Avvocato Stefano Parma a Rimini

Stefano Parma

Avvocato esperto in Malasanità e responsabilità civile - matrimonialista e divorzista


Informazioni generali

Lo studio legale Parma & Partners fornisce assistenza e consulenza legale in materia di diritto civile attraverso professionisti di alto profilo, esperti nella tutela dei cosiddetti “nuovi diritti” e competenti nelle materie più tradizionali. Il costante aggiornamento, l’impegno profuso e l’attenzione anche a quelle che da altri professionisti potrebbero essere considerate questioni di minore interesse, fanno sì che lo Studio Legale Parma & Partners sia un agile strumento idoneo alla rapida soluzione delle questioni proposte ed alla tutela degli interessi dei propri assistiti.

Esperienza


Diritto civile

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Malasanità e responsabilità medica

Avvocato del Tribunale dei diritti del Malato di Riccione e Cattolica Esperienza pluriennale in numerose cause nei confronti di strutture sanitarie pubbliche e private Collabora con un Team di medici e CTU del Tribunale di Rimini Ancona e Bologna Lo Studio Legale Parma si propone di tutelare i diritti del malato in senso ampio. La tutela si esplica in azioni legali mirate all’ottenimento del risarcimento del danno riportato dal paziente a causa di un errore medico che porti a morte o grave invalidità.


Incidenti stradali

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Referenze

Pubblicazione legale

I profili di responsabilità del direttore lavori

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Di Stefano Parma, Avvocato Cassazione Civile, Sez. II, 3 maggio 2016 Appalto – Responsabilità – Direttore e direzione dei lavori MASSIMA: In materia di appalto, il principio dell’esclusione di responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero esecutore di ordini (“ nudus minister ”) non si applica al direttore dei lavori che, per le sue peculiari capacità tecniche, assume nei confronti del committente precisi doveri di vigilanza, correlati alla particolare diligenza richiestagli, gravando su di lui l’obbligazione di accertare la conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera appaltata al progetto sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, sicché non è esclusa la sua responsabilità nel caso ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente. IL CASO: Il Condominio R. Q. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Mantova l’impresa costruttrice-venditrice E. M. & C. sas al fine di ottenere il risarcimento dei danni provocati da infiltrazioni d’acqua ed umidità in varie parti degli edifici. L’impresa appaltatrice si costitutiva in giudizio contestando la pretesa risarcitoria, rilevando che i danni ove sussistenti erano ascrivibili all’esclusiva responsabilità del progettista-direttore dei lavori, l’Ing. M. F. chiedendone pertanto la chiamata in causa, a manleva. A seguito di autorizzazione della chiamata del terzo si costituiva altresì in giudizio l’Ing. M. F. il quale a sua volta negava ogni responsabilità. Il Tribunale di Mantova, dopo aver disposto consulenza tecnica, con sentenza condannava in solido l’impresa appaltatrice e l’Ing. M.F. al risarcimento dei danni in favore del Condominio nella misura di Euro 80.110,26. I soccombenti impugnavano siffatta sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Brescia che integralmente riformava la pronuncia di primo grado rigettando tutte le domande ed osservando che il diritto al risarcimento dei danni nei confronti dell’impresa si era prescritto e altresì dichiarando l’assenza di responsabilità di natura extracontrattuale del progettista-direttore dei lavori nominato dall’impresa. Avverso tale sentenza, il Condominio R. Q. proponeva ricorso per Cassazione a cui resisteva la E. M. sas con controricorso contenente ricorso incidentale, resistendo altresì con separati ricorsi l’Ing. M. F. QUESTIONE: In tema di appalto, il principio dell’esclusione della responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero esecutore si applica anche alla figura del direttore lavori? LE SOLUZIONI GIURIDICHE: La Suprema Corte in totale riforma del dictum della Corte territoriale riteneva erronea “ in diritto l’affermazione della Corte d’Appello laddove ritiene una minore incisività dell’attività di controllo del direttore dei lavori sull’andamento degli stessi sol perché vi erano ditte appaltatrici e, soprattutto laddove – sulla base dell’esistenza dell’appaltatore e di un responsabile di cantiere, tale R. (di cui neppure ha verificato le specifiche mansioni o il titolo professionale) – ha di fatto spogliato il direttore dei lavori di ogni responsabilità nella verifica della corretta esecuzione dell’opera […] ”. Ebbene, la Suprema Corte definisce la decisione della Corte di Appello erronea giuridicamente oltre che consistente in un vero e proprio salto logico, mostrando, a riprova di ciò il ragionamento giuridico sotteso e la giurisprudenza espressasi sul punto che, diversamente dal ragionamento della Corte territoriale, conducevano all’accertamento della responsabilità del direttore lavori e non del progettista. Preliminarmente è importante distinguere la figura del progettista da quella del direttore dei lavori, seppur le stesse possano essere ricoperte da un medesimo soggetto, come nel caso di specie. Per progettista s’intende la figura professionale che redige un progetto, spesso di carattere architettonico o tecnico progettuale, attraverso un’attività di progettazione vera e propria, mentre il direttore dei lavori si occupa della fase esecutiva dell’intervento edilizio ed, in tale veste, egli deve verificare che l’opera venga realizzata in conformità al permesso di costruire e secondo le modalità in esso indicate. Nel caso de quo sulla scorta dei fatti e della consolidata giurisprudenza che qualifica l’art. 1669 c.c. quale responsabilità extracontrattuale, analoga a quella aquiliana, si può affermare che in siffatta responsabilità possano incorrere, a titolo di concorso con l’appaltatore, anche tutti quei soggetti che prestando a vario titolo la propria opera nella realizzazione dell’attività abbiano comunque contribuito per colpa professionale alla determinazione dell’evento dannoso, della specie dell’insorgenza di vizi. A differenza di quanto avviene per il progettista, il direttore dei lavori al conferimento dell’incarico contrae un’obbligazione di mezzi che consiste nell’impegno del professionista nell’assolvere le mansioni assegnate con la diligenza necessaria con riguardo all’attività esercitata (art. 1176 c.c.) e richiesta per garantire la corretta esecuzione dell’opera, ovvero, dovrà riferirsi a quella particolare diligenza richiesta dalle caratteristiche dei lavori da dirigere. Per meglio comprendere la portata di una siffatta diligenza è illuminante il richiamo alla giurisprudenza oramai consolidata nell’ambito della direzione lavori, a tenore della quale nel novero delle competenze del direttore dei lavori e pertanto delle obbligazioni a suo carico sono da ricomprendersi (a fronte delle proprie capacità tecniche), precisi doveri quali quello di vigilanza dei lavori, di controllo della conformità dell’opera al progetto, anche nelle fasi progressive, il rispetto delle modalità di esecuzione dell’opera rispetto al capitolato ed altresì il vagli circa l’adozione delle regole della tecnica nel rispetto della normativa vigente. In particolare, l’attività del direttore dei lavori si concreta nell’alta sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento delle operazioni di natura elementare, comporta il controllo della realizzazione dell’opera nelle sue varie fasi (Cass. Civ. Sez. II, del 24 aprile 2008, n. 10728). Grava pertanto sul professionista l’obbligo di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell’arte e la corrispondenza dei materiali impiegati (Cassazione civile, sez. II, 21/05/2012, n. 8014). Secondo la Corte di Cassazione: “il direttore dei lavori è la persona di fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite dall’appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga intervenendo per tempo anche solo a fermarne l’esecuzione, qualora questa manifesti vizi o difetti ” (Cassazione civile, sez. II, 29/08/2013, n. 19895). In applicazione di questo principio di diritto, si è quindi sostenuto che anche “ il geometra direttore dei lavori, sebbene non competente per l’esecuzione dei calcoli in cemento armato, dovesse essere competente a valutare in corso d’opera come l’appaltatore ed i suoi ausiliari (ivi incluso l’ingegnere progettista delle strutture) eseguissero il loro lavoro, sì da rilevare per tempo i gravi difetti delle opere, prima che esse venissero completate ” (Cfr. Cassazione civile, sez. III, 13/04/2015, n. 7370). Proprio a fronte di tali competenze tecniche, che presuppongono un’applicazione di risorse intellettive e operative da parte del direttore lavori nell’esecuzione del proprio operato, s’impone quella giurisprudenza di legittimità che afferma l’impossibilità di applicazione del principio di esclusione della responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero esecutore di ordini, il c.d. “nudus minister” (Cass. Civ. Cassazione Civile, Sez. II, 3 maggio 2016 n. 8700). Ciò detto, risultando la responsabilità del DL di natura contrattuale , il professionista non può affatto esimersi dall’espletare le competenze e i controlli che la diligenza del suo incarico richiedono ex art 1176, 2 comma, neppure invocando l’eventuale presenza in cantiere di altre figure affini (quali altri subappaltatori, per esempio). Sul punto si consideri altresì alla luce dei principi generali della responsabilità aquiliana e della causalità civile (Cassazione civile sez. III 02 febbraio 2010 n. 2360), come la responsabilità del DL possa concorrere, nella causazione di un fatto lesivo di terzi soggetti occorso nell’esecuzione dei lavori, con gli ulteriori fattori causali, precisamente condotte attive od omissive di altri collaboratori, ove tali condotte costituiscano autonomi fatti illeciti che abbiano contribuito causalmente alla produzione dell’evento. Responsabilità che rileva ove il direttore dei lavori abbia omesso gli obblighi e la diligenza derivanti dal proprio incarico (precisamente, omessa impartizione delle direttive volte ad evitare l’evento dannoso, la mancanza di garanzia circa la loro osservanza, od omessa manifestazione del dissenso circa la prosecuzione dei lavori astenendosi dal dirigerli in mancanza delle cautele necessarie) (Cass. Civ. Sez. 22.10.2003, n. 15789). OSSERVAZIONI: Dalle considerazioni suesposte e dalla giurisprudenza richiamata ciò che si evince è che seppur gli oneri gravanti in capo al direttore dei lavori siano da qualificarsi tra le obbligazioni di mezzi e non di risultato ciò non esclude che tutti gli obblighi che ne discendono a fronte della diligenza professionale richiesta, non debbano essere dallo stesso espletati non essendo sufficiente che il direttore lavori effettui un mero controllo della conformità dell’opera al progetto quanto invero anche tutte quelle obbligazioni di vigilanza e rispetto delle normative che ne afferiscono (cfr. Cassazione civile, sez. II, 24/04/2008, n. 10728, v. anche Cassazione civile 03 maggio 2016 n. 8700 sez. II Cassazione civile 30 settembre 2014 n. 20557 sez. III). Si comprende altresì che ove la figura di progettista e quella di direttore dei lavori convergano in un’unica persona la stessa sarà chiamata a rispondere per le responsabilità solo accertate, precisamente nel caso di specie veniva infatti esclusa la responsabilità del tecnico nella sua veste anche di progettista non essendo in tale ambito riscontrati illecito alcuno. Ciò che rileva pertanto in relazione al direttore dei lavori è che egli è chiamato a rispondere del danno derivato al terzo se ha omesso di impartire le opportune direttive per evitarlo e di assicurarsi della loro osservanza, ovvero di manifestare l’eventuale dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi astenendosi dal continuare a dirigerli in mancanza di adozione delle cautele disposte (Cassazione civile, sez. III, 22/10/2003, n. 15789). Il consiglio pratico è pertanto il seguente: il direttore dei lavori deve svolgere la propria attività ovviamente nel rispetto della diligenza professionale richiesta alla luce delle peculiari competenze tecniche, precisamente, nel rispetto delle obbligazioni che l’orientamento consolidato della Suprema Corte ha puntualizzato in varie sentenze avendo ben in considerazione che ove il caso concreto invero non consentisse per contingenze di varia natura ciò, il DL potrebbe comunque andare esente da qualsivoglia addebito di responsabilità ove manifestasse il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi, decidendo persino di astenersi dal continuare la propria opera di direttore nel caso in cui non venissero adottate le cautele disposte. Precisamente le obbligazioni, in via generale, poste a carico del direttore dei lavori, differenziandole da affini figure professionali sono: 1) l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica; 2) l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera, e la segnalazione all’appaltatore di tutte le situazioni anomale e gli inconvenienti che si verificano in corso d’opera, oltre sul punto a garantire il rispetto della normativa vigente in materia, in alternativa di manifestare il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori astenendosi dal continuare a dirigerli in mancanza di adozione delle necessarie cautele. Si consideri per completezza espositiva che il direttore dei lavori, anche se è chiamato in causa dall'impresa, può essere condannato al risarcimento del danno qualora non abbia supervisionato e controllato sulla corretta esecuzione dei lavori. Concludendo, il direttore dei lavori può andare esente da responsabilità, anche se chiamato a manleva, ove adempia ai propri obblighi di vigilare ed impartisca le opportune disposizioni al riguardo, preoccupandosi di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e di riferirne al committente. Approfondimenti giurisprudenziali: Puntualizzazione delle obbligazioni poste a carico del direttore dei lavori: Cassazione Civile, sez. II, 24/07/2007, n. 16361 Culpa in eligendo: Cassazione Civile, sez. II, 16/09/2014, n. 19485 La responsabilità del direttore dei lavori per i gravi vizi dell'opera: Cassazione Civile Sez. II 27 gennaio 2012 n. 1218 Direttore dei lavori: è responsabile del risarcimento danni anche se chiamato in causa: Cassazione Civile sentenza, 13 aprile 2015 n. 7370 Sulla responsabilità del direttore dei lavori cfr. Cass. 29 luglio 2005 n. 15255; Cass. 28 novembre 2001 n. 15124

Pubblicazione legale

Morte per annegamento a causa del non adeguato servizio di assistenza alla balneazione e di salvataggio: Il sindacato di proporzionalità di matrice Europea esenta il Comune, inadempiente agli obblighi cautelari, dal risarcire i danni da morte ove questa sia occorsa per “fatto” del danneggiato.

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Di Stefano Parma, Avvocato Cassazione Civile, Sez. VI, 22 settembre 2016, n. 18619 Danni- in genere MASSIMA: E' escluso l’obbligo risarcitorio delle pubbliche Autorità che abbiano violato i generali obblighi di precauzione per avere ricostruito, in fatto, quale unica causa della morte di un individuo, la sua condotta negligente di assunzione colpevole e volontaria di un rischio grave per la vita. Tale contegno supera, a parere della Suprema Corte, il controllo di proporzionalità richiesto dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo in tema di tutela del diritto fondamentale alla vita, oggetto dell’art. 2 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. IL CASO: I Sig.ri V. D.B., A. M. e S. D.B., in qualità di congiunti (rispettivamente genitori e fratello) del defunto F. D.B., proponevano ricorso per la revocazione della sentenza n. 11532 del 06 marzo 2014, emanata della Suprema Corte di Cassazione di Roma e depositata in data 23 maggio 2014. Tale procedura veniva proposta a seguito dell’accoglimento del ricorso proposto da Comune di C. avverso la sentenza n. 66 del 2011 della Corte d’Appello di Campobasso, ove lo stesso veniva condannato al risarcimento dei danni patiti dai congiunti per il decesso del Sig. F. D.B., annegato mentre faceva il bagno in un tratto di mare prospiciente il litorale del Comune sopra menzionato, privo di adeguato servizio di assistenza alla balneazione e di salvataggio o di segnalazioni sulla pericolosità del tratto di mare in questione. Il Comune di C., oltre a resistere al controricorso presentato dai congiunti del defunto, proponeva controricorso incidentale condizionato. La Corte di Cassazione riformava integralmente la sentenza della Corte territoriale adita, escludendo la responsabilità del Comune da cose in custodia ex art. 2051 c.c. ed, in ogni caso, l’assenza di qualsivoglia nesso causale tra l’annegamento del Sig. F.D.B. e la prospiciente spiaggia. A nulla rilevava nel caso di specie, a parere della Suprema Corte, l’assenza degli avvisi sulla pericolosità del luogo. Elemento dirimente ai fini della decisione verteva pertanto sull'individuazione della causa efficiente della morte del giovane. Ebbene, nel caso concreto essa veniva ravvisata nella condotta del soggetto che, coscientemente e volontariamente, si esponeva al rischio grave e percepibile con l’ordinaria diligenza di gettarsi, senza saper nuotare, in un tratto di mare agitato di cui non conosceva le impervie condizioni, né le correnti. Tale avventato contegno costituiva pertanto causa sopravvenuta, ex se, idonea a causare l’evento morte. A fronte di tale pronuncia, gli eredi del sig. F.D.B. decidevano di proporre ricorso per la revocazione della sentenza di Cassazione, ritenendo sussistente l’errore della Suprema Corte. Precisamente lamentavano l'errata: 1. qualificazione del tratto di mare antistante la piazza del Comune e 2. attribuzione di rilevanza a fatti risultati inesistenti a seguito dell’istruttoria. A tali motivi di ricorso gli istanti aggiungevano, altresì, la violazione dell’art. 46 dell’obbligo dell’Italia di conformarsi alle decisioni della Corte dei Diritti dell’Uomo e l'inosservanza dell’art. 2 della CEDU sul diritto alla vita. A fronte di tali motivi di ricorso, la Sesta Sezione coglieva l’occasione per chiarire la portata dell’istituto dell’errore revocatorio in tema di sentenze della Corte di Cassazione, così definendolo “ l’errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti del giudizio di legittimità e tale da aver indotto la stessa Corte di Cassazione a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nelle realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale, e non anche nella pretesa errata valutazione di fatti esattamente rappresentati”. Si desume pertanto che l’erroneità nella valutazione di fatti storici o della rilevanza di questi ai fini della decisione sono ipotesi che non consentono di accedere al mezzo d’impugnazione della revocazione. Alla luce della predetta definizione, la Suprema Corte adita rilevava l’insussistenza nel caso concreto di errori revocatori per poi esprime il principio di diritto sancito nella sentenza in esame. Tale principio di diritto, invero, ha pregio in quanto dimostra la capacità della Corte adita di compiere un ragionevole contemperamento tra gli interessi in gioco, entrambi meritevoli di tutela. In tale pronuncia si contrappongono, infatti, da un lato il diritto alla vita degli utenti da parte dello Stato e delle Autorità pubbliche, dall’altro il diritto della collettività a non dover subire, in un’ottica di autoresponsabilità, le conseguenze dannose derivante da condotte imprudenti e negligenti. Quale diritto deve prevalere a discapito della compressione dell'altro? LA QUESTIONE La condotta imprudente e negligente di un soggetto, che volontariamente e coscientemente si espone ad un rischio grave e percepibile con l’uso dell’ordinaria diligenza, può costituite causa efficiente ed esclusiva dei danni da esso derivati, quale persino la morte? Tale persino da escludere la responsabilità risarcitoria delle Autorità pubbliche che, tenute all'adempimento degli obblighi cautelari, li violi?! SOLUZIONI GIURIDICHE La Suprema Corte, adita con il mezzo revocatorio, risolveva la questione giuridica escludendo l’obbligo risarcitorio in capo alle Autorità pubbliche. Questo seppur avessero violato precisi obblighi cautelari sulla scorta dell’efficienza causale esclusivamente addebitabile alla condotta dell’utente. Quest'ultimo infatti con coscienza e volontà teneva una condotta negligente ed imprudente, assumendosi così il rischio delle proprie azioni. Tale pronuncia si fonda sulla necessità di compiere un bilanciamento efficace ed aderente al caso di specie tra due interessi contrapposti: da un lato, il dovere delle Autorità pubbliche di adempiere gli obblighi cautelari su di esse incombenti (per legge) e posti a presidio della vita degli utenti e, dall’altro, il principio di auto-responsabilità dell'utente stesso che, consapevole dei propri limiti, anche fisici, si assume il rischio della sua condotta. Il ragionamento giuridico della Corte che ha portato poi al principio di diritto in esame si fonda su un principio di matrice europea, il principio di proporzionalità. Nel contesto dell’ordinamento italiano l’influenza del principio di proporzionalità dell'UE si è manifestata in dalla prima metà degli anni '90, persino infrangendo la concezione dualistica del rapporto tra i due ordinamenti (nazionale e comunitario), i quali si presentano, a tenore della Corte Costituzionale, autonomi e distinti. Tale posizione politico-giuridica non ha però precluso al nostro ordinamento di ispirarsi e recepire principi cardine di matrice europea, primo fra tutti proprio quello di proporzionalità. Tal principio tende a bilanciare, ai fini di una corretta valutazione comparativa, gli interessi concretamente in gioco, senza attribuire un peso determinante alla misura del sacrificio patito dal singolo. Questo sindacato diventa invero sempre più complesso e stringente a mano a mano che involga diritti di rango superiore. Il principio sopra menzioanto si ispira pertanto ad un modello di tutela giurisdizionale certamente di tipo oggettivo e non morale. Nel caso di specie viene in rilievo il diritto alla vita, solennemente proclamato in tutte le Carte internazionale e sovranazionali che rappresentano il fondamento da cui poi discendono gli strumenti di tutela dei diritti dell’uomo e della personalità: ex multis, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A riprova si veda il disposto dell'art. 2 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali il quale prevede, al primo periodo del suo primo comma, che " il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge". Invero, è necessario evidenziare come nella Costituzione italiana non vi sia positivizzazione del diritto alla vita. La ratio di siffatta scelta la si rinviene nei lavori preparatori, a tenore dei quali è stato evitato ciò volontariamente per non dover essere costretti a restringere in un testo scritto concetti che appartengono - per usare l’espressione della sentenza della Corte costituzionale n. 1146 del 1988 – “ all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione stessa”. Nel nostro ordinamento i diritti della personalità, tra i quali il diritto alla vita, rinvengono un espresso riconoscimento costituzionale come in molte occasioni affermato dalla Corte costituzionale, precisamente nell’art. 2 Cost. Il diritto alla vita, nel caso di specie, è chiamato a fronteggiarsi con la responsabilità aggravata e la presunzione di colpa della p.a. ex art. 2051 cc.. In particolare con riferimento all’ipotesi di omessa custodia di beni demaniali e beni patrimoniali indisponibili, di cui quest'ultima è onerata per legge. Tale norma pone a carico del custode l’obbligo di risarcire i danni cagionati a terzi dalla res custodita, salvo il caso fortuito. In tal senso rileva, infatti, la responsabilità da omessa custodia che si configura ove ricorra: l’esistenza di un rapporto di custodia sulla cosa, il nesso di causalità tra la res ed il danno e il danno stesso. I principi giuridici che, secondo la giurisprudenza di legittimità, governano la materia, possono così riassumersi: “ la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia prevista dall’art. 2051 cod. civ., prescinde dall’accertamento del carattere colposo dell’attività o del comportamento del custode e ha natura oggettiva, necessitando, per la sua configurabilità, del mero rapporto eziologico tra cosa ed evento; tale responsabilità prescinde, altresì, dall’accertamento della pericolosità della cosa e sussiste in relazione a tutti i danni da essa cagionati, sia per la sua intrinseca natura, sia per l’insorgenza di agenti dannosi, essendo esclusa solo dal caso fortuito, che può essere rappresentato anche dal fatto del danneggiato, avente un’efficacia causale idonea a interrompere il nesso causale tra cosa ed evento dannoso (cfr. Cass. Civ., sez. III, 07.04.2010 , n. 8229, conf. Cass. Civ., sez. III, 19.02.2008, n. 4279 e Cass. Civ. sez. III, 05.12.2008, n. 28811). Dubbiosa risultava però, nel caso in esame, la natura giuridica e la qualificazione del bene “mare” e pertanto la riconducibilità di un siffatto bene al potere di custodia ex art. 2051 c.c. del relativo Comune. La problematica può comprendersi invero già richiamando le innumerevoli pronunce rese ex art. 2051 c.c. nell’ambito della circolazione stradale con riferimento proprio alle strade, nel proseguo ciò risulterà più chiaro. In tale ambito si è riscontrato un revirement del principio di responsabilità da cose in custodia. La Corte oggi distingue infatti i casi in cui il soggetto proprietario della strada ne abbia il controllo diretto e dunque la custodia (come accade per le strade urbane), da quelli in cui l’impossibilità concreta di controllo diretto esclude la custodia (come è per le strade extraurbane). I danni risentiti dai terzi a causa di vizi della strada, quali buche e simili, sono addebitati al proprietario ex art. 2051 cod. civ. in presenza della possibilità di controllo e quindi di custodia, mentre gli potrebbero essere ascritti solo sulla base del generale principio del neminem laedere (art. 2043 cod. civ.) in carenza di tale possibilità. Ebbene, analoga è proprio la concezione affermatasi nel campo parallelo dei beni demaniali marittimi: la responsabilità dello Stato per i danni derivanti dagli stessi viene ricondotta all’art. 2051 cod. civ. (responsabilità da cose in custodia) quando vi è la possibilità di controllo diretto, come è per i moli, le darsene, gli scivoli a mare e le altre opere, mentre deve essere valutata sulla base del criterio generale dell’art. 2043 cod. civ. in tutti gli altri casi, in cui non può esservi controllo diretto e quindi custodia (spiagge, litorali e simili). Sul punto si era espressa in senso ancor più estensivo proprio la Corte di Cassazione Civile (con la sent. sez. III, sentenza 23/05/2014 n° 11532) sostenendo che il mare non costituisce un bene suscettibile di “custodia” da parte del Comune perché non è un bene demaniale ma una res communis , pertanto insuscettibile di proprietà pubblica o privata. Lo si desumerebbe dal disposto degli artt. 822 c.c. e 29 cod. nav., i quali non comprendono il mare tra i beni demaniali. Precisa sul punto la sentenza che “ Il Collegio non ignora che, in precedenti occasioni, questa Corte ha affermato l’invocabilità della presunzione di cui all’art. 2051 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione per i danni causati da beni demaniali, ed in particolare dall’uso di strade aperte al pubblico in transito. Tuttavia in merito a tale orientamento due considerazioni si impongono: - in primo luogo, nessuna delle decisioni ad esso aderenti aveva ad oggetto una ipotesi di responsabilità per danni causati dal mare, il quale non è un bene di grande estensione, come le strade, ma un bene di sconfinata estensione; - in secondo luogo, anche le decisioni che aderiscono all’interpretazione più liberale dell’art. 2051 c.c., si fondano comunque sul presupposto che tale norma si applichi alla p.a. quando quest’ultima abbia una possibilità concreta di controllo sul bene demaniale”. Sulla scorta di tale ragionamento la Cassazione afferma che “non essendo dunque concepibile in iure un "demanio comunale" sul mare, nemmeno è concepibile un rapporto di "custodia" di esso da parte del Comune che sul mare si affacci ”. L’invocabilità della presunzione di cui all’art. 2051 c.c. per i danni causati da beni demaniali si fonda sul presupposto che sussista una possibilità concreta di controllo e di vigilanza sul bene, la quale, invece, con riferimento al mare manca completamente, avendo quest’ultimo dimensioni sconfinate ed essendo di stato mutevole. Alla luce di tutte le considerazioni suesposte la Corte di Cassazione, in sede di revisione, si trovava pertanto a decidere quali sacrifici imporre all'uno o all'altro diritto. Il Collegio riteneva però che il controllo di proporzionalità in punto di rispetto del diritto alla vita era stato operato in modo adeguato dal giudice che aveva emesso la pronunzia di merito, sopra esaminata, così condividendo il principio di diritto e accertando e dichiarando il rispetto dello stesso al principio di proporzionalità. OSSERVAZIONI Il principio di diritto così espresso contempera adeguatamente l'esigenza di tutela del diritto alla vita da parte dello Stato e dei pubblici poteri, che impone l'obbligo anche alle pubbliche autorità di adottare ogni precauzione per scongiurare pericoli per la vita stessa degli individui, con quella altrettanto ragionevole di non accollare alla collettività le conseguenze dannose di natura economica che derivino da condotte di esclusiva, volontaria e consapevole esposizione al rischio da parte dell'utente. Per il detto margine di apprezzamento quindi la tutela del diritto alla vita da parte dei pubblici poteri non può spingersi sino al risarcimento dei danni derivanti dalla condotta volontaria, la quale abbia di per sé costituito unica causa della lesione del danneggiato. Nel dubbio l’astensione è forse l’arma vincente e ove per incoscienza un soggetto decida comunque di agire assumendosi il rischio delle proprie azioni non può che vedersi applicato il principio di auto-responsabilità. Corollario dell'autoresponsabilità è certamente il principio di causalità, che impone l'imputazione del fatto dannoso al soggetto che lo ha causato, rendendo pertanto arbitrario il riverbero di siffatte conseguenze dannose in capo a soggetti terzi estranei alla condotta volontaria e cosciente del danneggiato. Il principio di diritto della sentenza in esame può così essere riassunto nella citazione: “ C’è ancora speranza di salvezza quando la coscienza rimprovera l’uomo” Publilio Siro Approfondimenti giurisprudenziali: - Cass. Civ. 23/05/2014 n° 11532; - Corte Costituzionale sulla concezione dualistica: storiche sentenze: La Pergola sentenza n. 170 del 1984 e le pronunce n. 348 e 349 del 2007 In materia di art. 2051 c.c.: - Cassazione Civile, sez. VI, 24 ottobre 2014, n. 1468; - Cassazione Civile, sez. III, 24 febbraio 2014, n. 4277; - Cassazione Civile, sez. III, 20 gennaio 2014, n. 999.

Pubblicazione legale

La legittimazione passiva dell’azione di risarcimento danni da black out del servizio di energia elettrica

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AUTORE Stefano Parma, Avvocato ESTREMI: Corte di Cassazione, Sez. III Civ., 23.01.2018, n. 1581 sentenza, Presidente Spirito Angelo – Relatore Dell’Utri Marco VOCE BUSSOLA: Responsabilità civile MASSIMA: “La società che si occupa della mera compravendita di energia elettrica non può essere chiamata a rispondere dei danni subiti dall'utente finale a causa di un black out imputabile al malfunzionamento della rete di trasmissione. Il legittimato passivo della pretesa risarcitoria è pertanto da individuarsi esclusivamente nella società che si occupa della produzione e del trasporto della stessa. Quest’ultimo soggetto infatti per i caratteri di autonomia ed indipendenza che lo contraddistinguono non può rientrare nell’alveo degli ausiliari (ex art. 1228 c.c.) dell’ente mero venditore di energia elettrica.” IL CASO Il Sig. N.M., in qualità di titolare della ditta M.S., conveniva in giudizio avanti al Giudice di Pace di X la società erogatrice di energia, S. S.p.a., al fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali subiti a causa di un black-out, protrattosi diverse ore, del servizio di erogazione dell’energia elettrica. Il primo Giudice accoglieva la domanda di risarcimento dei danni proposta dall’attore nei confronti della soc. S. S.p.a., in ragione del contratto di somministrazione concluso tra le parti, che obbligava quest’ultima alla fornitura dell’energia elettrica. Avverso siffatta pronuncia la società convenuta, soccombente in primo grado, promuoveva appello dinanzi al Tribunale di X. Il Giudice dell’impugnazione, a sostegno della decisione assunta dal Giudice di prime cure, confermava la condanna della società S. S.p.a., ritenendola responsabile ai sensi e per gli effetti dell’art. 1228 c.c. per i fatti comunque addebitabili al diverso ente distributore di energia, per la sua qualità di ausiliario della società convenuta. Impugnando tale sentenza la società S. S.p.a. proponeva ricorso per Cassazione, formulando quattro motivi, a cui resisteva con controricorso il Sig. N. M., nella sua qualità. QUESTIONE: In tema di fornitura di energia elettrica, al fine di individuare il legittimato passivo nell’eventuale causa di risarcimento dei danni subiti dall’utente finale per il black out, protrattosi per diverse ore, nell’erogazione dell’energia elettrica, è rilevante a livello giuridico distinguere tra ente rivenditore ed ente erogatore-gestore di energia elettrica? In altre parole, i soggetti che svolgono la gestione della rete e delle attività di trasporto di tale energia sono da considerarsi “ausiliari” dell’ente che si occupa della mera compravendita di energia elettrica? Il mero venditore di tale servizio è pertanto responsabile anche del disservizio della rete di trasmissione dell’energia in ragione del disposto di cui all’art. 1228 c.c., oppure di tale malfunzionamento ne risponde, ex se , il soggetto a ciò preposto? Il soggetto che trasporta energia elettrica è pertanto da considerarsi soggetto autonomo ed indipendente dal mero venditore di energia? SOLUZIONI GIURIDICHE: La disamina della pronuncia in oggetto necessita, preliminarmente e seppur per inciso, di addivenire alla qualificazione del contratto di fornitura di energia elettrica concluso dall’utente finale ed al quale segue l’invio delle ben note bollette. Ebbene, in giurisprudenza tale rapporto viene generalmente ricondotto nell’alveo del contratto tipico di somministrazione, in virtù del quale l’ente si impegna, dietro corrispettivo, nei confronti dell’utente finale alla fornitura continuativa di una certa quantità di beni o di servizi (art. 1559 c.c.). Rientriamo pertanto nella categoria dei contratti di scambio, all’interno della quale tale negozio si caratterizza per la periodicità della prestazione a cui il somministrante è obbligato. Colto così l’inquadramento contrattuale della fattispecie, è necessario introdurre, alla luce della liberalizzazione dei servizi di energia, il distinguo di recente acquisizione esistente tra le società che vendono l’energia elettrica, e quelle che invece tale bene producono, trasportano e distribuiscono alla rete elettrica fino a raggiungere l’utente finale. Comprendere tale distinzione non è problematica di natura meramente teorica, bensì, ha importanti ripercussioni sul piano giuridico. Ciò consente, infatti, all’utente finale di individuare correttamente il responsabile dei danni da black out dallo stesso subiti a causa del malfunzionamento della rete elettrica e pertanto il corretto legittimato passivo nei confronti del quale elevare la propria pretesa risarcitoria in previsione di un eventuale contenzioso giudiziario. Ebbene, per ente rivenditore di energia s’intende colui con il quale gli utenti firmano i contratti di fornitura, ovvero colui che sul mercato elettrico si occupa della mera compravendita dell’energia. Diversamente vi sono soggetti, altri e diversi dagli enti appena citati, dotati di effettivi e concreti poteri di gestione della rete di trasmissione dell’energia elettrica e del relativo trasporto, i quali sono preposti al regolare funzionamento della linea di trasmissione dell’energia e/o della struttura fisica deputata al suo trasporto e alla conseguente distribuzione al dettaglio. Siffatto delineato contesto ci consente ora di entrare nel vivo della questione giuridica sottesa alla pronuncia in esame, ovvero di interrogarci sull’applicabilità del disposto di cui agli artt. 1218 e 1228 c.c. all’ipotesi, come nel caso di specie, della richiesta di risarcimento dei danni arrecati all’utente finale a causa di black out del servizio di erogazione dell’energia elettrica per malfunzionamento della rete di trasmissione. Posta in questi termini la questione giuridica, va da sé la natura contrattuale (ex art. 1218 c.c.) del rapporto sotteso al contratto di compravendita di energia elettrica intercorrente tra l’utente del servizio e il soggetto venditore della stessa. Ebbene, per addivenire ad una soluzione, che è poi quella percorsa dalla Suprema Corte, ciò che invece deve essere indagata è la riconducibilità nel concetto di “ausiliario” ex art. 1228 c.c. dell’ente che si occupa della gestione della rete di trasmissione e trasporto dell’energia, rispetto al soggetto invece mero venditore di energia. Tale norma, in tema di responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari, costituisce estensione alla contrattualistica della disciplina contenuta negli art. 2048 e 2049 c.c., postulando, per la sua concreta applicabilità, l'esistenza di un danno causato dal fatto dell'ausiliario, l'esistenza di un rapporto tra ausiliario e committente (cd. rapporto di preposizione), l'esistenza, infine, di una relazione di causalità ("rectius", di occasionalità necessaria) tra il danno e l'esercizio delle incombenze dell'ausiliario (1). Per completezza, si precisa che l’espressione “nesso di occasionalità necessaria” è stata oggetto di chiarimento da parte della Suprema Corte, a tenore della quale essa deve intendersi “ senso che le mansioni affidate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno, a nulla rilevando che tale comportamento si sia posto in modo autonomo nell'ambito dell'incarico o abbia addirittura ecceduto dai limiti di esso, magari in trasgressione degli ordini ricevuti” . (2) In sostanza, la responsabilità di chi si avvale di terzi per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale trova fondamento nel rischio connaturato alla loro utilizzazione. Questo principio di diritto viene compendiato nell’espressione latina cuius commoda eius et incommoda , tradotto “ a colui che ha vantaggi, spettano anche gli svantaggi ”. Al riguardo l'art. 1228 c.c., nell'accollare al debitore le conseguenze del fatto doloso o colposo dei suoi ausiliari, rappresenta per giurisprudenza prevalente, una forma di responsabilità oggettiva che per sua natura rende superfluo l'accertamento di una culpa in eligendo o in vigilando , dal momento che il comportamento dell'ausiliario è valutato secondo gli stessi criteri applicabili in caso di adempimento diretto dell'obbligazione da parte del debitore. (3) Compresi così i presupposti per l’applicazione di siffatta responsabilità, la pronuncia in oggetto scandaglia la definizione normativa del concetto di ausiliario così come indicato nel disposto di cui all’art.1228 c.c. Ebbene, la definizione che la Suprema Corte adotta nella sentenza oggetto di odierna disamina è di granitica e costante creazione giurisprudenziale e postula che “ Possono considerarsi ausiliari del debitore, nei termini indicati dall'art. 1228 c.c., non tutti i soggetti della cui attività il debitore si avvalga per l'adempimento della propria obbligazione, ma soltanto coloro che agiscono su incarico del debitore ed il cui operato sia assoggettato ai suoi poteri direttivi e di controllo, a prescindere dalla natura giuridica del rapporto intercorrente tra loro ed il debitore medesimo, ovvero allorché sussista un collegamento tra l'attività del preteso ausiliario e l'organizzazione aziendale del debitore della prestazione”. (4) In altre parole, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che l’ausiliario di cui al disposto dell’art. 1228 c.c. è da considerarsi solo colui della cui attività il debitore si avvalga per l’adempimento dell’obbligazione, ovvero del soggetto che agisca su incarico di questo ed il cui operato sia assoggettato ai suoi poteri direttivi e di controllo. Coerentemente con tale consolidato orientamento giurisprudenziale, la Suprema Corte ha ritenuto che, rispetto all’ente che limita la propria attività alla sola compravendita di energia elettrica, non possa trovare applicazione l’art. 1228 c.c. con riferimento ai soggetti responsabili della gestione della rete nelle sue diverse diramazioni, così come delle attività di trasporto dell’energia fino al contatto con le singole utenze individuali. Infatti, basti considerare che in capo all’ente che si occupa della mera vendita dell’energia non possono riscontrarsi affatto i poteri direttivi e di controllo sui soggetti preposti alla gestione, trasmissione e trasporto dell’energia; requisito, come sopra espresso, essenziale ai fini dell’applicabilità della norma in esame. Questi ultimi infatti sono da considerarsi soggetti autonomi ed indipendenti da qualsiasi altro ente operante nel settore elettrico, controllando esso stesso infatti tutti i flussi di energia. Ciò detto, la Suprema Corte, concludendo il ragionamento giuridico, ha ritenuto che i soggetti che si occupano del regolare funzionamento della linea di trasmissione dell’energia e/o della struttura fisica deputata al relativo trasporto e distribuzione al singolo utente finale non possono essere considerati ausiliari ex art. 1228 c.c. di colui che si occupa della mera vendita all’utente dell’energia elettrica. In conclusione, alla luce delle considerazioni suesposte, la pronuncia in oggetto giunge alla declaratoria di difetto di legittimazione passiva della società venditrice dell’energia rispetto alla domanda di risarcimento dei danni formulata nei suoi confronti dall’utente finale per la mancata erogazione del servizio per il malfunzionamento della rete, a fronte dell’inapplicabilità dell’art. 1228 c.c. non rientrando nel concetto di ausiliario il soggetto autonomo ed indipendente che si occupa della trasmissione dell’energia. OSSERVAZIONI Si consideri che l’orientamento espresso dalla Suprema Corte, nella sentenza in esame, s’inserisce in un filone giurisprudenziale conforme nel tempo, a tenore del quale per non incorrere in un difetto di legittimazione passiva, in caso di contenzioso, l’utente finale del servizio deve avere contezza della distinzione, sopra meglio precisata, tra due soggetti, da un lato colui che è il mero venditore di energia e dall’altro, l’ente che invece si occupa della sua gestione, trasporto e distribuzione. Tale questione è sorta a seguito dell’intervenuta scissione tra tali soggetti. Infatti, diversamente da oggi, in passato si registrava il monopolio dell’energia in capo ad un’unica società, nota nel settore, la quale si occupava di tutti gli step della fornitura di energia elettrica, dalla compravendita sino all’erogazione alle singole utenze individuali. Un tempo, pertanto, era indubbio il soggetto da adire in giudizio nell’ipotesi di richiesta di risarcimento dei danni da malfunzionamento della rete. Oggi invece è necessaria la dovuta attenzione nella scelta del legittimato passivo. Infatti, il danneggiato deve considerare che ove i danni subiti, nella sua qualità di utente finale, derivino dal malfunzionamento della rete di trasmissione, alcuna responsabilità può essere addebitata alla società venditrice del servizio, risultando pertanto l’unico responsabile nei confronti del quale agire il soggetto preposto alla gestione, trasmissione e trasporto dell’energia. A ciò si aggiunga, altresì, la necessità per l’utente, ai fini dell’accoglimento della sua pretesa, di fornire la prova del c.d. danno-conseguenza rispetto al caso concreto. (5) Infine, per completezza, si precisa che il diritto al risarcimento dei danni, per i Giudici di merito, può consistere, oltre che in quello di natura patrimoniale, anche nel danno non patrimoniale, ciò ove la lesione presenti i connotati della serietà e della gravità (cfr. sentenze di San Martino delle Sezioni Unite Cass. 11 novembre 2008, n., 26972-75). GUIDA ALL'APPROFONDIMENTO: Riferimenti normativi: Artt. 1218 e 1228 c.c. Giurisprudenza rilevante: (1) Responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari: Cassazione civile, sez. III, 17/05/2001, n. 6756; (2) Sul concetto di “nesso di occasionalità necessaria”: Cassazione civile, sez. III, 22/09/2017, n. 22058, Ridare, articolo dell’1 agosto 2016, L'occasionalità necessaria nella responsabilità ex art. 2049 c.c.; (3) Natura oggettiva della responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari: Cass. Sez. III, 04.04.2003, n. 5329; (4) Concetto dell’ausiliario del debitore ex art. 1228 c.c.: Cassazione civile, sez. III, 08/10/2010, n. 20915 fattispecie in tema di black-out; (5) Danno conseguenza: Cass. Civ., Sez. III, 21.09.2009, n. 20324; (6) Risarcimento danno non patrimoniale: Tribunale Napoli, 16.04 2007; Tribunale di Potenza, Sentenza 17 agosto 2011, n. 1028.

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