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Il rifiuto del lavoratore di adempiere alle mansioni assegnate dal datore di lavoro. Limiti e poteri in capo al datore di lavoro.
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Il
rifiuto del lavoratore di adempiere alle mansioni assegnate dal
datore di lavoro.
Limiti
e poteri in capo al datore di lavoro.
Nota
a Cass Civ. Sez Lav. n.24118 del 3 ottobre 2018
La
sentenza in commento traccia i limiti riferiti al rifiuto del
lavoratore di svolgere i compiti impartiti dal datore di lavoro
laddove ritenga che gli stessi siano illegittimi poichè non compresi
nella propria qualifica contrattuale.
Per
contro permette di identificare i rimedi posti a favore del datore di
lavoro e le eventuali azioni esperibili dal lavoratore.
Quadro
normativo.
Prima
di procede all'analisi della decisione della Suprema Corte è
opportuno tracciare il quadro normativo di riferimento.
art
2103 c.c. “ Prestazioni di lavoro” Tale norma detta il
principio generale per cui il lavoratore debba essere assegnato alle
mansioni per le quali è stato assunto, o a quelle di livello
superiore che abbia acquisito successivamente (con contestuale
diritto al trattamento retributivo superiore ex comma 7, salvo
diversa volontà del lavoratore e salvo che l'assegnazione sia
dipendente da ragioni temporanee sostitutive entro il termine di sei
mesi consecutivi) o a quelle riconducibili allo stesso livello e
categoria legale di quelle effettivamente svolte.
L'assegnazione
a mansioni inferiori (rientranti nella stessa categoria legale), per
quanto qui rileva è ammessa solo nelle ipotesi in vi sia una
modifica degli assetti organizzativi, oppure se previste dai
contratti collettivi o a seguito di accordo concluso in sede
protetta e nell'interesse del lavoratore al mantenimento del posto
di posto di lavoro, all'acquisizione di nuove professionalità o al
miglioramento delle condizioni di vita.
In
ipotesi di assegnazione a mansioni inferiori il lavoratore mantiene
il diritto al trattamento retributivo previsto per la mansione
superiore per cui è stato assunto (ex comma 5)
artt
2104, 2105 e 2106 c.c.. Le norme citate dettano gli obblighi in
capo al lavoratore nell'esercizio della prestazione. Segnatamente
l'obbligo di diligenza connesso alla prestazione svolta e
nell'interesse dell'impresa, l'obbligo di fedeltà. L'art 2106 c.c.,
invece, individua i presupposti del potere gerarchico esercitabile
dal datore di lavoro in ipotesi di violazione delle suddette norma.
art
2086 c.c. “Direzione e gerarchia dell'impresa” L'esercizio del
potere di direzione e gerarchico è esclusivamente in capo al datore
di lavoro che lo esercita nei limiti assegnati dalla legge.
art
1460 c.c. “Eccezione di inadempimento”. Nei contratti a
prestazioni corrispettive l'inadempimento di una parte (ancorchè
grave e tale da ledere il principio di corrispettività) giustifica
il consequenziale inadempimento dell'altra.
Il
secondo comma dell'art 1460 c.c. dispone però che la parte (anche a
fronte dell'inadempimento dell'altra) non possa rifiutarsi di
adempiere laddove ciò sia contrario a buona fede.
Ne
segue, in via generale che il Giudice adito sulla questione debba
effettuare procedere ad una valutazione comparativa degli interessi
di entrambe le parti avuto riguardo alla proporzionalità degli
inadempimenti anche rispetto alla funzione economico – sociale del
contratto e all'equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni.
L'eccezione di inadempimento potrà essere legittimamente sollevata
solo e laddove il rifiuto a rendere la propria prestazione sia
diretta conseguenza dell'inadempimento altrui di tale gravità da
configurare uno sbilanciamento del sinallagmatico.
In
materia giuslavoristica è un dato certo che il rapporto di lavoro
sia connotato da prestazioni corrispettive, ma il sinallagma
contrattuale non potrà prescindere dalla valutazione che la
prestazione del lavoratore coinvolga aspetti non meramente
professionali, bensì connessi alla tutela della salute e della vita
dello stesso.
In
tale ottica, occorre domandarsi se ed in che termini il lavoratore
possa rifiutarsi di svolgere la propria prestazione ritenendola non
compresa nelle proprie mansioni e se in tali casi il datore di
lavoro possa esercitare il potere disciplinare anche nella misura
massima del licenziamento.
CCNL
di settore . Il CCNL applicabile al settore di riferimento detta
le norme specifiche in tema di inquadramento del lavoratore a norma
dell'art 2103 c.c. e del potere disciplinare esercitabile dal datore
di lavoro.
Il
caso analizzato dalla Corte di Legittimità.
Fatte
le opportune premesse relative al quadro normativo generale, andiamo
ad analizzare il caso offerto alla Suprema Corte.
Tizia,
lavoratrice dipendente con mansioni di cuoca IV livello del CCNL
Turismo si è rifiutata di svolgere le ulteriori mansioni assegnate
dal datore di lavoro (segnatamente svolgere servizio di distribuzione
vassoi nei locali mensa) sul presupposto che le stesse non
rientrassero nella propria qualifica contrattuale ma fossero
ricomprese nel livello inferiore.
La
società datrice di lavoro, a fronte del rifiuto, ha comminato il
licenziamento per giustificato motivo soggettivo, impugnato dalla
lavoratrice.
Nel
definire i contorni della vicenda, il Supremo Collegio ha precisato
come il lavoratore possa avvalersi del principio dettato dall'art
1460 c.c. e dunque rifiutarsi di svolgere la propria prestazione solo
se tale reazione risponda ai requisiti di proporzionalità e di buona
fede.
La
valutazione dei suddetti requisiti spetta al Giudice di merito che
dovrà valutare le condotte di entrambe le parti e realizzare un
contemperamento di interessi tra l'esercizio dello ius variandi
in capo al datore di lavoro e l'autotutela del lavoratore che si sia
avvalso dell'eccezione di inadempimento.
Nel
caso di cui si tratta la Corte di Cassazione, benchè abbia ritenuto
che le mansioni richieste alla lavoratrice fossero effettivamente
riconducibili ad un livello inferiore, ha altresì statuito come
“ ...l'eventuale
adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può
consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione
della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma
non autorizza lo stesso a rifiutarne aprioristicamente l'adempimento
in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per
l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore, ex artt. 2086 e
2104 c.c. , da applicarsi alla stregua del principio sancito
dall'art. 41 Cost....”
Dunque,
il lavoratore che ritenga che gli ordini impartiti dal datore di
lavoro siano illegittimi in quanto non rientranti nelle mansioni
assegnategli non potrà rifiutarsi prima facie di svolgere la
prestazione.
Potrà,
invece, agire in giudizio per vedere accertato il proprio diritto ad
essere assegnato alla mansioni per le quali è stato assunto.
Sul
punto è opportuno richiamare anche il disposto di cui alla sentenza
836/2018 che ribadisce come il lavoratore possa ottenere la
collocazione nelle qualifiche contrattualmente previste anche in via
d'urgenza, ossia mediante procedimento ex art 700 c.p.c. 1
Per
contro il datore di lavoro, a fronte del rifiuto del lavorate, potrà
certamente esercitare il potere disciplinare a norma dell'art 2106
c.c. e nei termini dettati dall'art 7 dello Statuto dei Lavoratori e
delle disposizioni previste dal CCNL di categoria.
Ciò
sino alla sanzione più grave del licenziamento laddove ne ricorrano
i presupposti.
Le
ipotesi di rifiuto legittimo.
Prosegue
la Corte nello statuire come: “..... il lavoratore (n.d.r.)
può legittimamente invocare l'art. 1460 c.c., rendendosi
inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte ”
Occorre
domandarsi dunque in quali casi il datore di lavoro possa incorrere
in un totale inadempimento della prestazione tale da giustificare il
venir meno della prestazione da parte del lavoratore.
La
sentenza in commento offre una prima risposta statuendo come il
rifiuto sia legittimo “ nel caso in cui l'inadempimento del
datore di lavoro sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile
sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo o da esporlo a
responsabilità penale connessa allo svolgimento delle nuove
mansioni”.
Procedendo
con ordine, il rifiuto di svolgere la prestazione lavorativa è
legittimo laddove le condizioni di lavoro o le nuove mansioni possano
ledere le esigenze vitali del lavoratore (vita e salute) .
Un
esempio in tal senso lo offre la sentenza n. 836/2016 del Supremo
Collegio che ha ritenuto legittimo il rifiuto di svolgere la
prestazione lavorativa laddove il datore di lavoro non abbia
garantito le misure di di sicurezza idonee a garantire la salute e
l'incolumità dei lavoratori.
Analoghe
conclusioni debbono ravvisarsi nell'ipotesi di mobbing esercitato dal
datore di lavoro, condotta che mina la salute del lavoratore e
legittima l'inadempimento del lavoratore (Cass. Civ. Sez Lav.
22684/2018).
Altro
esempio di legittimità del rifiuto a svolgere la prestazione
lavorativa è da ravvisarsi nel caso in cui il datore di lavoro, in
deroga alle disposizioni tassative in materia, intenda offrire un
'indennità monetaria per sostituire il periodo di ferie di cui il
lavoratore debba obbligatoriamente fruire durante l'anno. Ciò in
quanto il godimento delle ferie risponde alle esigenze di tutela
della salute del lavoratore. (Cass. Civ. Sez. lav 23697/2017).
Quanto
alla seconda ipotesi di legittimità del rifiuto del lavoratore, ciò
il caso in cui lo stesso possa incorrere in responsabilità penale
connessa all'esercizio delle nuove mansioni.
Il
caso di specie è stato affrontato dalla Corte di Cassazione con la
sentenza n. 17713 del 2013, la quale ha trattato il caso di un
lavoratore adibito a responsabile di un punto vendita alimentare con
annesso ruolo di verifica e controllo sugli alimentari in vendita.
Nel caso di specie la Corte ha ritenuto legittimo il rifiuto del
lavoratore a svolgere le mansioni annesse laddove anche solo
potenzialmente possano determinare una responsabilità penale per le
quali non risulta adeguatamente formato. 2
L'ipotesi
del trasferimento a nuova sede di lavoro.
Spunti
di riflessione offre l'ipotesi in cui il lavoratore si rifiuti di
rendere la prestazione presso la nuova sede di lavoro a cui è stato
assegnato a seguito di trasferimento che presuppone illegittimo ai
sensi dell'art 2103 c.c..
Sul
punto si riscontrano due orientamenti contrapposti della Corte di
Cassazione.
Ed
infatti, con la sentenza n 11408/2018 il Supremo Collegio ha
affermato come “In
tema di provvedimento di trasferimento adottato in violazione
dell'articolo 2103 c.c. , l'inadempimento
datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore
ad eseguire la prestazione lavorativa
in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni
corrispettive, trova applicazione il disposto dell'articolo 1460
c.c. , comma 2, alla stregua del quale la parte adempiente puo'
rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale
rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti
contrario alla buona fede".
Con
tale decisum la Corte ribalta l'orientamento precedente secondo cui
poiché il trasferimento illegittimo a norma dell'art 2103 c.c. è
nullo dunque improduttivo di effetti e poiché non sussiste una
presunzione di legittimità dei provvedimento datoriali che impone la
verifica degli stessi in giudizio, allora il lavoratore è
automaticamente legittimato a negare la propria prestazione. 3
Sul
punto la Corte ha precisato come, l'accertamento dei reciproci
inadempimenti debba essere valutato dal Giudice di merito sulla base
delle concrete circostanze.
Vero
anche che il rifiuto del lavoratore non debba necessariamente essere
oberato dall'avvallo del Giudice ancorchè chiamato a decidere in via
cautelare. Ciò che aggraverebbe la posizione del lavoratore.
Certamente,
però, la circostanza che il trasferimento sia illegittimo e dunque
privo di effetti non può essere di per se sufficiente a giustificare
de plano il rifiuto del lavoratore.
Anzi,
la Corte ritiene che tale visione del rapporto sia “atomistica”
poiché non tiene conto di entrambi gli interessi delle parti.
Conclude il Collegio che “il
provvedimento datoriale affetto da nullita', per violazione
dell'articolo 2103 c.c. , deve essere
ricondotto all'ambito dell'inadempimento parziale per il quale
valgono i principi ora affermati in tema di necessita' di verifica,
ai sensi dell'articolo 1460 c.c. , della non
contrarieta' alla buona fede del rifiuto del lavoratore di rendere la
propria prestazione.”
Ad
offrire un discrimine nel caso in esame v'è la possibilità per il
lavoratore di offrire la propria prestazione lavorativa presso la
sede originaria, con ciò contestando il trasferimento, come
prospettato dalla sentenza 29054/2017.
Conclusioni.
In
conclusione dunque, il rifiuto del lavoratore di svolgere le proprie
mansioni non può essere valutato a priori presupponendo
l'illegittimità della condotta datoriale.
Questo
dovrà essere sottoposto al vaglio del Giudice che in relazione alle
circostanza di merito dovrà verificare se ed in che termini il
datore di lavoro sia incorso in inadempimento e, laddove ciò sia
accertato, se tale inadempimento sia tale da pregiudicare il
sinallagma contrattuale tenendo conto degli interessi di entrambe le
parti e della tutela garantita al diritto alla salute ed alla vita
del lavoratore.
19.11.2018
1
Cass. Civ. Sez lavoro n 836/2018 “L'adibizione a mansioni non
rispondenti alla qualifica rivestita puo', difatti, consentire al
lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della
prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non lo
autorizza a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale
avallo giudiziario che, peraltro, puo' essergli urgentemente
accordato in via cautelare, di eseguire la prestazione lavorativa
richiestagli, in quanto egli e' tenuto ad osservare le disposizioni
per l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore, ex articoli
2086 e 2104 c.c. , da applicarsi
alla stregua del principio sancito dall'articolo 41 Cost. e puo'
legittimamente invocare l'articolo 1460 c.c. ,
rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento
dell'altra parte (cfr. Cass. 29.1.2013, n.
2033 ; Cass. 20.7.2012 n. 12696 ;
Cass. 19.12.2008 n. 29832 , Cass.
5.12.2007 n. 25313 ).”
2 Cass
Civ Sez Lavoro 17713/2013. “Il rifiuto, da parte del lavoratore
subordinato, di essere addetto allo svolgimento di mansioni non
spettanti puo' essere legittimo e quindi non giustificare il
licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a
prestazioni corrispettive enunciato dall'articolo 1460
c.c. , sempre che il rifiuto sia proporzionato all'illegittimo
comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede (Cass. 26
giugno 1999 n. 6663, 1 marzo 2001 n. 2948, 7 novembre 2005 n. 21479,
8 giugno 2006 n. 13365, 27 aprile 2007 n. 10086; Cass.
12 febbraio 2008, n. 3304 ). Ne consegue che deve considerarsi
legittimo il rifiuto opposto da un dipendente di una societa' che si
occupa del commercio e della vendita di alimenti e bevande, e che e'
articolata sul territorio in piu' punti vendita, di svolgere il
servizio di permanenza di direzione di uno di questi punti vendita
-servizio che comporta l'assunzione del ruolo di responsabile del
punto vendita stesso, nei suoi riflessi anche penalistici - se non
e' dimostrato che si tratta di un compito rientrante nella qualifica
di competenza del lavoratore e che questi ha conoscenze adeguate per
il relativo svolgimento".
3 Cass
Civ. Sez. Lav. 18178/2017