere con la divisione dello stesso attraverso appositi atti notarili.
Romina Anichini
Via Trento Trieste, 57
Formigine (MO)
Il portale giuridico al servizio del cittadino ed in linea con il codice deontologico forense.
© Copyright IUSTLAB - Tutti i diritti riservati
Privacy e cookie policy